Oltre il taccuino

(conferenza all’Università di Siena in occasione della presentazione dell’archivio fotografico digitale dell’Autore)

Una penna, il block notes e un paio di buone scarpe. Erano questi gli strumenti del mestiere quando cominciai a fare il giornalista, alla fine degli anni Settanta del secolo scorso. Mi sembra ieri. Ma è davvero passato un secolo…

Avevo la mitica Olivetti Lettera 22, la macchina da scrivere degli inviati di allora, quella che Montanelli teneva sulle ginocchia mentre batteva le sue corrispondenze da Budapest durante la rivolta del ’56. E una Leica a ottica fissa senza esposimetro regalatami da mio padre.

Il telefono, nei paesi dove feci le mie prime esperienze sul campo, in Africa e in Medio Oriente, era un aggeggio reperibile solo negli alberghi o negli uffici postali: non c’erano linee dirette, bisognava corrompere l’operatore per abbreviare i tempi di attesa e le comunicazioni erano disturbate, si interrompevano quasi sempre a ridosso della deadline della chiusura del giornale, gettando nel panico l’intera redazione. Si dettava il pezzo a un dimafonista, facendo lo spelling dei nomi e delle parole straniere.

L’alternativa era il telex, ma la procedura era ancora più complessa. Bisognava ribattere l’articolo su una tastiera che non prevedeva lettere minuscole né punteggiatura: la macchina produceva una strisciolina traforata lunga alcuni metri che, una volta stabilita la comunicazione, si doveva re-inserire nel telex badando a non invertire il senso degli indecifrabili geroglifici forati. Si componeva il numero telefonico del giornale, si premeva il tasto di scorrimento della striscia e si facevano gli scongiuri.

I primi computer comparvero nella comunità degli inviati all’hotel Meridien di Dhaharan, in Arabia Saudita, durante la guerra del Golfo del 1991. Eravamo agli albori della comunicazione elettronica. I telefoni satellitari, allacciati a smisurate antenne paraboliche, erano esclusivo appannaggio dei grandi network televisivi americani. I lap top erano strumenti primitivi: pesanti, con poca memoria, scarsa autonomia, display di dimensioni ridotte e male illuminati. I programmi di scrittura erano lenti e inaffidabili. L’“accoppiatore acustico” collegato al computer e al telefono, meraviglia tecnologica che avrebbe dovuto trasmettere il pezzo in pochi secondi, non funzionava quasi mai.

Poi, nel volgere di pochi anni, tutto è cambiato. I progressi dell’informatica, l’avvento delle televisioni all news, la diffusione di internet e dell’informazione globale hanno radicalmente trasformato il nostro mestiere e il ruolo stesso dei media. Oggi viaggio con un computer portatile a elevata autonomia e ricaricabile con pannelli solari nel cui hard disk ho immagazzinato uno sterminato archivio. Con un telefono satellitare delle dimensioni di un normale cellulare che mi consente di comunicare e di trasmettere in qualsiasi momento e in qualsiasi luogo, anche in mare o in mezzo al deserto. Posso avere accesso immediato a internet e consultare in tempo reale le agenzie di stampa, gli articoli di tutti i giornali del mondo, i data base del Pentagono, della Cia, dell’Onu, delle università e degli istituti di ricerca di politica internazionale. Ho una Canon digitale di ultima generazione e un software che mi permette di selezionare, editare, dimensionare e inviare le foto al giornale in pochi minuti.

Sono cambiate, nel frattempo, anche le guerre. La fine del bipolarismo e del confronto est-ovest ha rapidamente modificato il quadro strategico di riferimento che per mezzo secolo aveva regolato i rapporti di forza internazionali. Nuovi stati sono sorti dalle ceneri dell’ex impero sovietico, in Africa e altrove la vecchia divisione in due sfere d’influenza, sovietica e occidentale, ha cessato di esistere e sulla scena si sono affacciati altri attori politici ed economici emergenti, dalla Cina al Brasile, dalla Russia all’India. Ma la speranza che un astratto ordine mondiale avrebbe pacificamente sostituito la guerra fredda si è rivelata illusoria. Al contrario, il crollo delle ideologie che per mezzo secolo avevano congelato le relazioni internazionali ha generato una pletora di conflitti etnici, religiosi, nazionali: non solo nel cosiddetto “Terzo mondo” ma anche nel cuore dell’Europa.

L’11 settembre ha segnato un’altra svolta: la lotta al terrorismo ha assunto i connotati di uno scontro ideologico e culturale tra l’Occidente e il mondo islamico. Il terrorismo si è globalizzato, i gruppi integralisti si rafforzano e si diffondono in Medio Oriente, in Asia centrale, in Africa e nel Maghreb. Il processo di pace in Palestina si è arenato. L’invasione dell’Iraq e l’occupazione dell’Afghanistan hanno innescato una tragica spirale di sanguinosi conflitti.

Le guerre convenzionali, che vedevano impegnati due eserciti uno contro l’altro, hanno lasciato il posto alle guerre asimmetriche, classificabili in tre categorie: le guerre ipertecnologiche, apparentemente virtuali, pianificate al computer e combattute dalle potenze militari dotate di armamenti sofisticati (Stati Uniti, Nato) utilizzando soprattutto la forza aerea; le missioni di peace keeping e di peace enforcing sotto l’egida delle Nazioni Unite; e le guerre di guerriglia, o counter-insurgency.

Un dato, nelle guerre contemporaenee, è inoppugnabile: l’elevato e crescente numero delle vittime civili e degli operatori dell’informazione. Solo nel 2009 hanno perso la vita 77 giornalisti. Il lavoro dei cronisti sui fronti caldi è sempre più rischioso e deve oggi adattarsi alle diverse situazioni sul campo.

Nelle fasi aeree di un conflitto i giornalisti si trovano generalmente a considerevole distanza dal teatro bellico. I rischi personali sono ridotti al minimo, ma lo è anche la possibilità di verifica dello svolgimento delle operazioni. Durante l’intervento delle forze di terra cresce l’opportunità di raccogliere notizie e testimonianze sul campo, ma i rischi aumentano, anche per i reporter “embedded” con i militari. Rischi che aumentano ulteriormente nelle zone grigie delle guerre civili, dei conflitti striscianti, delle aree ad alta concentrazione di gruppi terroristici e di milizie armate fuori controllo. La libertà di azione e di movimento del giornalista è condizionata da fattori imprevedibili: attentati suicidi, rapimenti, sommosse, improvvise sparatorie, mine antiuomo, colpi di mortaio, tiri di cecchini.

Le precauzioni che adottavamo nelle guerre convenzionali non sono più sufficienti. E al rischio fisico si sommano altre difficoltà. Nell’era dell’informazione globale i media sono diventati essi stessi una potente arma a doppio taglio: un deterrente che condiziona le scelte politiche e militari, e dunque uno strumento di controllo democratico, un fattore centrale nella pianificazione delle operazioni belliche di cui i decision makers devono tener conto. Ma la tempo stesso chi controlla o influenza i media ha il potere di manipolare l’opinione pubblica e di determinare il consenso oggi indispensabile per qualsiasi decisione politica, militare e strategica. Capi di stato e di governo si parlano attraverso la Cnn e la Bbc. In ogni villaggio dell’Africa o della foresta amazzonica c’è ormai un’antenna tv. I profughi nei campi ascoltano la radio.

L’informazione è diventata un bene di prima necessità. E le responsabilità dei giornalisti sono aumentate a dismisura. Come pure le insidie della propaganda e di una disinformazione sempre più sofisticata e aggressiva: mantenere equilibrio e imparzialità di giudizio è una sfida sempre più difficile.

Assistiamo oggi a un rapido e a mio parere deleterio processo di concentrazione e omologazione dei media. Per contrastarlo occorre impadronirsi degli strumenti della comunicazione e produrre informazioni in loco. Molte iniziative in questa direzione sono già state avviate con successo: Telesur, l’agenzia Inter Press, Current Tv, che organizza corsi di formazione telematici e manda in onda servizi prodotti dagli utenti, i network arabi al-Jazeera e al-Arabiya, che offrono interpretazioni alternative delle vicende medio-orientali.

Un’altra minaccia che incombe sui media è la stretta finanziaria provocata dalla crisi economica mondiale. La pubblicità è in calo, la carta stampata – già in difficoltà per la concorrenza dei canali televisivi all news e di internet – segna il passo, numerose testate hanno chiuso o ridotto drasticamente i budget. In Italia, dove l’interesse per le vicende internazionali è già a livelli minimi (salvo accendersi come un fuoco di paglia in occasione di episodi che ci riguardano direttamente), a farne le spese sono soprattutto gli inviati di esteri. La tendenza a considerare superfluo il servizio dell’inviato sul campo, con il pretesto che tutte le informazioni possibili sarebbero ormai disponibili in tempo reale sul web, sulle agenzie o sui grandi network televisivi, è sempre più diffusa. I direttori, alle prese con bilanci problematici, sono meno disposti a investire in servizi che comportano costi elevati: voli su lunghe distanze, assicurazioni di guerra, permanenze prolungate. Il risultato è che in Italia l’informazione dall’estero, da sempre episodica e discontinua, è oggi ancor più frammentaria e quasi sempre correlata a vicende di politica interna.

La mia opinione, invece, è che nessuna agenzia elettronica, per quanto tempestiva, potrà mai sostituire il racconto in prima persona di un giornalista al fronte. Sono proprio la quantità e la rapidità delle informazioni che bombardano gli utenti a rendere indispensabile il lavoro dell’inviato, capace di intrepretare e approfondire i fatti anche con l’ottica e la visuale del proprio paese di provenienza. Una testimonianza diretta è spesso più efficacie di un’analisi scritta a tavolino. Una storia o un’intervista possono offrire una chiave di lettura più esauriente.

Ma oggi non bastano. Se un tempo penna e block notes erano sufficienti, ora i professionisti dell’informazione, per restare sul mercato, devono attrezzarsi per utilizzare tutte le piattaforme tecnologiche dell’universo multimediale: testi, immagini, video, blog, siti web. Lo impone la ferrea logica del contenimento dei costi e dell’ottimizzazione dei risultati. Quando sono in trasferta, oltre agli articoli sono sempre più spesso sollecitato a produrre fotografie, video e contenuti aggiuntivi per il sito online del giornale. Se poi mi imbatto in qualche “hot news” o in una situazione di emergenza dove non sono presenti colleghi di altre testate, piovono richieste di interviste radiofoniche e di collegamenti televisivi. Un impegno a 360 gradi, 24 ore su 24, ad alto tasso adrenalinico.

Tuttavia la figura del reporter globale che scrive, registra, scatta foto e le trasmette in tempo reale, invia corrispondenze radiofoniche e televisve, non mi convince. La prospettiva che il giornalista del futuro debba trasformarsi in un automa mediatico con la Canon al collo, la videocamera in una mano, il telefono satellitare nell’altra e il computer nello zainetto mi pare alquanto deprimente: un prodotto poliedrico e confezionato in fretta non è necessariamente migliore o più esaustivo. Rischia semmai di scadere in qualità, alimentando il dilettantismo e la superficialità già abbondantemente presenti nei media. Un giornalista di buona penna può non avere l’abilità di un cameraman o lo sguardo esperto e la prontezza di un fotografo. Sono mestieri e linguaggi diversi, che richiedono tecniche specifiche e metodologie di lavoro talvolta incompatibili. A meno che, ed è questo il punto, gli standard qualitativi non siano più ritenuti influenti.

Personalmente, per quanto possibile, mi sforzo di non valicare i limiti delle mie competenze professionali: scrivere e fotografare. Testi e foto sono mezzi di comunicazione e di espressione complementari, ma distinti e non sempre facilmente coniugabili. Una buona foto, che non sia un mero supporto illustrativo, è il risultato di una molteplicità di fattori a volte imprevedibili: la casualità di un incontro, l’evento improvviso, l’intuizione di un’inquadratura o di un taglio di luce. In esterno le condizioni ambientali più favorevoli si verificano spesso al tramonto, all’alba e di notte, quando chi scrive è di solito inchiodato alla tastiera del computer.

Il fotografo è un cacciatore di immagini e come ogni cacciatore non deve mai perdere la concentrazione, la forma fisica, l’attenzione al particolare in apparenza insignificante, la traccia che lo guiderà all’appuntamento con lo scatto, al posto giusto nel momento giusto. Le strade del fotografo e del cronista, che va a caccia di storie e di notizie, s’incrociano ma non sempre coincidono. Il fotografo deve saper guardare, il giornalista deve soprattutto ascoltare.

L’archivio digitalizzato che l’Università di Siena ha voluto realizzare e che metto volentieri a disposizione degli studenti, copre un arco temporale di più di 35 anni e documenta il mio lavoro in oltre 120 paesi del mondo e in numerosi fronti di guerra. A volte è la forza del racconto a prevalere. Ma dove le parole risultano banali, inadeguate a descrivere un dolore, un’attesa, un vuoto o un silenzio angosciato, le immagini – alcune immagini – acquistano un potente significato simbolico ed evocativo. Diventano, esse stesse, il racconto: e non c’è altro che si possa aggiungere.

 

Giovanni Porzio

24.05.2010

 

 

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