Al-Zarqawi. Storia e mito di un proletario giordano

Introduzione a Al-Zarqawi. Storia e mito di un proletario giordano, di Loretta Napoleoni, Marco Tropea Editore, 2006

Una ricostruzione fedele, onesta, seria, documentata, libera da condizionamenti e scelte di campo. Dunque rivoluzionaria.

Al Zarqawi, storia e mito di un proletario giordano è il lavoro puntuale di una docente di Economia della London School of Economics che decide di uscire dagli schemi e dai luoghi comuni per analizzare il fenomeno del terrorismo di matrice islamica da tutte le angolature possibili.

Questo libro restituisce ad Al Zarqawi una dimensione umana, e proprio per questo terribilmente inquietante. Il terrorista giordano non è più soltanto il nome che diamo alle nostre paure, la causa astratta dell’instabilità e dell’incertezza della nostra vita quotidiana, il fantasma che popola gli incubi di donne e uomini dell’Occidente. E’ un uomo che con la sua stessa storia incarna il terrore e ne diventa il simbolo.

Prima per gli Stati Uniti e i paesi della Coalizione e solo in seguito per il mondo arabo. Il “luogotenente di Osama Bin Laden in Iraq” viene eletto leader dell’internazionale terroristica dal segretario di Stato americano Colin Powell durante il celebre discorso all’Assemblea generale delle Nazioni Unite (5 febbraio 2003) e poi dai reclutatori di kamikaze: un’investitura pubblica che ha permesso ad Al Zarqawi di raggiungere uno status altrimenti impensabile. Una posizione di preminenza, non sempre giustificata e tanto meno accertata, che ha continuato a consolidarsi durante l’assedio di Falluja e in tutti i momenti chiave della storia dell’Iraq “liberato”. Per l’amministrazione Bush, spiazzata dai deludenti rapporti degli ispettori dell’Onu, che non hanno mai trovato traccia delle fantomatiche armi di distruzione di massa, la figura di Al Zarqawi ha rapidamente assunto un’importanza determinante nella propaganda a favore della guerra: quello di un ipotetico e in effetti inesistente anello di congiunzione tra Saddam Hussein e al-Qaeda; la “smoking gun” che legittimava l’attacco all’Iraq nell’ambito della “War on Terror”.

Le menzogne e i falsi che Washington ha dato in pasto all’opinione pubblica nei mesi che hanno preceduto l’invasione dell’Iraq sono stati smascherati in modo preciso e circostanziato: una campagna di disinformazione pianificata dalla Cia e dal Pentagono i cui passaggi cruciali sono chiari agli addetti ai lavori ma che si sono persi come tanti aghi nel confuso pagliaio dei media. Il libro di Loretta Napoleoni non aggiunge parole a parole, idee che vincono su altre idee: è la conclusione di un lungo lavoro di ricerca, di cui è fedelmente riportata ogni singola fonte.

Leggere questa attenta e incalzante ricostruzione significa spogliarsi capitolo dopo capitolo di tutte le sovrastrutture, i luoghi comuni, le false certezze in cui ci siamo adagiati in questi anni di “scontro tra civiltà”. Ci costringe a ripercorrere l’inizio del millennio sotto una nuova luce e da una nuova prospettiva. Quello che stiamo vivendo viene preso, isolato dalle nostre passioni ed emozioni, e analizzato al microscopio. Al Zarqawi esce dal mito e torna a essere quello che è: un uomo. Per combattere o contrapporsi a tutto ciò che rappresenta è necessario capirlo. E per capirlo bisogna conoscerne la storia.

L’autrice fa un lungo viaggio, che non tralascia nessuna tappa e nessun particolare. Parte da un’anonima casa di Zarqa, in Giordania nel 1966, quando nasce Ahmed Fadel Al Khalaylah. Ci parla di quel bambino che cresce nella “Chicago del Medio Oriente”, devastata dalla criminalità e dalla povertà. Un bambino ribelle e indisciplinato che va male a scuola e che ama giocare nei cimiteri. Giorno dopo giorno ne descrive lo sviluppo, la crescita, le ossessioni.

All’inizio sembra quasi che racconti dettagli superflui. In fondo conosciamo la fine di questa storia: perché insistere su momenti e fasi della vita di chi sappiamo già definire? E’ chiaro a tutti che Al Zarqawi è il male. Siamo troppo abituati alla facile comunicazione: buono o cattivo, eroe o criminale. Che importanza può avere quella ricerca del particolare, quella riproposizione di testimonianze lontane? Ma mentre leggiamo di quando Ahmed Fadel era un piccolo teppista, di quando incontra il suo maestro spirituale, di quando divide il carcere con lui e comincia a diventare un leader, di quando si fa rappresentante degli emarginati che saltano dagli inferi della criminalità alla salvezza mediata dalla scelta religiosa, dalla violenza tout court alla lotta armata, allora piano piano cominciamo a capire.

Ed è qui che interviene la prima riflessione sul lavoro di questa docente-saggista. Il ripercorrere la vita di un uomo che vogliamo descrivere non è mai superfluo, ogni singolo momento è fondamentale. Insieme a lei diventiamo detective e psicologi, storici e sociologi, ricercatori che non tralasciano niente, che ascoltano ogni singola testimonianza, che rileggono ogni singolo proclama. Finché tutto sembra più chiaro, più comprensibile, meno diabolico. Ci liberiamo delle emozioni e del senso di appartenenza e vediamo le cose con la pacatezza di chi le studia. Le capiamo. Perché questo è l’obiettivo del libro. Capire. Non prendere posizione e spiegarci perché qualcosa sia giusto o sbagliato. Non convincerci che la guerra si doveva o non si doveva fare. Ma ritrovare una strada che non è più tracciata, che è stata nascosta da bugie e invenzioni per ritrovare il punto di partenza. E per scoprirlo l’autrice comincia dall’inizio.

I primi capitoli sono la biografia di quell’uomo che popola i nostri incubi.  Narrano le circostanze e le vicende che ne hanno plasmato la vita e ne hanno determinato la trasformazione: come Ahmed Fadel ha vestito in Afghanistan i panni di Abu Muhammad al Gharib (“lo straniero”) e poi di Abu Musab al Zarqawi. La gabbia in cui abbiamo visto rinchiuso Nicholas Berg è la cella in cui Ahmed Fadel passò otto mesi e mezzo:  una cella che ricordava “per dimensioni e comodità la gabbia di un animale”. E se questo non giustifica, spiega. La malvagità dello “straniero” nasce da una personalità complessa, dalle sue frustrazioni, da una storia di leader mancato, dalla cronologia di un mujahid che non riusciva mai a partecipare alle grandi battaglie. Ma anche dalla grande capacità di sopravvivenza ereditata dal ramo beduino della famiglia, dal carisma che esercitava sui diseredati e dalla forza con cui li difendeva in carcere, perché lui per primo era un diseredato, figlio della povertà e dell’ingiustizia, erede della tradizione di un popolo dimenticato.

Delineare la figura di Al Zarqawi significa capire gli ultimi anni della nostra storia. Non basta dunque tracciare un profilo con le solite analisi che ci parlano di questione palestinese e profughi in Giordania, di grandi periferie del mondo arabo assillate dalla disoccupazione, dell’avvento dell’ideologia integralista come possibilità o speranza di rivincita, di riscatto. Tutto questo fa parte degli stereotipi di chi giustifica; e di chi ripete che niente può giustificare. La biografia del “sanguinariotagliatorediteste” degli ostaggi iracheni è una storia che recupera i tempi lunghi ed evita i salti, imponendoci di abbandonare comode logiche e convinzioni acquisite. Sappiamo che rischiamo di subire un attentato in metropolitana o in un centro commerciale. E’ già accaduto a Madrid, Bali, Istanbul, Sharm el-Sheikh, Londra, Amman. Accadrà di nuovo. Per questo dobbiamo imparare a osservare con distacco la realtà che ci circonda.

Per noi giornalisti, che abbiamo vissuto molte delle vicende raccontate da Loretta Napoleoni, sforzandoci di decifrarle e di descriverle mentre erano in corso, ancora avvolte da una incerta penombra, leggere queste pagine è come sottoporsi a una verifica del lavoro compiuto. Nei capitoli dedicati alla guerra in Iraq e al sanguinoso dopoguerra c’è un costante riscontro dei fatti che abbiamo raccontato in questi anni che hanno cambiato il mondo e il nostro modo di essere. Chi tra noi si è battuto per cercare la verità senza pregiudizi e senza cadere nella trappola degli ideologismi troverà alcune conferme. Una fra tutte: ciò che è stato pubblicato o detto in tv senza verifica, come la nostra deontologia imporrebbe, ha contribuito alla diffusione di messaggi propagandistici. Quel rincorrersi di titoli gridati su notizie che semplificavano una realtà molto più complessa erano la scorciatoia per la diffusione di falsi storici su cui l’intera categoria degli operatori dell’informazione dovrebbe oggi interrogarsi. Pochi hanno cominciato a farlo.

Ma davvero non c’è la volontà di capire? E’ più semplice dividere il mondo tra buoni e cattivi? Rifiutiamo quello che non ci fa comodo e ci aspettiamo la conferma di quello che già abbiamo deciso? Il mondo sembra ormai diviso in due, in modo manicheo: non c’è spazio per le sfumature e lo studio puntuale dei fenomeni. Siamo entrati in una logica di scontro. Grandi firme del giornalismo proclamano la loro adesione a uno schieramento facendone un punto d’onore: come fosse una bandiera che ne garantisca l’onestà intellettuale. Tutto viene letto in una chiave politica distorta, ignorando le radici dei problemi e il punto di vista del nemico, che non ha diritto di parola e nemmeno di essere ascoltato. Nelle guerre i soli morti che contano sono i nostri. Gli unici valori positivi sono i nostri. Noi siamo il Bene, loro il Male. Dio è dalla nostra parte! Ma non dice la stessa cosa anche Osama Bin Laden?

Se l’obiettività non esiste, come sostengono alcuni direttori ideologicamente schierati, i reporter dovrebbero almeno tentare di attenersi ai fatti e di raccontare la realtà in modo imparziale. Come il medico ha il dovere di tendere all’infallibilità, anche se è umanamente impossibile. A differenza di quelli italiani, i grandi giornali dei paesi più coinvolti nel conflitto, americani e inglesi, non hanno esitato a denunciare gli orrori di Abu Ghreib e di Falluja, gli abusi commessi dai militari in Iraq, le torture nel carcere di Guantanamo.

Il libro di Loretta Napoleoni ci riporta a quella scuola di giornalismo anglosassone che insegna a tenere i fatti separati dalle opinioni, a guardare la realtà senza certezze pregiudiziali, a esercitare il controllo sulla politica e sulle scelte dei governi. Senza rifiutare in modo aprioristico gli indizi, le piste e le notizie che portano in direzioni opposte rispetto alle nostre convinzioni. Ci pone di fronte a molti interrogativi: chi siamo “noi” e chi sono “loro”, l’Occidente e il mondo arabo. E ci fa capire quanto fossero inutili e pretestuose, per esempio, le polemiche tutte italiane sulla “resistenza” irachena: da parte di chi la chiamava solo resistenza e da parte di chi la chiamava solo terrorismo.

Ma il libro non è solo una biografia di Al Zarqawi: dell’uomo che si trasforma in un simbolo e del simbolo che si tramuta in archetipo del terrore. E’ la storia dei campi di addestramento in Afghanistan, della diffusione del salafismo, della nascita dei movimenti jihadisti, dello scontro tra sunniti e sciiti. In questo contesto più ampio, la figura di Al Zarqawi appare in una luce diversa, più sfumata e ancor più minacciosa: non è solo il mostro e al tempo stesso il mito creato dall’amministrazione Bush (più che da Bin Laden, con il quale è spesso in disaccordo); è anche la tragica illusione in cui migliaia di disperati si sono rifugiati.

Ahmed Fadel al-Khalaylah è diventato così quello che non era e non aveva speranza di diventare: Abu Mos’ab al-Zarqawi, il temuto e spietato burattinaio del terrore globale. Napoleoni descrive questa metamorfosi genetica, psicologica e mediatica senza svelare segreti di Stato: mettendo semplicemente in ordine informazioni a disposizione di tutti, riesce a spiegare la genesi e le conseguenze di una straordinaria mutazione prodotta dalla propaganda di guerra.

Il libro ha anche il pregio non indifferente di evidenziare e puntualizzare le non trascurabili dissonanze ideologiche e i dissensi emersi in questi anni al vertice della cupola terroristica tra Al Zawahiri, Al Zarkawi e lo stesso Bin Laden; di precisare  termini a noi poco familiari come jihad, tafkir, fitna; di sottolineare la centralità, nell’universo fondamentalista, della questione di Gerusalemme e della Palestina; e di analizzare l’evoluzione della lotta armata, fino al suo approdo alle missioni suicide. Riscopre nomi e cognomi degli attentatori suicidi riconducendoli a legami clanici allargati, ricomponendo un puzzle di cui paura, ignoranza e confusione avevano sparpagliato i pezzi. Ritrova nelle parole del papa crociato Urbano II quelle di Al Zawahiri teorico delle operazioni kamikaze: come ai tempi delle guerre sante cristiane aveva fatto il capo della chiesa, il braccio destro di Osama fonde ed esalta i concetti di martirio e di suicidio. Della realtà irachena Loretta Napoleoni ha analizzato tutto. Anche la telenovela “Amore e guerra” in cui uno dei protagonisti muore facendosi saltare in aria con un’autobomba.

Di estremo interesse sono gli ultimi capitoli del saggio, dedicati all’Iraq “liberato”, alla genesi e allo sviluppo della lotta armata. Documenti alla mano, l’autrice smonta la leggenda di un terrorismo cieco fomentato dall’esterno e sottolinea le radici nazionali della resistenza, la complessità delle forze in campo, le finalità e gli orientamenti delle varie milizie, fornendo – per la prima volta – un esauriente quadro d’insieme del conflitto e una lucida chiave di lettura della guerra civile che insanguina il paese.

La strada che da Amman porta a Baghdad passa da Falluja. L’abbiamo percorsa decine di volte, in un senso e nell’altro. I tassisti insistevano per attraversare quel tratto all’alba. Non prima, non dopo. Si partiva nel cuore della notte per evitare le estenuanti code al confine giordano. Una sosta per fare benzina e bere un tè caldo, qualche ora passata sui sedili tra lo stordimento e il sonno e poi, alle prime luci del giorno, il convoglio imboccava a tutta velocità l’autostrada del deserto per Baghdad. Nascondevamo i soldi negli incavi che contengono i portaceneri e le lampadine, ma tenevamo in tasca un po’ di dollari per accontentare gli eventuali rapinatori. Passata Falluja era quasi fatta. Gli Ali Baba, come gli iracheni chiamano i ladri, erano alle spalle.

Anche il 4 aprile 2004 passammo da quella strada. Dopo il massacro dei quattro contractors della Blackwater, una delle tante compagnie militari di ventura assoldate dal Pentagono, e lo scempio dei loro corpi nelle strade della cittadina sunnita, la reazione dell’esercito americano era inevitabile. Quella mattina, all’altezza di Falluja, centinaia di soldati, carri armati, mezzi militari presidiavano la zona. Al posto blocco un graduato, gentile ma inflessibile, ci impedì di andare oltre e anche di fermarci, costringendoci a una lunga deviazione. L’assedio era cominciato. E la battaglia di Falluja era destinata a rappresentare una svolta cruciale nella storia del “dopoguerra” iracheno: cominciarono i rapimenti e le esecuzioni sommarie degli stranieri, si intensificarono gli attentati kamikaze e i massacri dei civili. Noi giornalisti ci rendemmo conto di essere nel mirino.

E’ strano aver vissuto quei giorni e ripercorrerli ora nelle pagine di questo libro, anatomizzati, interpretati e storicizzati. Non puoi fare a meno di  riflettere e di riandare con la mente alle affrettate analisi che abbozzavamo nelle riunioni notturne in una stanza dell’hotel Palestine.

Quando vivi un avvenimento è difficile mantenere il necessario distacco e acquisire tutti gli elementi di giudizio. Non c’è il tempo, hai una prospettiva parziale e limitata, ti basi su indizi, brandelli di notizie, intuizioni. Devi schivare la censura e le trappole della disinformazione. In questo libro quello che abbiamo raccontato con i condizionali, in modo frammentario e disordinato, acquista un senso logico stringente.

Al Zarqawi, storia e mito di un proletario giordano è tutto questo dunque. Ma è soprattutto la rilettura senza veli degli errori dell’Occidente. Un Occidente che per combattere un nemico ne ha creato un altro, più pericoloso. Al Zarqawi non è un’invenzione. Ma il suo mito è stato alimentato e rafforzato senza che nessuno si curasse delle ripercussioni che avrebbe provocato nel mondo arabo, nelle strade di Baghdad, nelle case bombardate di Falluja, nelle madrasse, nei campi profughi. Era già successo con Bin Laden. È accaduto di nuovo.

Giovanni Porzio

Gabriella Simoni


 

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