The ghost of genocide
Rwanda, March 2024

La stagione delle fosse comuni inizia in marzo, con l’arrivo delle grandi piogge. L’acqua discioglie gli argini dei fiumi, penetra nel fango, scava solchi nella terra color sangue. E dalle foreste, dalle paludi, dalle mille colline del Rwanda emergono i fantasmi del passato: le ossa, le scarpe, gli abiti stracciati, i crani sfondati. A trent’anni dall’ecatombe del 1994 i morti continuano ad affiorare: a centinaia, a migliaia.

Era la sera del 6 aprile quando nei pressi dell’aeroporto di Kigali un missile terra-aria abbattè il Mystère-Falcon proveniente da Dar es-Salaam che trasportava il presidente Juvenal Habyarimana e il suo omologo burundese Cyprien Ntaryamira. Non si è mai saputo chi siano stati gli autori del fatale attentato, la scintilla che scatenò una carneficina da tempo pianificata. In meno di cento giorni l’esercito e le milizie hutu interahamwe, “coloro che attaccano insieme”, massacrarono quasi un milione di tutsi e di hutu moderati: uomini, donne, vecchi e bambini fucilati ai posti di blocco, sulle strade e nelle case, bruciati vivi nelle chiese, fatti a pezzi a colpi di machete.

Nessuno alzò un dito. Gli Stati Uniti, reduci dalla batosta subita in Somalia, chiusero gli occhi. I 2.500 caschi blu dispiegati in Rwanda, anch’essi paralizzati dalla “sindrome di Mogadiscio”, restarono a guardare. La Francia, che sosteneva il regime di Kigali, e il Belgio, l’ex potenza coloniale, si preoccuparono solo di evacuare i connazionali. Gli inyenzi, “scarafaggi”, come la radio e la televisione qualificavano i tutsi, non avevano scampo.

Un odio antico divideva le due principali etnie del Paese. Un rancore fomentato dall’antropologia razzista, condivisa dai colonizzatori tedeschi e poi belgi, che contrapponeva gli allevatori ba-tutsi, i “lunghi”, alti, aristocratici e di presunta origine nilotica, ai contadini ba-hutu, i “corti”, bassi e tarchiati, di origine bantù. I coloni e la chiesa cattolica avevano favorito l’élite tutsi, ma quando nel 1959 scoppiò la rivolta degli hutu, che costituivano l’85 per cento della popolazione, i belgi e le gerarchie ecclesiastiche abbandonarono gli ex alleati al loro destino: in centomila furono sterminati e altri cinquantamila furono uccisi dopo l’indipendenza dal Belgio (luglio 1962).

All’inizio degli anni Novanta il Fronte patriottico rwandese (Fpr), una formazione militare scaturita dalla diaspora tutsi in Uganda, lanciò una serie di attacchi respinti grazie all’appoggio di Parigi e Bruxelles, riuscendo tuttavia a impadronirsi delle province del nord del Paese. Scontri armati e tentativi di negoziato si trascinarono fino alla firma nel 1993 degli accordi di Arusha. Ma la resa dei conti era soltanto rimandata. Quando nell’aprile del 1994 iniziarono i massacri gli inkotanyi, le milizie del Fpr guidate da Paul Kagame, avanzarono verso la capitale e al principio di luglio la occuparono ponendo fine al genocidio. Ma i fiumi Kagera e Ruzizi continuarono per molto tempo a restituire cadaveri in decomposizione.

Padre Mario Falconi, 79 anni, sacerdote barnabita della provincia di Bergamo, è stato inserito nella lista dei “Giusti del Rwanda” per avere salvato la vita di tremila tutsi nella missione di Muhura. “Ci vollero mesi” ricorda “per tornare a un minimo di normalità. Le strade erano infestate da banditi e miliziani armati. C’erano sparatorie, vendette, regolamenti di conti. Vivevamo nel terrore”.

Ricostruire il Rwanda, insanguinato, traumatizzato e spopolato (due milioni di hutu fuggirono nei Paesi vicini), è stato da subito l’obiettivo imprescindibile di Kagame, che il prossimo 15 luglio sarà rieletto per la quarta volta presidente: carica che grazie a una modifica della costituzione potrà mantenere almeno fino al 2034.

Kigali ha cambiato volto. Sotto l’occhio vigile dell’onnipresente polizia e delle telecamere il traffico scorre lungo i viali alberati della capitale-vetrina del nuovo Rwanda: alberghi a cinque stelle, ristoranti di lusso, campi da golf, scintillanti uffici di banche e istituti di credito, stadi e centri sportivi, un aeroporto da due miliardi di dollari (apertura prevista nel 2026) che servirà otto milioni di passeggeri l’anno. La maggior parte dei profughi è rientrata e il massiccio afflusso di aiuti e finanziamenti esteri da Europa, Stati Uniti, Fondo monetario, Banca mondiale e Cina (primo partner commerciale) ha consentito uno sviluppo che se non ha colmato il divario città-campagna e le abnormi diseguaglianze sociali ha però ottenuto importanti risultati: riduzione della povertà, investimenti nell’agricoltura, nelle infrastrutture, nei servizi, nella sanità, nell’istruzione e nell’industria turistica. L’export di coltan, cassiterite, oro e diamanti – in buona parte contrabbandati dalla vicina Repubblica democratica del Congo, dove l’esercito rwandese è implicato in un brutale conflitto per il controllo delle risorse minerarie – fornisce considerevoli introiti in valuta pregiata. Ma stabilità e crescita economica hanno un prezzo.

Il genocidio è il pilastro del potere di Kagame. Abile nello sfruttare i sensi di colpa dei Paesi occidentali, che finanziano il 70 per cento del budget dello stato, come nel manipolare le elezioni (nel 2017 ha sfiorato il 99 per cento dei voti), l’ex guerrigliero del Fpr ha instaurato un regime che non tollera il dissenso. La Bbc è bandita dal 2014 per avere messo in dubbio in un documentario la narrativa ufficiale dell’eccidio del ’94. Giornalisti, youtuber e oppositori sono stati incarcerati, costretti all’esilio o assassinati.

Caso emblematico quello di Paul Rusesabagina, il manager dell’Hotel des Mille Collines che durante l’ecatombe salvò centinaia di persone e la cui storia ha ispirato il film Hotel Rwanda. Esule negli Usa per le sue idee politiche, Rusesabagina – leader del fuorilegge Movimento per il cambiamento democratico – sparì nel 2020 durante un volo da Dubai al Burundi e ricomparve in manette a Kigali davanti a un tribunale che lo condannò a 25 anni di carcere per terrorismo: Washington ne ha ottenuto la liberazione nel marzo 2023.

Dopo la fine dei massacri più di 300 mila génocidaires sono finiti dietro le sbarre e il Tribunale penale internazionale per il Rwanda istituito dal consiglio di sicurezza dell’Onu ha emesso dozzine di sentenze nei confronti di ministri, ufficiali dell’esercito, sindaci e funzionari della vecchia amministrazione. E oggi migliaia di detenuti che hanno scontato la pena sono tornati a vivere accanto alle famiglie delle loro vittime e ai sopravvissuti. “Riconciliazione” è la parola d’ordine che risuona a Kigali e nei memoriali del genocidio istituiti in tutto il Paese per esortare la popolazione – in grandissima parte nata dopo il 1994 – a non dimenticare.

Nyamata, a un’ora di viaggio dalla capitale, è uno dei luoghi simbolo dell’orrore. Nella chiesa furono trucidati diecimila civili. Sui banchi sono accatastati i loro abiti insanguinati: gonne, pantaloni, grembiulini, magliette incrostate di terra. Migliaia di teschi, file interminabili di tibie e di femori formano un raccapricciante mosaico al centro della navata, dove sotto lenzuoli bianchi e fiori di plastica sono allineate le bare degli ultimi corpi rinvenuti: in ogni cassa i resti di dieci, venti persone, ossa di bambini, crani, frammenti che non saranno mai ricomposti. E fuori, in due vaste fosse sotterranee, sono ammassati altri trentamila scheletri.

C’è anche la tomba di un’italiana, la volontaria laica Antonia Locatelli, arrivata a Nyamata nel 1972 con la congregazione delle Suore Ospedaliere di Santa Marta e uccisa vent’anni dopo per avere denunciato sui media internazionali le atrocità commesse contro i tutsi. “Ero qui quella notte di marzo del 1992” racconta suor Felicité, che dirige il vicino ospedale per malati incurabili. “Le hanno sparato in casa, dove aveva dato rifugio a centinaia di donne e bambini terrorizzati”.

Poco lontano, a Mbyo, uno degli otto “villaggi della riconciliazione” fondati dall’ong cristiana Prison Fellowship Rwanda, vittime e carnefici zappano insieme i campi di mais e di manioca, mungono le vacche, condividono l’umuganda, il sabato mensile di lavoro collettivo. E al tramonto si siedono a conversare sotto l’albero della gacaca, la “giustizia sull’erba”, per ritrovare fiducia, superare il trauma, riflettere sul passato, elaborare i lutti.

Laurence Niyonagira e Aloys Mutiribambe, stretti una accanto all’altro sotto un ombrello per ripararsi dal sole, sono oggi buoni amici: “Mio figlio ha sposato la figlia di Laurence” dice Aloys. “Siamo nonni: abbiamo tre nipotini”. Ma trent’anni fa lei era uno scarafaggio in fuga e lui, suo vicino di casa, il killer che la inseguiva.

“Gli hutu hanno sterminato tutta la mia famiglia” racconta Laurence. “Genitori, fratelli, cugini. Sessanta tra uomini, donne e bambini. Io sono scappata nella foresta. Ero incinta di otto mesi e avevo un figlio piccolo. Ho camminato per settimane, nascondendomi nelle paludi, camminando sui cadaveri, fino al Burundi. È stato Aloys ad assassinare mia sorella”.

“Il governo diceva che dovevamo sterminare i tutsi” ricorda Aloys. “Eravamo come animali. Ho finito sua sorella a colpi di machete. Poi ho ammazzato ancora molta gente, non so nemmeno quanti. Quando tutto è finito sono stato arrestato. In prigione avevo gli incubi. Anche adesso. Anche se ho confessato tutti i miei crimini”.

I primi tempi a Mbyo sono stati difficili per entrambi. Per molti anni Laurence, straziata dal dolore, si è consumata nella paura e nel rancore. E Aloys, tormentato dai rimorsi, era convinto che i sopravvissuti l’avrebbero ucciso. Ora le ferite si sono rimarginate. Ma non tutti hanno avuto la forza di perdonare, non tutti hanno accettato di pentirsi.

“Sappiamo che l’ideologia dell’odio etnico è ancora presente” dice Philibert Gakwenzire, presidente di Ibuka, l’associazione dei sopravvissuti. “Chi era un ragazzino all’epoca dello sterminio ha assorbito quell’ideologia in famiglia e fatica a liberarsene. I nostri sforzi e quelli del governo sono rivolti alla totale eradicazione del veleno che ci ha intossicato per decenni”.

Nel quartiere di Kabuga la messa domenicale è celebrata dal vescovo Deogratias Gashagaza, fondatore di Prison Fellowship Rwanda. La musica e i canti invadono la chiesa, affollata di credenti, di mamme con bambini in fasce.  “La riconciliazione è un lungo percorso di guarigione” afferma il vescovo dopo la funzione. “Non è facile stringere la mano dell’assassino dei tuoi figli, dei tuoi genitori. Ci sono resistenze, sospetti, ambiguità. Lo spettro di un nuovo genocidio continua ad aleggiare. Ma ho fiducia nei giovani: non permetteranno che il Rwanda ripiombi nel baratro infernale da cui si è sollevato”.

 

Giovanni Porzio