At sea with Arturo Pérez-Reverte

Lo provoco: gli dico che sulla scrivania dove lavoro troneggia – venerata reliquia – un frammento del tagliamare della nave “Otago”, primo comando del capitano Jósef Teodor Konrad Korzeniowski, alias Joseph Conrad, acquistato a un’asta e donato a mio padre dall’editore Ugo Mursia.

Accusa il colpo, ma controbatte con una modesta pieza pequeña della torre d’artiglieria pesante “Anton” della “Graf Spee”, la corazzata tedesca colata a picco nel 1939 a Montevideo, e una dozzina di chiodi dello scafo della “Nettuno”, affondata a Trafalgar.

Prima di dedicarsi alla letteratura, diventando lo scrittore spagnolo più venduto al mondo, autore di bestseller tradotti in 29 lingue che hanno avuto numerosi adattamenti cinematografici, è stato inviato di guerra sui fronti più caldi del pianeta: Libano, Salvador, Nicaragua, Angola, Mozambico, Sudan, Bosnia, Iraq. Ma la passione costante e assoluta di Arturo Pérez-Reverte, la sostanza di cui sono fatti i suoi romanzi e la sua visione del mondo, della vita e degli uomini, è il mare su cui è nato (Cartagena, 1951) e in cui non ha mai smesso di navigare. Come spiega in questa intervista in occasione dell’uscita in Italia del suo ultimo libro: Le barche si perdono a terra. Scritti su barche, mari e marinai (Marco Tropea Editore), una raccolta di testi editi e inediti che copre un arco di quasi vent’anni.

Argomento del libro è il mare: la navigazione come metafora dell’esistenza. Quanta parte ha avuto il mare nella tua formazione umana e letteraria?

Sono nato in una casa sul mare, in una famiglia di navigatori, e sono cresciuto in un porto del Mediterraneo. Da piccolo ascoltavo racconti di mare e di navi. Gli amici di mio padre erano capitani della marina mercantile, e lo erano anche mio zio e i suoi amici. Le biblioteche di mio padre e di mio nonno erano piene di libri sul mare. Gli altri ragazzini imparavano a memoria le formazioni delle squadre di calcio: io conoscevo l’elenco completo dell’equipaggio del Pequod e del Bounty o i nomi delle navi su cui aveva navigato Conrad. Era naturale, quasi obbligatorio, che il mare formasse parte della mia formazione e della mia vita.

Il libro si legge come un giornale di bordo: ci sono i fari, le navi, le taverne dei porti, le traversate notturne. Ci sono testi esilaranti, altri lirici, ironici, furiosi e politicamente scorretti: la stupidità dei pescatori che distruggono il pesce, i navigatori da strapazzo, i diportisti della domenica, la bellezza delle carte nautiche... C’è molta amara ironia sul mondo di oggi. E molto pessimismo, lo stesso che ritrovo in molti tuoi romanzi. Il mare è per te un rifugio, una via di fuga, una speranza di salvezza?

Diceva Conrad che l’unica vera pace dello spirito comincia molte miglia al largo della costa più vicina. Sono d’accordo. Ho 60 anni (61 tra due mesi) e non mi faccio illusioni sulla condizione umana. Una delle poche certezze che conservo è una fede granitica nella illimitata propensione alla stupidità del genere umano. Il mare offre diverse controindicazioni. Permette di osservare la terra con maggiore calma. Migliora la percezione che ho del genere umano: uomini che a terra disprezzeresti possono guadagnarsi in mare il tuo rispetto. E al mare non si può mentire. Quando ci sei dentro, con le vele spiegate e il vento che soffia a 35 nodi, non puoi fingere ciò che non sei: nel mare sei nudo.

In un divertente passo ti scagli contro i produttori di jeans: si trovano solo quelli scoloriti e prelavati; non si trovano più quelli di una volta, quelli che “ci vuole tutta una vita per viverli e consumarli”. Sei un nostalgico dei tempi andati? Come ti rapporti alla società dei consumi e ­ scrittore di successo e membro della Real Academia spagnola ­ al mondo editoriale di oggi?

Non sono un nostalgico del passato. Sono nostalgico di alcune specifiche attitudini che gli uomini avevano in passato e che hanno perduto. Per questo mi piace così tanto il mare, dove molte cose tornano a essere ciò che sono sempre state. Il mare esige che gli uomini mettano in pratica virtù che a terra hanno cessato da tempo di essere necessarie e sono talora malviste. Quanto al mio rapporto con la società dei consumi, ovviamente ne sono parte. Accetto il tempo che mi tocca vivere, come scrittore di romanzi e come consumatore. Sono contento che i miei libri si leggano, anche perché mi procurano un’indipendenza economica che mi permette di decidere quale parte di questa società accettare e quale rifiutare. Avere lavorato per 20 anni in Paesi in guerra e aver trascorso tutta la vita in mare mi hanno dato il vantaggio di individuare un utile ordine delle priorità. Mi hanno soprattutto fatto capire che la maggior parte delle cose, incluso io stesso e ciò che posseggo, sono destinate alla distruzione e all’oblio. E’ una certezza che aiuta a vivere con buon senso e serenità.

Questo libro e molti altri che hai scritto sono colmi di riferimenti al mondo classico, alla grande letteratura di mare, a Ulisse, a Conrad, al doblone del capitano Achab, alla storia marinara della Spagna. Ma anche a Tin Tin e al capitano Haddock. E molti tuoi romanzi sono ambientati nel passato. La storia è per te più interessante dell’attualità?

Il presente è molto stimolante, ma non è niente senza la storia che lo spiega. Per me la storia non è un’evasione o un rifugio, ma piuttosto il mezzo per comprendere meglio il presente, viverci dentro e imparare a sopportarlo. Non c’è peggiore sciagura di essere orfani del proprio passato. Per me la storia è un analgesico: sapere che tutto è già successo è già una consolazione.

E’ lo spirito d’avventura, così essenziale nei tuoi romanzi, che ti ha spinto a girare il mondo e a diventare un inviato di guerra?

Più la curiosità che lo spirito d’avventura. Sebbene a volte la curiosità sia esattamente questo: spirito d’avventura. Volevo rendermi conto se il mondo somigliasse a quello che avevo conosciuto sui libri letti da ragazzo. Se c’erano amici leali, nemici intelligenti, belle donne, paura e coraggio, trionfi e disfatte. Così presi uno zaino vuoto e me ne andai alle isole dei pirati, per vedere se era vero. Ora, tornato da quelle isole con lo zaino pieno, scrivo romanzi per raccontare quello che mi hanno insegnato Long John Silver e i suoi foschi compagni.

Poi, nel 1994, hai attraversato il “territorio comanche” e hai cambiato mestiere. O forse hai solo cambiato la forma, il mezzo e il linguaggio del tuo raccontare il mondo e la vita?

E’ cambiata la forma, certo. E la situazione. Ma in realtà la sostanza dell’argomento non è cambiata. Continuo a essere un uomo che osserva e che a volte, non sempre, racconta quello che vede. Un uomo che guarda da una biblioteca formata dalla mia vita e da libri scritti da altri. E che con i relitti di migliaia di naufragi personali e altrui scrive romanzi.

Hai smesso di fare il giornalista proprio nel momento in cui l’informazione è diventata globale, elettronica, sempre più televisiva e in “tempo reale”. Che rapporto hai con l’informazione-twitter? E pensi che sia ancora possibile il mestiere dell’inviato di guerra?

Il mondo è cambiato molto con l’informazione globale. Quest’epoca esige un altro tipo di informazione, ed è anche ciò che il pubblico chiede. E’ stata una delle ragioni che dopo la guerra dei Balcani mi hanno spinto ad abbandonare il mestiere di reporter: non mi interessava riciclarmi nel genere di giornalismo che si preannunciava. Quello che è certo è che la figura del grande corrispondente di guerra è scomparsa. Ora questo lavoro lo fanno fanno con maggiore efficienza migliaia di anonimi testimoni con una telecamera e con internet. Twitter è un’esperienza interessante: ne faccio un uso sporadico, solo un paio d’ore la domenica, da circa un anno. Mi pare uno strumento efficace, rapido, che mi prende poco tempo ed è compatibile col mio lavoro e con la mia esigenza di avere tempo libero per leggere. Di internet non mi piace il tempo eccessivo che assorbono le reti sociali: il mio modo di utilizzare Twitter riduce al minimo questo problema.

La guerra scarnifica la realtà, la rende assoluta: “un corso accelerato ­ sono parole tue ­ sul bene e il male della condizione umana”. E’ lo stesso anche sul mare, “la materia principale” ­ scrivi ­ di cui per te sono fatti le avventure e i sogni?

Ciò che più amo del mare è la sua indifferenza per le passioni e i sentimenti degli uomini. E’ crudele e ingiusto: una magnifica metafora dell’Universo. Molto più sincero della terraferma, dove è più facile ingannare se stessi sulla vera natura delle cose. Paradossalmente, al contrario di tutto quanto si è detto e scritto in senso opposto, credo che a un uomo lucido e intelligente il mare distrugga in fretta la visione cristiana di un dio buono e giusto. E l’idea stessa di un dio.

Dicono che sei un misantropo, però alla fine di ogni tua solitaria traversata e al centro dei tuoi romanzi c’è sempre un incontro con l’uomo: un nonno che sul molo insegna al nipotino a pescare, il pittore in una torre, il guardiano di un faro, la prostituta in un bar, l’olandese volante, l’ammiraglio Nelson o il ramponiere Quiqueg. In fondo, nel presente o nel passato, sono gli uomini che vai cercando?

Come ti dicevo non ho un’opinione positiva del genere umano. Per ogni uomo buono o ragionevole ce ne sono almeno altri cento crudeli o stupidi. Disprezzare o addirittura odiare l’umanità nel suo complesso è una tentazione molto forte per chi ragiona con lucidità. La lucidità aiuta a vivere con intelligenza ma produce anche terribili sofferenze: è al tempo stesso una medicina e una malattia. Per questo è così importante guardare con gli occhi del sentire comune, dell’esperienza, della cultura e della memoria. E cercare le persone che fanno si che il mondo e la vita abbiano ancora un senso. Nei giorni in cui mi guardo intorno e vorrei piovesse napalm e che tutto se ne andasse al diavolo come meritiamo, finisco per pensare che c’è sempre un giusto per cui Sodoma meriti di essere salvata. Ho detto prima che sono solo un uomo che usa la sua vita e la sua biblioteca per guardare. Mi servo di questo sguardo per identificare la gente per cui, nonostante tutto, valga ancora la pena di proseguire il cammino. Incontrare queste persone, conoscerle, scrivere su di loro è una forma di consolazione. E’ come quell’analgesico di cui parlavo prima. Non rimuove le ragioni della sofferenza che  provoca la malattia della lucidità, ma aiuta molto a sopportarla.

 

 

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