Appunti di un viaggio a Pechino

(scritto nel gennaio 2011, dopo una serie di conferenze nelle università di Pechino e all’Istituto Italiano di Cultura)

La ragazza che mi massaggia i piedi nella penombra ovattata dell’ala est dell’hotel Bamboo Garden si chiama “Oceano di neve” ed è la prova che le persone finiscono per assomigliare ai loro nomi. Le sue dita si muovono leggere e delicate come i fiocchi che d’inverno imbiancano le strade di Pechino; gli occhi, di giada grigioverde, hanno la luce opaca del cielo del Nord; e i suoi silenzi, più delle timide parole in un inglese incerto, sembrano evocare il grande freddo che incombe sulla capitale. Viene da un villaggio non lontano, a un’ora di treno. Al mattino va a scuola, nel pomeriggio lavora in albergo. Vuole iscriversi alla facoltà di ingegneria informatica e specializzarsi nella gestione dei sistemi integrati di trasporto pubblico. “Il traffico” dice “sta paralizzando la città. Lo smog ci soffoca e le automobili continuano ad aumentare!”

Oceano di neve ha 16 anni e non riesce a credere che la prima volta che arrivai a Pechino, nell’aprile del 1986, gli unici veicoli a motore erano i camion dell’esercito, i taxi che stazionavano di fronte ai pochi hotel per gli stranieri, le moto della polizia e le limousine nere con le tendine abbassate della nomenklatura del Partito. Erano le auto a circolare sulle corsie preferenziali oggi riservate alle bici, mentre le carreggiate degli immensi boulevard pechinesi erano invase da un esercito di ciclisti.

Lo stupore per la rapidità e le dimensioni della crescita cinese assale anche i più assidui frequentatori dell’ex Impero celeste. Le trasformazioni del paesaggio urbano, delle abitudini sociali e dell’economia si misurano nell’arco dei mesi, se non delle settimane. E ogni volta che mi aggiro per le strade di Pechino o di Shanghai non riesco a evitare la trappola dei confronti con un passato che nelle sterminate metropoli sopravvive a stento nella quiete dei templi buddhisti e confuciani e nei residui hutong scampati alla furia delle ruspe.

Il nuovo avanza a ritmi che lasciano sgomenti. Nelle città sorgono futuristici edifici multifunzionali e mastodontici centri commerciali, aeroporti, banche, università, teatri, alberghi di lusso. La borghesia emergente, un esercito di 300 milioni di consumatori accaniti, affolla le boutique di Armani e di Dior, i negozi di elettronica e le concessionarie di automobili: nel 2010 solo a Pechino sono stati immatricolati 1.800 veicoli al giorno!

Il dragone cinese ha già sorpassato il Giappone e insegue da vicino l’America: la Cina è il primo produttore al mondo di carbone, acciaio e cemento; il secondo consumatore di energia; il terzo importatore di petrolio; la sua industria manufatturiera sforna i due terzi delle scarpe, dei giocattoli, dei computer e dei lettori dvd in vendita sulla Terra; le sue riserve valutarie ammontano a 2.650 miliardi di dollari contro i 46 degli Usa. Secondo Forbes ci sono ormai più milionari a Pechino che a Manhattan e la Cina è oggi il secondo mercato per la Ferrari dopo gli Stati Uniti.

Da quando, nel 1987, Deng Xiaoping lanciò la politica della “porta aperta” la Cina ha fatto passi da gigante. Ma la sua lunga marcia verso lo sviluppo “sostenibile e armonioso” è irta di ostacoli e di contraddizioni. Il differenziale tra i ricchi e i poveri è aumentato. Oltre le luci e le vetrine delle megalopoli, negli alveari industriali del Guangdong e nelle campagne, tra gli 800 milioni di contadini e i 120 milioni di disoccupati migranti serpeggia il malcontento. Le proteste e gli scioperi spontanei si moltiplicano: contro i salari da fame, i turni massacranti nelle fabbriche, le tragedie in miniera, l’assenza di diritti e di una rete di protezione sociale, dalle pensioni all’assistenza sanitaria. L’industrializzazione a tappe forzate ha avvelenato l’ambiente. Dopo gli Stati Uniti la Cina è il principale produttore dei gas responsabili dell’effetto serra. Il 70 per cento dei laghi e dei fiumi è contaminato. Un terzo dell’intero territorio è esposto alle piogge acide e 400 mila cinesi muoiono ogni anno per malattie causate dall’inquinamento dell’aria.

Di fronte a queste sfide epocali i dirigenti di Pechino restano fedeli ai dettami del pragmatismo denghista. L’ultimo Plenum del partito, che ha di fatto designato il cinquantasettenne Xi Ping a successore di Hu Jintao nelle cariche di segretario generale del Pcc, capo dello Stato e delle forze armate, ha riconosciuto la centralità dei problemi sociali e ambientali, delineando per il prossimo piano quinquennale una politica economica basata sull’espansione del mercato interno, sullo sviluppo delle nuove tecnologie e sul potenziamento dei servizi.

Le decisioni prese al vertice si tramutano in disposizioni operative con effetto immediato. Se l’imperativo è abbattere i consumi energetici ottimizzando le risorse disponibili, abbattendo gli sprechi, sviluppando le fonti alternative e quelle rinnovabili, non c’è da dubitare che l’obiettivo sarà raggiunto nei tempi previsti. Una quota rilevante degli investimenti è destinata alle centrali nucleari e a carbone pulito, alla ricerca sui combustibili all’idrogeno e sui motori ibridi a basse emissioni, ai carburanti biologici, ai pannelli solari, ai campi eolici. Mentre l’Occidente ancora si preoccupa dell’invasione della borse e dei jeans made in China, Pechino è già all’avanguardia nella produzione di tecnologie eco-compatibili.

Quello cinese è un regime autoritario, che non ammette il dissenso e ha un’idea a dir poco vaga dei diritti umani. Tuttavia viene da chiedersi se un sistema democratico all’europea sia applicabile, dall’oggi al domani, in un paese così complesso e diversificato. La parabola di Gorbaciov e la frantumazione dell’impero sovietico continuano a pesare sugli orientamenti del Politburo: il controllo sociale è stringente, l’economia è centralizzata e i settori strategici restano saldamente nelle mani dello Stato.

Ma sul piano delle libertà individuali i progressi sono innegabili. L’apertura al mercato, la diffusione dei consumi e il ricambio generazionale hanno scardinato i vecchi schemi ideologici, modificando radicalmente gli orizzonti culturali della Cina, quanto meno nelle grandi aree urbane.

Fino a pochi anni fa era impensabile poter discutere di censura e di libertà di stampa con gli studenti delle università, come è accaduto durante gli incontri organizzati dall’Istituto italiano di cultura. Molti degli scrittori cinesi che abbiamo incontrato non avrebbero potuto pubblicare i loro romanzi: argomenti come il sesso, l’amore lesbico, l’aids e persino la musica rock erano bollati come “decadenti e controrivoluzionari”. Oggi a Pechino nessuno si scandalizza se nel più importante teatro della capitale va in scena La casa delle bambole di Ibsen e se il personaggio di Nora è interpretato da Jin Xing, ballerina transessuale “ufficialmente riconosciuta”.

La scena notturna, con i suoi riti e i suoi miti, i bar, i ristoranti alla moda, i cinema, le discoteche, i locali gay, non è molto diversa da quella di Milano o di Berlino. Purtroppo. Perché anche la Cina, come il resto del mondo, è vittima del più deleterio prodotto della società globalizzata: l’omologazione dei consumi e dei comportamenti, l’appiattimento intellettuale, il progressivo annullamento delle specificità culturali.

Ciò non significa che non sussistano, nello smisurato Paese, difformità e contrasti etnici, linguistici, antropologici e religiosi: se gli Han rappresentano il 93 per cento della popolazione, le differenze al loro interno – tra regioni del nord e del sud, dell’est e dell’ovest – restano rilevanti e dozzine sono i dialetti parlati; le minoranze nazionali sono più di 50, spesso animate – come nel caso dei tibetani e degli uighur, i musulmani del Xinjiang – da forti aspirazioni irredentistiche, duramente represse dall’Esercito popolare. Ma il percorso, a giudicare dal trend metropolitano, è ormai segnato: dal cibo alla musica, dall’abbigliamento ai gadget elettronici, la melassa non cambia. A Pechino come a Singapore, a Shenzhen come a Sidney, a Shanghai come a New York, i “brand” sono gli stessi: iPhone e Coca Cola, Adidas e Lady Gaga, McDonald’s e Vuitton.

Ritrovo la Cina di un tempo in certe viuzze minacciate dai cantieri dove le donne stendono i panni in un raggio di sole, gli anziani giocano a mahjong e bambini dalle gote arrossate sgranocchiano pannocchie di mais. O in casa di Barbara, dietro la curva di un hutong male illuminato dalle parti della Torre del Tamburo, oltre una porta dipinta di rosso: il giardino spogliato dall’inverno, le stanze attorno al cortile, i mobili laccati, e uno spicchio di cielo senza grattacieli. Mi dicono che Lhasa, dov’ero stato nell’86, è irriconoscibile. Tranne il Jokhang, il grande tempio lamaista, di tibetano è rimasto ben poco: è diventata una città Han, con i turisti in fila per visitare il Potala, gli albergoni appaltati alle agenzie di viaggi, il karaoke e i negozi di souvenir. Non credo che avrò voglia di tornarci.

Un’altra delle mie mete abituali è piazza Tian Anmen. E’ un punto fermo: quella, almeno, non la possono cambiare! E infatti l’unica stridente novità, di fronte al mausoleo del Timoniere, sono i giganteschi pannelli digitali su cui scorrono le immagini promozionali dei luoghi comuni cari ai cinesi, dalla Grande Muraglia ai balletti dell’Opera di Pechino: ma si perdono nell’immensità degli spazi.

Lo sconforto s’insinua quando mi avvicino a Qianmen, sul lato opposto rispetto alla Città proibita. Era un quartiere storico, pieno di fascino e di case antiche, botteghe di artigiani, trattorie da pochi yuan, sale da tè, venditori ambulanti, mercati popolari. E in meno di un anno è diventato una Disneyland. Agli incroci gli altoparlanti diffondono indistinte e suadenti melodie, mentre sulla strada principale, chiusa al traffico e lastricata a nuovo, scampanella un tram che pare trasportato di peso dalle colline di San Francisco, stipato di passeggeri armati di telefonini e videocamere. Quasi tutti gli edifici sono stati abbattuti dai bulldozer e ricostruiti: al posto del polveroso emporio che vendeva le erbe, gli unguenti e i rimedi della medicina tradizionale c’è una moderna farmacia; e i commessi in guanti bianchi stanno lucidando le vetrine di una show room Rolex di prossima apertura. Anche il ristorante Qianmen Quanjude, che serve anatra laccata dal 1864, è stato brutalmente “rinnovato”: i ritratti dei più celebri clienti, da Pelè a Fidel Castro, da George Bush padre a Yasser Arafat, sono state declassate dal salone dei banchetti allo striminzito corridoio della toilette.

La pianificazione urbana alla cinese, del resto, non ha risparmiato neppure Tianjin, dove la zona delle ex concessioni europee si sta trasformando in un parco a tema che fa da sfondo ai book fotografici delle ragazze in abito da sposa: il viale austro-ungarico con “pasticceria viennese” o la Little Italy completa di pizzerie, Illy caffè e poster del Canal grande.

Al “798”, invece, si respira un’atmosfera più rassicurante. Negli ultimi anni il distretto artistico di Pechino, nato nei magazzini e nei cavernosi ambienti di un’immensa fabbrica militare dismessa, si è imborghesito: i prezzi dei loft sono saliti alle stelle, si moltiplicano gli studi di design, prolificano gli stilisti, gli antiquari e i galleristi europei, giapponesi e americani. Ma le opere esposte dai pittori e dagli scultori dell’avanguardia cinese parlano il linguaggio universale dell’arte: descrivono, in forma plastica e a noi intellegibile, gli strappi di una società in bilico tra passato e futuro, i sogni, gli incubi, le lacerazioni profonde e le domande più intime. Quelle che si fanno gli scrittori che ho conosciuto a Pechino. E che non si fanno i giovani, incollati per ore agli schermi dei computer e dei videogames, che ho incontrato nelle università.

Tranne i libri di testo, leggono pochissimo. Da noi non è diverso. Ma sconcerta l’assoluta indifferenza verso i temi che più da vicino dovrebbero coinvolgerli: i diritti umani e civili, la libertà di parola e di pensiero, la dialettica politica, l’attualità internazionale. A Beidajie, il più prestigioso ateneo della capitale, che è stato spesso il fulcro di accesi dibattiti e di contestazioni studentesche, sono in pochi a sapere chi è Liu Xiaobo, il premio Nobel per la pace 2010, di cui parlano tutti i giornali e le televisioni del mondo. Paura? Timidezza? Reticenza? No: semplice disinteresse. Forse dovuto a una carenza di informazioni al riguardo? Alla cortina di fumo innalzata dalla propaganda ufficiale, che considera i dissidenti dei provocatori o dei “pagliacci”? Difficile dirlo. La sensazione è che per la stragrande maggioranza dei cinesi la questione dei diritti umani abbia una rilevanza del tutto marginale.

I sondaggi d’opinione lo confermano. Le priorità dei giovani neolaureati sono altre: la specializzazione in un’università straniera, un lavoro remunerativo, l’opportunità di lanciarsi in un business privato e metter su casa e famiglia. Relegato nella naftalina lo slogan “servire il popolo”, le sole parole d’ordine perennemente in auge sembrano essere le due massime di Deng: “Arricchirsi è glorioso”, con l’inquietante corollario “Non importa se il gatto è bianco o nero, purché acchiappi il topo”.

Ed è un gatto dall’appetito insaziabile quello cinese. Anno dopo anno azzanna quote di mercato sempre più vaste ai quattro angoli del mondo. Divora di tutto: banche asiatiche e buoni del Tesoro americani, petrolio del Caspio e minerali strategici del Congo, riserve di rame in Afghanistan e terreni agricoli in Brasile. L’elenco è infinito. Leggo sul China Daily che nel 2010 l’Africa è diventata il primo partner commerciale di Pechino e che la Cina siede nel board della banca centrale eritrea. Le visite in Occidente di Hu Jintao si concludono immancabilmente in un vortice di contratti miliardari, la cui firma è in genere preceduta da uno sbrigativo e protocollare invito al “rispetto dei diritti umani”: un rituale ipocrita che in Medio Oriente, in Asia e nelle nazioni povere ma ricche di materie prime nessuno si dà la pena di evocare. La “non ingerenza negli affari interni”, sacro principio del Movimento dei Paesi non allineati e cardine della politica estera cinese, è un ottima giustificazione per fare business senza neppure doversi turare il naso.

Ai tempi di Mao i cinesi sognavano “le tre grandi cose che girano”: la bicicletta, l’orologio e la macchina da cucire. Alla scomparsa di Deng Xiaoping, nel 1992, i “tre grandi” erano il frigorifero, la lavatrice e la televisione a colori. Oggi sono l’automobile, il lap top e il conto in banca. Proprio come noi italiani. La differenza è che l’Italia è un Paese che annaspa, afflitto dalla crisi economica e dalla paralisi politica: un Paese da cui i giovani scappano, in molti verso la Cina. Ci sentiamo su un binario morto. Mentre qui, andando al Pudong International Airport di Shanghai, sto seduto su un treno a levitazione magnetica che viaggia a oltre 400 chilometri orari.

Giovanni Porzio

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