Survivors
Jos, Nigeria, May 2013

Il Corano e la Croce

 

Dogo Nahawa è un villaggio di case di fango e tetti di zinco a mezz’ora di viaggio da Jos, capitale dello stato di Plateau, nordest della Nigeria. Era un villaggio. Adesso è un cimitero. I nomi dei 500 contadini massacrati a colpi di machete e di Kalashnikov sono incisi sulla corteccia dei cactus piantati nella terra rossa della fossa comune, segnata da una sbilenca croce di ferro e da una lapide di pietra “ai martiri cristiani”.

Non sono tutti morti. Ci sono gli orfani scampati alla strage, accuditi da due suore irlandesi che si sforzano di sorridere e di giocare, di “lenire le ferite interne”, che non guariscono mai. Abigael, 11 anni, ha perso due fratelli. Elizabeth, 12, ha visto tutto: il fuoco, gli spari nella notte, le sorelle in un lago di sangue con la gola tagliata.

Ci sono i morti viventi, acquattati nei ruderi delle capanne incendiate.

Daniel Jik, 60 anni, è il capo del villaggio fantasma: “Sono sbucati senza preavviso, a centinaia, da quelle colline” racconta. “Io e mia moglie siamo fuggiti da una porta sul retro ma tutti i nostri 10 figli sono stati uccisi, fatti a pezzi o mitragliati”.

Lydia John sta seduta in disparte sul tronco di un albero, lo sguardo fisso nel vuoto: non c’è luce nei suoi occhi. Era una giovane donna di rara bellezza, in età da marito. Una cicatrice dalla testa allo zigomo le sfigura il viso e le mani sono due monconi rattrappiti. “Era buio e correvo a perdifiato. Mi hanno afferrato e hanno cominciato a colpirmi. Se ne sono andati perché mi credevano morta”.

Sull’altopiano il clima è salubre, il suolo fertile, le piogge abbondanti. Ma le campagne sono in abbandono, silenziose e spopolate. Lo slogan del Plateau, “terra della pace e del turismo”, suona sinistramente beffardo in uno degli stati della Federazione più colpiti dagli scontri a sfondo etnico e confessionale che da decenni insanguinano il Paese e che solo negli ultimi tre anni hanno mietuto più di quattromila vittime civili: un conflitto, sbrigativamente catalogato come guerra di religione tra cristiani e musulmani, che ha origini e risvolti molto più complessi.

Nessuno dei sopravvissuti di Dogo Nahawa menziona tra gli autori del massacro le milizie di Boko Haram, il gruppo jihadista responsabile dei feroci attacchi contro le chiese e le comunità cristiane inserito lo scorso 13 novembre, assieme al suo ramo dissidente Ansaru, nell’elenco delle organizzazioni terroristiche del dipartimento di Stato americano. “Allevatori Fulani” è l’invariabile risposta dei morti viventi.

Il sequestro di numerosi tecnici occidentali, la moltiplicazione degli attentati suicidi e le pressioni della Casa Bianca, preoccupata dei legami dei gruppi fondamentalisti nigeriani con i jihadisti di al-Qaida nel Maghreb, hanno spinto il presidente Goodluck Jonathan all’azione. In maggio, con un occhio alle elezioni del 2014, ha decretato lo stato d’emergenza nel nordest (Borno, Yobe e Adamawa) e una “guerra totale” contro Boko Haram.

L’offensiva, con l’impiego dell’aviazione e delle truppe speciali, non sembra però avere raggiunto risultati apprezzabili. Abubakar Shekau, che ha assunto la guida di Boko Haram (in lingua hausa “l’istruzione occidentale è vietata”) dopo l’uccisione nel 2009 del fondatore del gruppo, Mohammed Yusuf, è apparso in settembre in un bellicoso video in cui predica la guerra santa e preconizza l’instaurazione della sharia, la legge islamica, in tutta la Nigeria. Pochi giorni dopo 50 studenti dell’istituto di agronomia di Gujba, nello Yobe, sono stati trucidati nel dormitorio della scuola. E il 3 novembre altre 30 persone sono morte nell’attacco a un corteo nunziale nei pressi di Maiduguri, la capitale del Borno, roccaforte di Boko Haram. Ma non sono soltanto i miliziani islamici ad avere le mani sporche di sangue.

In aprile, dopo un raid delle forze di sicurezza nel villaggio di Baga, sul lago Chad, sono rimasti sul terreno i cadaveri di 200 civili. E Amnesty International, secondo cui almeno 950 prigionieri sono deceduti nelle carceri militari nei primi sei mesi del 2013, ha più volte denunciato le gravi violazioni dei diritti umani imputate alla Joint Task Force, i reparti anti terrorismo: esecuzioni sommarie, arresti arbitrari, torture, saccheggi, misteriose sparizioni.

Per capirne di più vado a cercare Ignatious Kaigama, l’arcivescovo di Jos. La città è blindata dai posti di blocco dell’esercito, anche se basta allungare un po’ di naira per evitare i controlli. Le moto, il mezzo più usato dai terroristi per gli attentati, non possono circolare. Cristiani e musulmani vivono segregati in zone separate, pronti a scatenare rappresaglie alla minima provocazione. L’intero quartiere cristiano alle spalle della cattedrale è stato bruciato. L’arcivescovo sta celebrando il rito domenicale: “Ricordate Things fall apart, il capolavoro del nostro grande scrittore Chinua Achebe” dice nell’omelia. “La Nigeria va a pezzi, si uccide senza provare vergogna e la religione è diventata un’arma di distruzione!”

Dopo la messa, nella quiete della sua residenza, Kaigama riempie di appunti il mio taccuino. L’offensiva militare, ne è convinto, non risolverà il problema: le milizie armate hanno basi oltreconfine, in Niger, in Cameroon, in Chad, e si muovono su un territorio che l’esercito non è in grado di controllare. Il conflitto, del resto, ha radici lontane e precede di decenni l’apparizione di Boko Haram: risale ai tempi della colonizzazione, quando gli inglesi trasferirono dal nord i musulmani Hausa per impiegarli nelle miniere di stagno di questa regione, e si è esacerbato dopo l’indipendenza nel 1960, con una costituzione che non garantisce gli stessi diritti ai nativi e agli immigrati dagli altri stati della federazione. Col risultato che musulmani e cristiani, in Nigeria, sono allo stesso modo discriminati.

Il colosso africano – 180 milioni di abitanti, egualmente ripartiti tra le due maggiori fedi religiose – è una nazione artificiale. Gli animisti e i cristiani del sud hanno ben poco in comune con i musulmani del nord. Tutto è diverso: la lingua, il cibo, l’ambiente, le divinità, le tradizioni, l’economia.

“Lo scontro” spiega Kaigama “era inevitabile. Nel Plateau gli allevatori nomadi Fulani hanno invaso con le mandrie i campi coltivati entrando in conflitto con gli agricoltori Berom e innescando un ciclo di sanguinose rappresaglie. I Kalashnikov e i lanciarazzi hanno ben presto preso il posto dei machete e delle lance. Poi è arrivato Boko Haram con le autobombe, gli assalti alle chiese, gli attacchi suicidi e la propaganda jihadista, che fa presa facile sulla massa dei giovani disoccupati e analfabeti. La religione è un pretesto. Alla base del conflitto ci sono altri fattori: la povertà, l’ignoranza, la lotta per la terra, gli interessi politici, le disuguaglianze sociali, la corruzione dilagante”.

Lo sceicco Balarabi Daud, imam della Grande moschea di Jos, condivide l’analisi dell’arcivescovo Kaigama: “Non è una questione di religione ma di diritti politici. Qui i musulmani sono cittadini di seconda classe: i nostri figli non trovano lavoro, non hanno accesso all’istruzione superiore e finiscono in strada, facile preda della propaganda estremista e di politici senza scupoli”. Con pochi naira, dice l’imam, Boko Haram può reclutare un kamikaze tra gli al-majiri, “i discepoli” della tradizione Hausa: ragazzini-mendicanti di 12-14 anni usciti dalle scuole coraniche. Ma anche tra i cristiani alligna il fanatismo. La chiesa ufficiale è in difficoltà di fronte alla proliferazione delle sette evangeliche più intolleranti, dei “pastori” che predicano la violenza e dei movimenti millenaristici che promettono – spesso in cambio di denaro – redenzione ultraterrena e riscatto da un’abissale miseria.

In Nigeria, che pur essendo l’ottavo esportatore di greggio al mondo, il primo produttore africano e il terzo fornitore degli Stati Uniti deve importare la benzina, il 70 per cento della popolazione vive con meno di un dollaro al giorno: gli oltre 380 miliardi di dollari in royalties petrolifere incassati in 40 anni dal governo federale sono stati sperperati o rubati da una nomenklatura tra le più corrotte del pianeta. Negli stati del delta del Niger, che galleggiano su un oceano di oro nero, gli indigenti al di sotto della linea della povertà sono raddoppiati nell’ultimo ventennio. Non stupisce che si siano moltiplicati i gruppi armati, come il Mend (Movimento per l’emancipazione del delta del Niger), da anni impegnati in un conflitto a bassa intensità contro le multinazionali del petrolio: attaccano gli oleodotti e le piattaforme off-shore, prendono in ostaggio i tecnici stranieri, ingaggiano sanguinosi scontri con la polizia e l’esercito.

A Jos, dove le uniche fabbriche sono un impianto per l’imbottigliamento della Coca Cola e uno stabilimento alimentare di proprietà libanese, i disoccupati si arrangiano vendendo burukuntu, la birra di sorgo, o spezzandosi la schiena nelle cave di stagno abbandonate dove centinaia di minatori informali rischiano la pelle per estrarre dai pozzi la nuova manna africana: coltan (columbite-tantalite), il minerale strategico dell’industria elettronica.

Priscilla, 30 anni e 4 figli, è alla testa di una squadra di cinque scavatori. Ha cominciato da bambina, con suo padre, e sa riconoscere a prima vista la qualità del metallo: non si lascia fregare dai compratori cinesi e tutti la rispettano. Lavora sette giorni su sette, dall’alba al tramonto, con le gambe nell’acqua di lavaggio, setacciando e riempiendo sacchi di sabbia rossastra. “A 40 anni” dice “sarò finita. Ma posso mandare i miei figli a scuola. Lo giuro su Dio: loro non metteranno mai piede nei pozzi”.