Emerald Mines of Panjshir, Afghanistan, October 2009

Giovanni Porzio – da Khenj, valle del Panjshir (20.10.09)

Bambine che vanno a scuola con lo zainetto dei libri in spalla. Contadini che mietono il grano. Operai che fabbricano mattoni e asfaltano strade. Commercianti che scaricano nei bazaar la frutta di stagione. Ristoranti che servono il pesce del fiume. Sale da tè che proiettano film in cassetta indiani. E persino qualche turista.

Benvenuti nel Panjshir, l’unica valle dell’Afghanistan senza talebani, senza oppio e senza autobombe, dove non si vedono militari della Nato in assetto di combattimento e dove gli unici carri armati sono gli scheletri arrugginiti dei tank dell’Armata Rossa che i ragazzini usano per giocare a nascondino.

Non ci sono altre zone sicure per chi voglia avventurarsi senza scorta fuori da Kabul. Dopo otto anni di guerra il livello dello scontro si è alzato, il numero dei soldati della coalizione e dei civili uccisi continua ad aumentare e gli insorti rappresentano ormai una minaccia sui due terzi del territorio afghano. Rapimenti e imboscate sono sempre più frequenti nel Logar, a sud della capitale, e a est sulla direttrice per Jalalabad. La sicurezza è precaria anche nella provincia di Bamyan e a nord del tunnel di Salang, nel tratto da Kunduz a Mazar-i-Sharif dove transitano i convogli con i rifornimenti per le basi alleate. Non resta che imboccare la via del Panjshir.

La strada attraversa la pianura di Shomali, la prima linea della guerra che nel 2001 rovesciò il regime del mullah Omar. Dalla decrepita torre di controllo dell’aeroporto sovietico di Baghram, distrutto dai bombardamenti, lo scenario era desolante: villaggi bruciati e rasi al suolo, frutteti e vigneti in abbandono, terreni minati, trincee. Oggi i 140 mila profughi sono tornati: hanno ricostruito le loro case e riparato i canali d’irrigazione. I mercati di Charikar e di Jabal Saraj, dov’erano acquartierati i mujahiddin dell’Alleanza del Nord, straripano di merci e di prodotti agricoli.

Sono i mujahiddin, travestiti da agenti della polizia afghana, a presidiare le gole del Panjshir, le forche caudine da cui si accede alla “valle dei cinque fiumi”, tomba dell’Armata Rossa e dei talebani: l’inespugnabile roccaforte tajika del comandante Ahmed Shah Massud, assassinato dai sicari di Bin Laden alla vigilia degli attentati dell’11 settembre. Accanto al suo sepolcro, su un’altura che domina la vallata, sorgeranno un albergo e un museo militare con annessi negozi di souvenir. Un progetto discutibile, come quelli che riguardano le lussuose ville dei notabili tajiki: il palazzo del maresciallo Fahim, vice di Massud ed ex ministro della Difesa di Karzai, è una reggia con ponte privato sul fiume e prato all’inglese. Ma è anche il sintomo della rinascita dell’economia, resa possibile dalla ritrovata sicurezza e dall’avvio dei programmi di ricostruzione.

La valle è senza luce elettrica: ad Anabah è l’ospedale di Emergency a distribuirla alle abitazioni del paese e anche nel capoluogo Bazarak sono in funzione i generatori. Ma la strada asfaltata che avanza nel fondovalle ha accorciato le distanze e spezzato il secolare isolamento del Panjshir, incuneato tra le catene dell’Hindu Kush e bloccato per mesi dalla neve. Il tragitto da Kabul a Bazarak non richiede oggi più di due ore in auto: una benedizione per i commercianti che dovevano affrontare il viaggio in jeep sulla vecchia mulattiera. L’asfalto aggredirà in futuro il passo di Anjuman, a quota 4 mila metri, collegando la valle al Badakshan e al confine cinese, mentre una rete viaria periferica raggiungerà entro il 2011 anche i villaggi più remoti: un nuovo ponte nel distretto di Rokha è già stato inaugurato all’inizio dell’anno.

La viabilità è cruciale anche sul fronte sanitario. In Afghanistan il tasso di mortalità maternale (18 per mille) è tra i più elevati al mondo e nelle aree montuose come il Panjshir il rischio è accresciuto dalla difficoltà dei trasporti: cliniche e ambulatori si trovano spesso a molte ore di cammino e quasi tutte le donne sono costrette a partorire in casa.

Risalendo la valle si notano ovunque i segni della vita che riprende. Alle 8 in punto, davanti alla scuola elementare femminile di Anabah, le bambine si radunano in attesa dell’inizio delle lezioni: arrivano da sole, con il velo bianco di bucato, senza genitori e senza scorta. Sono più di 30 gli istituti maschili e femminili, primari e secondari, in fase di completamento. Sul pendio della montagna gli operai stanno ultimando una strada sterrata verso la provincia di Kapisa. E i contadini lavorano nei campi.

L’autunno che colora di giallo e di viola i boschi è breve. I gelsi e i melograni perdono le foglie e la prima neve è già caduta sulle creste: si taglia la legna, si sistemano le canalette per l’irrigazione, si preparano il fieno e le conserve. I ragazzini riempiono ceste di uva, di mele, di noci. Le donne raccolgono patate e cipolle. E verso sera s’incontrano i nomadi kuchi che scendono con le greggi dai pascoli dell’Anjuman: camminano di notte, con i bambini infagottati nelle coperte che dondolano sul basto dei dromedari. Torneranno a primavera.

L’agricoltura, con le miniere di smeraldi, è la principale risorsa del Panjshir: occupa il 95 per cento dei 600 mila abitanti della valle. E molti progetti in questo settore vitale sono finanziati dal Provincial reconstruction team americano, un centinaio di agronomi, ingegneri e tecnici alloggiati nella base “Lion” che si muovono senza blindati e senza giubbotti antiproiettile. Hanno distribuito 900 alveari con il duplice obiettivo di facilitare l’impollinazione naturale e di generare un reddito rurale aggiuntivo: ogni alveare è in grado di produrre miele per un valore di circa 45 dollari all’anno, un sesto del reddito medio dei contadini. Un altro progetto di pollicoltura coinvolge più di 1.200 famiglie, mentre a Bazarak è stato aperto un impianto gestito dalle donne che sforna succhi di frutta e marmellate, già in vendita sul mercato locale. Per Lialima, 37 anni, è la prima, insperata opportunità di lavoro: “Ero confinata in casa” racconta. “Ora posso contribuire al reddito della mia famiglia”.

Per raggiungere le miniere bisogna spingersi fino a Khenj, un villaggio abbarbicato sul fianco della montagna dove i contadini hanno utilizzato i bossoli dei pezzi d’artiglieria sovietici per rinforzare i tetti delle case e i recinti del bestiame, e proseguire a piedi per tratturi di capre fino a quota 2.800. Non si vedono uomini armati e nemmeno coltivazioni di taryak, l’oppio. “I talebani non hanno mai messo piede in questa valle” dice il governatore Haji Bahlol “e mai lo metteranno. Quanto ai papaveri, da noi sono banditi: un impegno ricompensato dal governo con 1,4 milioni di dollari da destinare all’agricoltura”.

Superato il villaggio di Piazar ci si arrampica nella stretta valle di Chubak, verso il Nuristan. Il campo dei minatori consiste in una mezza dozzina di tende e di rifugi di pietra coperti da teli di plastica. Nella parete a strapiombo si aprono le gallerie dove gli scavatori perforano la montagna in cerca della vena: alcuni con i compressori e i martelli pneumatici; la maggior parte a mano, alla luce delle lampade a gas, battendo per ore la roccia con i cunei di ferro, per una paga di 40 dollari al mese.

Un grido di avvertimento e una corsa a ripararsi dietro il masso più vicino precedono il boato delle detonazioni: esplosivo fabbricato sul posto, a base di fertilizzanti come il nitrato di ammonio, lo stesso utilizzato dai kamikaze di al-Qaeda. “Fu un vecchio pastore a trovare il primo smeraldo, più di 30 anni fa” racconta Rashid, uno degli scavatori. “Ora ci sono almeno 500 gallerie in queste valli, e migliaia di cercatori”.

Le ricchezze minerarie del Panjshir, già sfruttate nel IX° secolo per il conio delle monete e citate dal geografo arabo Ibn Hawkal, sono ingenti. Ma fu durante l’invasione sovietica che il commercio degli smeraldi si trasformò in una risorsa strategica: Massud finanziò la resistenza con i preziosi cristalli verdi e molti mujahiddin, al termine del conflitto, si trasformarono in minatori.

I metodi sono primitivi e gli incidenti causati dalle eplosioni, dal crollo dei cunicoli non puntellati, dalle schegge e dalle cadute accidentali nei precipizi sono all’ordine del giorno. Ma gli scavatori accorrono, a migliaia. L’eccezionale qualità e l’abbondanza delle pietre alimentano un’industria che, se ben gestita, potrebbe trasformare l’intera economia della valle e rimpinguare le casse dello stato. La Panjshir Emerald Company, fondata nel 2009, sogna di esportare 300 milioni di dollari all’anno di smeraldi. Ma, per ora, la maggior parte delle pietre finisce di contrabbando in Pakistan e a Dubai.