Il puzzo della morte
si sente da lontano

In Il braccio legato dietro la schiena. Storie di giornalisti in guerra, a cura di Mimmo Candito, Baldini Castoldi Dalai, 2004

Ho indossato poche volte il giubbotto antiproiettile. Nel Kurdistan iracheno, mentre sul fianco di una collina disseminata di ordigni antiuomo seguivo il lavoro di uno sminatore inglese: faceva freddo, ma eravamo madidi di sudore per la tensione. A Betlemme, durante la seconda intifada, quando avanzando nelle strade deserte verso la chiesa della Natività sentivi le pallottole dei cecchini rimbalzare sui muri delle case. E in un paio di circostanze obbligatorie, al seguito dei militari: su un elicottero in volo di ricognizione sopra le macerie di Mogadiscio e a Nassiriyah, durante un pattugliamento notturno con i parà del battaglione Tuscania. Ho sempre pensato che con quell’armatura addosso, 15 chili di lastre di ceramica, sarei stato un bersaglio più facile da colpire: visibile, impacciato nei movimenti e nella corsa, con i riflessi rallentati dalla fatica di sopportare il peso. E poi non sai mai dove infilare la penna e il taccuino, per non parlare della macchina fotografica, che rischia di essere confusa con un’arma automatica.

Nel ’95, a Grozny, un giubbotto mi è quasi costato la vita. L’interprete che mi accompagnava aveva insistito e a Mosca, prima di partire per la Cecenia, ne avevamo acquistati due di seconda mano sulle bancarelle di un mercato: vecchi modelli sovietici verde oliva, così pesanti che andando a piedi verso le prime linee, con lo zaino in spalla, dovemmo trascinarli su uno di quei carrellini a ruote di cui si servono le massaie per fare la spesa. Quando fu il momento di usarli ci rendemmo conto che sarebbe stata una follia. Tra l’ultimo check point dell’esercito di Boris Eltsin e le postazioni della guerriglia che intendevamo raggiungere c’era un avvallamento privo di ripari: bisognava attraversarlo a tutta velocità, durante una pausa del fuoco, e gettarsi bocconi in un fossato. Con i giubbotti i ribelli ci avrebbero preso per militari russi e ci avrebbero sparato, ma l’interprete – che certo pensava di rivenderli – non volle disfarsene.

Cominciammo a correre. Il carrello sobbalzava sui sassi e finì col rovesciarsi: fummo costretti a fermarci per raccogliere i giubbotti e in quel preciso istante esplosero le prime granate dei mortai, seguite dalle raffiche dei mitra e dai colpi secchi dei fucili di precisione. Una donna vestita di nero, sbucata dal nulla, ci fece segno di seguirla lungo un camminamento tra bassi muretti di pietra e carcasse di veicoli carbonizzati. Pochi minuti dopo eravamo al sicuro, nell’androne di un palazzo bombardato pieno di sfollati e di bambini atterriti. Dissi all’interprete che se non ci sbarazzavamo di quelle inutili corazze avrei proseguito da solo.

Questo episodio mi è tornato spesso in mente dopo la morte di Raffaele Ciriello, ucciso da sei proiettili di mitragliatrice che un soldato israeliano gli ha scaricato nello stomaco a Ramallah, scambiando la sua telecamera per l’arma di un palestinese. Raffaele era un tipo schivo. Nella casa che avevo affittato a Jabal Saraj, ai piedi delle montagne dell’Hindu Kush, mentre aspettavamo l’offensiva dei mujahiddin contro i taliban asserragliati a Kabul, era il benvenuto. Ma entrava sempre in punta di piedi, come se temesse di dare fastidio. Era un freelance, e i freelance rischiano più degli altri: per vendere il loro lavoro devono avere immagini esclusive, spingersi più avanti, osare fino al limite. E la linea rossa è molto sottile: la attraversi senza accorgerti, in una frazione di secondo.

Ciriello è morto perché dopo aver fotografato un carro armato in azione ha voluto anche riprenderlo: oltre alle foto, pensava di poter vendere il filmato a qualche televisione. E’ uscito allo scoperto, con la Sony digitale puntata verso il tank. Nelle ultime immagini si vedono le pallottole che lo hanno ucciso. Forse quel giubbotto che molti inviati e inviate “di guerra” indossano come un distintivo davanti alle telecamere piazzate sui tetti degli alberghi a cinque stelle lo avrebbe salvato.

C’era persino stato una specie di presagio. Qualche mese prima (novembre 2001), durante la battaglia di Kabul, ero con Marco Di Lauro, fotografo di Getty Images che allora lavorava per l’Associated Press. Eravamo con una colonna di mujahiddin che avanzava verso Kabul, nei dintorni dell’aeroporto di Baghram, ed eravamo decisi ad arrivare per primi nella capitale afghana. Marciavamo in fila indiana, facendo bene attenzione a calpestare le orme di chi ci precedeva: c’erano mine dappertutto.

All’improvviso fummo bersagliati dai mortai dei taliban. Le granate cadevano sempre più vicine e cercammo un riparo tra le rovine di una casa. Marco decise di tornare indietro verso la base di Jabal Saraj per trasmettere le foto. Si sollevò di scatto scagliandosi a testa bassa lungo un viottolo di campagna. Il cecchino attese qualche istante, il tempo di aggiustare la mira, quindi sparò colpendolo nella schiena. Guardai Marco volare per alcuni metri e cadere bocconi in avanti. Trattenni il fiato. Lo vedevo immobile nella polvere. Poi si rialzò e riprese a correre, scomparendo tra i cespugli. Seppi più tardi che era illeso: la pallottola del Kalashnikov aveva sbriciolato la placca di ceramica del giubbotto.

Ho raccontato questi episodi per dare un’idea dei problemi pratici che si devono affrontare nelle zone di guerra. C’è un’infinità di questioni concrete, logistiche, organizzative che precedono la raccolta delle informazioni e la stesura di un articolo. E non sono aspetti secondari. Come un soldato, il corrispondente di guerra deve dotarsi di un adeguato equipaggiamento. Il suo zaino dev’essere leggero, ma contenere alcuni oggetti indispensabili: mappe dettagliate del terreno, torcia, bussola, fiammiferi, coltello multiuso, radio a onde corte, sacco a pelo, borraccia con l’acqua, un po’ di viveri per l’emergenza, antimalarici e zanzariera nei climi tropicali. E ovviamente gli strumenti del mestiere: penna e taccuini, computer, macchina fotografica, telefono satellitare, scorte di pile e dove non c’è energia elettrica pannelli solari, cavi e trasformatori per sfruttare le batterie delle auto.

A volte ci si trova di fronte a scelte difficili. La scorta, per esempio. A Mogadiscio, città in preda all’anarchia più assoluta, dove le fazioni si combattono casa per casa, è impossibile non dare nell’occhio: sette o otto uomini armati di mitra e lanciarazzi sono un efficace deterrente. Quando il 20 marzo 1994 arrivai sul luogo dell’omicidio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin appresi con sconcerto che avevano una sola guardia del corpo: un ragazzino di 17 anni con un vecchio AK 47 di fabbricazione cinese.

Ci sono invece situazioni in cui è meglio passare inosservati. A Baghdad, dove gli stranieri rischiano in ogni momento di diventare ostaggi nelle mani di terroristi ansiosi di decapitarli, devi cercare di renderti invisibile: barba lunga, capelli corti, abiti dimessi, niente occhiali scuri, niente gilè multitasche, satellitare nascosto sotto il sedile dell’auto, che dev’essere una normale berlina con targa irachena, meglio se un po’ vecchia. Devi guardarti intorno, controllare lo specchietto retrovisore e spiare i tetti delle case, tenerti lontano dai convogli militari e dalle stazioni della polizia, gli obiettivi prediletti dei kamikaze.

Fidarti dell’istinto. Il puzzo della morte si sente da lontano. Avverti il pericolo nell’aria: un brivido sottile che striscia sulla pelle, sui nervi della schiena. Ma a volte sei stanco, non hai mangiato, batti denti per il freddo. O fai l’errore più grave: quello di crederti al sicuro. Hai la sensazione di muoverti sul set di un film: non sono veri quei carri armati che sparano contro i minareti della moschea di Aadamiya, quei ragazzini con la kefiah e il Kalashnikov, quei camion inceneriti sulla strada dell’aeroporto, quegli Apache che sputano scie di fuoco nella notte, quelle urla e quei volti pietrificati nelle corsie degli ospedali. Poi capisci che gli attori muoiono sul serio. Succede quando capita a un tuo amico: l’autista che ti aveva accompagnato al ristorante, l’interprete con cui avevi un appuntamento, il collega con cui hai vissuto e lavorato. Ilaria, Miran, José, Maria Grazia, Julio, Ulf, Patrick..

Avevo conosciuto Patrick Bourrat, inviato della tv francese, in una prigione di Bassora, durante la guerra del ’91. Era il giorno dell’armistizio. Da Kuwait City ci eravamo spinti in territorio iracheno senza incontrare ostacoli: l’esercito di Saddam era in rotta, il cielo era oscurato dal fumo dei pozzi di petrolio in fiamme e con la jeep facevamo lo slalom tra le schegge e le bombe inesplose. A Bassora si combatteva ancora: gli sciiti erano insorti, convinti che gli americani sarebbero accorsi in aiuto. Si sbagliavano. Quando arrivammo alle porte della città il massacro era già cominciato.

C’era un ponte distrutto ma eravamo decisi a trovare il modo di attraversare il fiume. Nella mia Toyota c’erano Gabriella Simoni e Lorenzo Bianchi: ci seguivano altre jeep con una quindicina di fotografi e giornalisti. Scendemmo lungo l’argine, avanzammo nella sabbia e svoltammo dietro un’altura, finendo nelle braccia di un reparto corazzato della Guardia repubblicana impegnato a bombardare la città con l’artiglieria pesante. Fummo tenuti prigionieri una settimana in una caserma abbandonata e poi trasferiti in elicottero a Baghdad, dove ci consegnarono alla Croce rossa internazionale.

Rividi altre volte Patrick: a Gerusalemme, una sera d’inverno, al bar dell’American Colony; in Kosovo durante la battaglia di Pec; in Afghanistan, mentre riprendeva un tank dell’Alleanza del nord. Ero a Baghdad, nel marzo 2003, a pochi giorni dall’inizio dell’ultima guerra, quando lessi su internet che era morto schiacciato dai cingoli di un carro armato americano nel corso di un’esercitazione alla frontiera kuwaitiana.

Un mese dopo toccò all’ucraino Taras Protsyuk, dell’agenzia Reuters, e a José Couto, il cameraman della spagnola Tele Cinco. Era l’8 aprile e i marines, dopo due settimane di devastanti incursioni aeree, stavano entrando nella capitale irachena. Quel mattino avevamo visto i caccia A-10 Warthog che mitragliavano con i proiettili perforanti il ministero della Pianificazione, sull’altra sponda del Tigri. E poco dopo era giunta la notizia che un F-15 aveva colpito l’ufficio della tv araba al-Jazeera uccidendo un altro collega, Tareq Ayub.

Verso mezzogiorno mi trovavo sul terrazzino al sedicesimo piano dell’albergo e stavo parlando al telefono satellitare con mio figlio Francesco, di 8 anni. L’esplosione, improvvisa e assordante, mi fece cadere all’indietro, con il ricevitore in mano e Francesco che chiedeva “Cos’è stato, papà, cosa succede?” Riuscii a tranquillizzarlo e mi affacciai al balcone, mentre una densa nube nera si dileguava nella caligine oltre il tetto. Una delle granate aveva staccato un blocco di cemento del muro, a meno di due metri dai miei piedi. Le altre avevano centrato due camere sul lato opposto, al 15° e 14° piano. A sparare sull’hotel dei giornalisti, “per errore” sostenne poi il Pentagono, era stato un tank americano. Taras morì quasi subito. José poco dopo, all’ospedale.

In quell’occasione vidi per l’ultima volta Mohammed Saeed al-Sahaf, “MSS”, il grottesco ministro dell’Informazione iracheno, diventato un personaggio cult in virtù delle fantasmagoriche panzane che sparava in diretta sui network di tutto il mondo. “Geniale!” aveva ammesso George W. Bush. “E’ il mio uomo a Baghdad”. Nella lugubre atmosfera della città assediata, “Comical Ali” (detto anche Baghdad Bob, Shahrazade di Baghdad e l’Harpo Marx dell’Iraq) era uno spasso. Una ditta del Connecticut, la Hero Builders, specializzata in pupazzi parlanti, aveva persino lanciato sul mercato, a 36 dollari, la “Iraqi Dis-information minister Action Figure Doll”. Un sito web dedicato “al ministro che si erge al di sopra della verità” vantava più di 4 mila contatti al secondo e includeva un “florilegio di citazioni immortali”: classici come “La mia previsione iniziale è che moriranno tutti” e “La mia sensazione è che li massacreremo”, fino al profetico “Dio arrostirà i loro stomaci all’inferno”.

Quel giorno l’ex tirapiedi di Saddam assurto al rango di star mediatica internazionale diede il meglio di sé. I tank americani erano appostati nel palazzo presidenziale sulla riva opposta del fiume, a meno di 400 metri dall’albergo. I soldati iracheni se la davano a gambe sull’argine o cercavano scampo a nuoto. Colonne di mezzi blindati avanzavano verso il centro della capitale. MSS, imperturbabile, in divisa verde oliva, basco nero e pistola alla cintura, sfoderò il consueto ghigno sarcastico e in un impeto d’ispirazione annunciò al mondo che la realtà non esiste: è solo un’illusione. “Non prestate fede alle menzogne dei mercenari anglo-americani: li abbiamo circondati e li faremo a pezzi! L’Iraq sarà la loro tomba. Io vi dico che gli infedeli si stanno suicidando a centinaia alle porte della città”.

Confesso che a volte, nei momenti di stanchezza, le sue spudorate menzogne mi erano apparse credibili. Come quando asserì che gli inglesi avevano impedito a quattro navi cariche di aiuti umanitari di attraccare al porto di Umm Qasr. “Ecco il vero volto di quel cane malato di Bush!” tuonava MSS. “Ecco il vero obiettivo di quei vigliacchi criminali: affamare il popolo iracheno! Sono animali, sono un serpente boa: ma noi lo taglieremo a fette!” E giù le cifre: tonnellaggio e nomi dei cargo, bandiera di appartenenza, minuziosa descrizione delle merci trasportate.

Il teatrino dei suoi briefing serali, che dopo il bombardamento del ministero dell’Informazione si svolgevano in una sala del Palestine Hotel, era uno spettacolo da non perdere. Dovevamo sopportare un’atmosfera da caserma e le intimidazioni degli agenti del mukhabarat nei confronti dei colleghi che, impegnati a scrivere o in una diretta televisiva, cercavano di bigiare l’annunciata conferenza stampa. Ma eravamo largamente ripagati dalle gag di Comical Ali.

Più devastanti erano le batoste inflitte sul campo alle forze armate di Baghdad, più i suoi toni si facevano trionfalistici: “All’aeroporto abbiamo preso 650 prigionieri. Il presidente ha dato ai mercenari un ultimatum di 72 ore per lasciare il Paese. Altrimenti, saranno massacrati!” Una tv araba mostrava la resa dei soldati di Saddam? “Quelli non sono iracheni” ironizzava al-Sahaf. “Da dove li hanno portati?” I marines si impadronivano dei ponti sul Tigri? “Non c’è un solo soldato americano in città” assicurava l’ineffabile ministro, teso nell’eroico sforzo di negare l’evidenza dei fatti.

Il suo capolavoro fu, nei primi giorni della guerra, la felliniana trovata di un inesistente pilota americano abbattuto nel cielo di Baghdad, che scatenò una frenetica caccia all’uomo sulle rive del Tigri: centinaia di iracheni, incitati dagli sgherri del partito, giuravano di averlo visto staccarsi dal paracadute e precipitare nel fiume, che fino a notte inoltrata riverberò dei fuochi appiccati per stanare la preda. E quando anche gli sciuscià che stazionavano davanti al Palestine avevano capito che la guerra era perduta, MSS si ostinava a enumerare le strepitose vittorie irachene sostenendo che “mentire è vietato in Iraq: il presidente non tollera altro che la verità”.

La verità: è questa la prima vittima di ogni guerra. Ed è questo il vero fronte sul quale combattiamo la nostra quotidiana battaglia.

Sappiamo che nelle guerre contemporanee l’informazione non è più soltanto, come è stata in passato, una delle armi a disposizione degli opposti schieramenti. E’ diventata l’arma per eccellenza, la vera bomba atomica della nostra epoca. Senza l’appoggio di una larga parte degli americani Bush non avrebbe potuto invadere l’Iraq. Come ha detto Shimon Peres riferendosi al conflitto in Medio Oriente, “Oggi quello che raccontano i media è più forte di ciò che avviene realmente sul campo di battaglia. E’ un dato fondamentale: le immagini e le informazioni diffuse a flusso continuo rendono molto difficile il controllo delle emozioni e delle reazioni dei due popoli che si fronteggiano”.

L’informazione è dunque un’arma a doppio taglio. E’ un deterrente che condiziona le scelte politiche e militari, dunque un elemento di maggiore democrazia, uno strumento di controllo, un fattore centrale nella pianificazione delle operazioni belliche di cui i decision makers devono tener conto. Al tempo stesso pone questioni delicate: chi governa i media ha il potere di influenzare e di manipolare l’opinione pubblica, di determinare il consenso a questa o a quella decisione strategica. Anche il giornalista si ritrova in questa trincea: le sue responsabilità aumentano e solo un elevato livello di competenza, esperienza, professionalità e rigore morale possono difenderlo dalle trappole della propaganda e della disinformazione.

Non sempre le menzogne, come nel caso della rozza propaganda irachena, sono facili da smascherare. Si annidano nelle false notizie, nei “rumors” di strada, nella contraddittoria valanga di dichiarazioni, cifre, grafici, scenari, indiscrezioni che internet rovescia senza sosta sul video del nostro lap top alimentando l’illusione di una realtà sotto controllo, di una verità a portata di mouse, documentata in tempo reale.

Le nuove tecnologie sono di grande aiuto. Io ho iniziato a fare questo mestiere quando si usava la macchina da scrivere, si inviavano gli articoli con estrema lentezza e difficoltà dettandoli al telefono fisso o battendoli al telex. Oggi viaggio con un computer portatile e con un satellitare che mi consentono di avere accesso immediato a tutte le agenzie di stampa, di consultare gli archivi di tutti i giornali del mondo e di trasmettere il mio pezzo in qualsiasi momento e in qualsiasi luogo, anche in mezzo al deserto. Abbiamo più informazioni, ma non meno occasioni di restare impigliati nelle maglie della propaganda.

Gli esempi sono numerosi. False informazioni sono state propalate a piene mani da Saddam Hussein durante la prima guerra del Golfo, dai serbi e dai musulmani bosniaci a Sarajevo, ancora dai serbi e dagli albanesi in Kosovo, dagli indonesiani a Timor Est, dai cinesi in Tibet, da indiani e pakistani in Pakistan. La Casa Bianca ha taciuto per anni anche sulle conseguenze dell’impiego di proiettili all’uranio spento, causa di tumori e di malformazioni genetiche. Durante la guerra in Kosovo la Nato ha diffuso immagini satellitari di fosse comuni che tali non erano.

Subito dopo gli attentati dell’11 settembre 2001 gli Stati Uniti lanciarono un’inedita e articolata campagna mediatica, ideata dal sottosegretario alla Difesa Paul Wolfowitz. Con un budget straordinario e la direzione affidata al generale dell’aviazione Simon Warden, fu istituito l’Office of Strategic Influence, che aveva il compito di influenzare l’opinione pubblica dei paesi alleati e degli “stati canaglia” e di dimostrare con ogni mezzo, anche con la diffusione di notizie false, l’esistenza di prove che potessero giustificare un attacco preventivo contro l’Iraq.

Alcuni “scoop” o certe inchieste e “fughe di notizie” ispirate dalla Cia fecero sorridere, almeno in Europa, per la loro palese infondatezza. Come la storia del presunto connubio tra Saddam e Bin Laden. Per oltre un anno circolò l’indiscrezione – ripresa da tutti i maggiori organi di stampa – che il capo dei dirottatori dell’11 settembre, Mohammed Atta, si era incontrato con emissari di Saddam nei locali dell’ambasciata irachena a Praga: una “prova schiacciante” del legame tra Baghdad e i terroristi di al-Qaeda. Ma l’allora presidente ceco Havel, dopo approfondite indagini dei servizi di sicurezza, fu costretto a notificare alla Casa Bianca che quell’incontro non era mai avvenuto. La smentita fu pubblicata alla fine di ottobre del 2002 sull’Herald Tribune, accanto a un imbarazzato articolo nel quale si sosteneva che la Cia addossava la responsabilità della falsa notizia a un ignoto “informatore”.

Dopo la pubblicazione, nel 2002, del libro-intervista dell’ex ispettore dell’Onu Scott Ritter (War on Iraq: what team Bush doesn’t want you to know) solo Bush e Tony Blair continuarono a fingere di credere che l’Iraq possedesse armi di distruzioni di massa. Ma solo di recente lo stesso Wolfowitz ha riconosciuto che si trattava di “un pretesto” per convincere gli alleati europei recalcitranti a partecipare all’offensiva militare.

Ricordo bene, a questo proposito, il giorno del mio arrivo a Baghdad, il 5 febbraio 2003. Lasciati i bagagli all’Hotel Rashid, mi precipitai alla conferenza stampa organizzata dal regime per sbeffeggiare l’intervento di Colin Powell alle Nazioni Unite, conclusosi poche ore prima. “Ecco finalmente le nostre armi di distruzione di massa” stava dicendo il portavoce del governo additando il fermo-immmagine del segretario di Stato che, grave e accigliato, brandiva una provetta con una polverina bianca. “Sono al Palazzo di vetro!” Risate generali. “E domattina” aggiunse indicando le foto satellitari di un sito sospetto mostrato da Powell “potrete vedere i nostri missili con testate chimiche, biologiche e nucleari!” Il luogo incriminato non era altro che un centro di sperimentazione per i motori dei missili al-Samud che gli ispettori dell’Onu avevano appena visitato, senza rilevare anomalie.

Di fronte all’aggressione della propaganda dobbiamo difenderci a oltranza. Come? Io cerco di attenermi ad alcune vecchie, fondamentali regole: non partire mai con idee preconcette (l’articolo “già scritto nella testa”); immagazzinare tutte le informazioni possibili, ma non fidarsi di nessuno; controllare rigorosamente le fonti; raccontare solo quello di cui sono testimone senza giungere a conclusioni affrettate; mantenere un atteggiamento equanime senza lasciarsi condizionare dall’emotività e dagli eventi; non restare mai chiuso in albergo ma andare sul campo a vedere di persona.

Restare ancorati ai fatti continua a sembrarmi l’unico antidoto, l’unico modo per essere credibile. Rimango sempre di stucco quando leggo sui giornali, italiani e stranieri, le presuntuose analisi degli “esperti” o il commento del trombone di turno che– badando bene a calibrare i toni, con un occhio alla carriera e l’altro all’editore di riferimento – ti spiega che cos’è la guerra che non ha mai visto, tratteggia con mano sicura gli scenari internazionali scopiazzati sui siti dei think tanks e ripartisce un tanto al chilo torti e ragioni, tranciando giudizi inappellabili e dando lezioni di morale.

Ha ragione Graham Greene, che al protagonista di The Quiet American fa dire: “Sono un reporter; Dio esiste soltanto per quelli che scrivono gli articoli di fondo”. Io mi accontento di raccontare frammenti di vita, spezzoni di realtà. Mi limito a raccogliere le briciole. Anche Kharrar era una briciola.

Aveva 9 anni e abitava a Shu’ala, uno dei quartieri più poveri di Baghdad: casupole fatiscenti, fogne a cielo aperto, vicoli sterrati pieni d’immondizia. Quando alle 18.30 di venerdì 28 marzo 2003 la bomba esplose nel mercato di an-Nasir, le botteghe dei fornai e le bancarelle erano affollate di massaie con la borsa della spesa e nel piazzale i ragazzini giocavano a rincorrersi tra i sacchi di riso e le cassette di verdura. Kharrar è morto senza accorgersene, trafitto al petto e alla schiena dalle schegge, insieme ad altri 13 bambini e 42 adulti.

Appena seppi della strage corsi fuori dal Palestine eludendo la sorveglianza degli spioni del mukhabarat che stazionavano nella hall dell’albergo e con Manhal, il mio fidato autista, raggiunsi il mercato di Shu’ala. Osservai il cratere: non aveva le dimensioni delle voragini dei Tomahawk o degli ordigni da una tonnellata dei B-52. Forse era uno dei razzi della contraerea irachena. Non era il primo a cadere sulle zone abitate. Saddam non si preoccupava certo di risparmiare le vite dei civili.

Cercai l’ospedale. Le corsie erano stipate di amici e parenti in gramaglie, il pavimento era coperto di sangue. Dalle sale operatorie uscivano medici con il camice insozzato, gli occhi arrossati e la sigaretta accesa tra le labbra. C’era un viavai di uomini armati e di feriti in barella, con la flebo nel braccio. Mi avvicinai a un secchio di plastica dimenticato in un angolo: dentro c’era quel che restava di una gamba.

Un infermiere mi tirò per la giacca: “Vieni a vedere!” urlava. Scendemmo le scale fino all’obitorio. Aprì i pesanti sportelli d’acciaio di due celle frigorifere: erano donne e ragazzini, rigidi e bianchi come fantasmi.

Sentii il bisogno di un po’ d’aria e tornai nella strada. Nel buio scorsi una fila di persone e le seguii fino alla piccola moschea sciita del quartiere. Entrando fui colpito dal silenzio, rotto da preghiere e da pianti sommessi. Una folla muta si stringeva attorno alle bare di legno allineate di fronte al mirhab, la nicchia che indica la direzione della Mecca. Ero l’unico straniero e mi fermai impietrito accanto al feretro di un bambino, incerto sul da farsi.

Parlò per primo il padre. E con mia sorpresa in italiano. “Sono Abu Mehdi” disse tra le lacrime. “Mio figlio si chiamava Kharrar”. Spiegò che era stato in Italia: quattro anni a bordo di una fregata della Marina irachena bloccata a La Spezia allo scoppio della guerra con l’Iran. “Bella l’Italia” sospirò offrendomi una sigaretta. “Milano, Saronno, Genova…Vieni, anche tu devi vedere”.

Nell’annesso lavatoio l’imam dirigeva il rituale lavacro del corpo. Su un bancone di piastrelle verdi gli assistenti sfilarono con cura gli indumenti di Kharrar: il giubbottino e i pantaloni di jeans, la biancheria intrisa di sangue, le scarpe da tennis, uguali a quelle di mio figlio. Lo lavarono più volte, recitando versetti del Corano. Riempirono gli orifizi e le ferite di cotone e di incenso profumato. Poi lo avvolsero in un sudario bianco e lo adagiarono nuovamente nella bara.

Abu Mehdi si chinò per l’ultimo saluto. “Era bello il mio bambino. Aveva i capelli biondi, come sua madre”.

Giovanni Porzio


 

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