Sanaa, Yemen, January 2010

Giovanni Porzio – da Sanaa

Nella remota e impoverita provincia di Ibb, nello Yemen centrale, l’ospedale battista di Jibla accoglie ogni anno più di 40 mila malati e presta cure gratuite agli indigenti: contadini che coltivano cereali sulle aride terrazze scavate a fatica nei fianchi delle montagne. Ma era da tempo nel mirino degli integralisti islamici, che lunedì 30 dicembre sono entrati in azione. Abed Abdul Razak al-Kamil è penetrato nel compound dell’ospedale e ha ucciso a colpi di Kalashnikov tre missionari americani: la dottoressa Martha Myers, in servizio da 24 anni, il direttore sanitario William Koehn, a Jibla da 28 anni, e l’amministratrice Kathleen Gariety, sul posto da un decennio. Il farmacista Donald Caswell è stato gravemente ferito.

Quarantotto ore prima a Sanaa un complice di Razak al-Kamil, Ahmed Ali al-Jarallah, aveva assassinato il vice segretario generale del Partito socialista Jarallah Omar, che partecipava ai lavori del congresso del partito islamico al-Islah. I due terroristi, che secondo la polizia yemenita sono collegati alla rete di al-Qaeda, hanno ammesso di far parte di una cellula clandestina di almeno 5 membri il cui obiettivo è pianificare attentati “contro stranieri ed esponenti politici di orientamento laico”. Ali al-Jarallah era stato arrestato nel 2001 per aver pronunciato nelle moschee della capitale infuocati sermoni in cui minacciava di morte i dirigenti del Partito socialista e si scagliava contro i missionari cristiani, le minoranze sciite, il presidente Ali Abdullah Saleh e il leader di al-Islah Abdullah al-Ahmer (entrambi colpevoli di avere introdotto la democrazia nel Paese).

I due episodi di sangue, tragici ma di basso profilo, non paiono potersi ascrivere a una strategia di attacco orchestrata da Bin Laden: gli investigatori tendono piuttosto ad attribuirne la responsabilità a gruppi di estremisti autoctoni. Sono però un nuovo, sinistro avvertimento al governo di Sanaa, che ha reagito rafforzando i posti di blocco e le misure di sicurezza attorno alle sedi diplomatiche occidentali, al parlamento, ai ministeri. E sono la conferma che lo Yemen è diventato – dopo l’Afghanistan e il Pakistan – il principale fronte della guerra dichiarata da George Bush Jr. al terrorismo internazionale all’indomani delle stragi dell’11 settembre 2001 a Washington e New York.

Secondo l’intelligence americana il Paese ospiterebbe un elevato numero di militanti e di sostenitori di al-Qaeda: veterani della guerra santa contro l’Armata rossa in Afghanistan, mujahiddin che a migliaia combatterono a fianco di Osama bin Laden e che all’inizio degli anni Novanta ritornarono nello Yemen, in tempo per partecipare al conflitto che opponeva il Sud marxista al Nord spalleggiato dall’Occidente. E diedero un contributo determinante alla vittoria del presidente Saleh.

Come l’Afghanistan, lo Yemen ha caratteristiche che lo rendono permeabile alle infiltrazioni: un territorio vasto, montuoso, accidentato e difficilmente controllabile, una struttura sociale clanica e tribale, una consolidata tradizione guerriera, un alto tasso di analfabetismo e un radicato sentimento religioso. Nel Jawf e nel Marib, regioni al confine con l’Arabia Saudita dove l’esercito di Sanaa deve fare i conti con le bellicose tribù locali, potenti sceicchi amministrano la giustizia, prelevano le tasse e dispongono di milizie equipaggiate con pezzi di artiglieria, lanciagranate e vecchi ma efficienti tank di fabbricazione sovietica. Si calcola che nel Paese circolino 60 milioni di armi da fuoco: più del triplo dell’intera popolazione yemenita.

Nella seconda metà degli anni Novanta la terra ancestrale dei Bin Laden (il padre di Osama, poi emigrato alla corte dei Saud, nacque in un villaggio del Wadi Dohan, nella valle meridionale dell’Hadramawt) era una delle principali basi organizzative e operative di al-Qaeda. Il medico cairota Ayman al-Zawahri, braccio destro di Osama, teneva regolarmente riunioni della Jihad egiziana nella Casa della gioventù di Sanaa. All’università islamica della capitale yemenita si iscrivevano giovani integralisti provenienti da tutto il mondo arabo e non solo: tra gli studenti più zelanti c’era anche John Walker Lindh, il “talib americano” catturato nel novembre 2001 a Mazar-i-Sharif.

Secondo la Cia, militanti yemeniti di al-Qaeda avrebbero fornito la logistica per gli attentati dell’agosto ‘98 alle ambasciate americane in Kenya e in Tanzania. E nell’ottobre 2000 un commando terrorista yemenita colpì con una lancia imbottita di esplosivo l’unità della marina Usa “Cole” nel porto di Aden, uccidendo 17 marinai.

Dopo questa strage, e dopo la tragedia delle Torri gemelle, la prospettiva di vedere lo Yemen incluso nel famigerato “asse del male” ha indotto il presidente Saleh a collaborare attivamente con gli Stati Uniti nella lotta al terrorismo: se non ha accettato un’aperta presenza di truppe americane, che avrebbe provocato la reazione violenta dei capi tribali e dei partiti islamici e una crisi politica dalle conseguenze imprevedibili, il governo di Sanaa ha però consentito il discreto dispiegamento di consiglieri e istruttori militari del Pentagono, di agenti della Cia e dell’Fbi, di nuclei delle forze speciali antiterrorismo. E ha cominciato, con risultati alterni, a usare il pugno duro contro gli estremisti islamici: ha espulso o arrestato centinaia di sospetti, sfidando le ire e le minacce degli imam più integralisti e dei Simpatizzanti di al-Qaeda, un gruppo armato clandestino che reclama la liberazione dei prigionieri politici e che ha compiuto nell’ultimo anno una mezza dozzina di attentati contro edifici pubblici, residenze di ministri, caserme della polizia e dell’esercito.

Nel dicembre 2001 le forze regolari lanciarono un’offensiva nella regione di Marib, con l’intento di smantellare una cellula terroristica e di catturare Qaed Salim Sinan al-Harethi, ricercato per l’attentato contro la “Cole” e considerato il responsabile operativo di al-Qaeda nello Yemen. Avvertito per tempo da complici nei servizi di sicurezza, al-Harethi riuscì a sottrarsi all’arresto, non prima di avere ucciso 18 militari yemeniti.

Il fallimento dell’operazione convinse Sanaa a concedere agli Stati Uniti lo spazio aereo per il sorvolo degli aerei-spia senza pilota Predator di stanza a Gibuti. Che a distanza di un anno hanno centrato l’obiettivo. Il 3 novembre, in quello che Clifford Beal, direttore di Jane’s Defence Weekly, definisce “il primo atto della guerra robotizzata”, un missile Hellfire sganciato da un Predator telecomandato dalla Cia ha polverizzato la Toyota Land Cruiser su cui al-Harethi viaggiava insieme ad altri 5 compagni.

La collaborazione logistica e militare tra Sanaa e Washington, confermata in dicembre in un incontro tra il presidente Saleh e il generale John Sattler, comandante delle Joint task forces nel Corno d’Africa (800 militari e 400 marines a Gibuti e nel golfo di Aden), sta dando i frutti sperati: un altro dirigente di spicco di al-Qaeda, il saudita Abd al-Rahim al-Nashiri, probabile cervello della strage sulla “Cole”, è stato catturato il mese scorso negli Emirati. Ma i terroristi, seppure sulla difensiva, sono ancora in grado di colpire. “Si muovono su veloci pick up con una semplice tenda sul tetto” afferma Abdul Karim al-Iryani, consigliere del presidente yemenita. E si volatilizzano nel Rub’ al-Khali, il Quarto vuoto, lo sconfinato deserto alla frontiera con l’Arabia Saudita, dove forse si nasconde anche Mohammed Hamdi al-Ahdal, anch’egli ricercato per l’attentato alla nave da guerra americana.

“Siamo l’unica democrazia multipartitica della regione” dice a Panorama Faris Sanabani, direttore del settimanale Yemen Observer. “Ma abbiamo di fronte la sfida più difficile: il terrorismo, che offusca la nostra immagine e minaccia la stabilità delle istituzioni, impedisce lo sviluppo economico del Paese”. Il turismo è crollato, aggiungendo un altro dato negativo al quadro catastrofico disegnato dalle statistiche: disoccupazione al 40 per cento, tasso di crescita demografica al 3,7 per cento, spese militari che assorbono un quinto del budget (2,8 miliardi di dollari), reddito pro capite fermo a 350 dollari, il 35 per cento della popolazione che vive al di sotto della soglia minima di povertà ed è priva di acqua corrente e di servizi sanitari.

L’attacco terroristico del 6 ottobre alla superpetroliera francese “Limburg” nel porto di Mukalla ha inoltre duramente colpito il vitale settore dell’import-export di merci e di petrolio: le compagnie di assicurazione hanno aumentato le tariffe del 700 per cento e le navi disertano il terminal container di Aden e gli altri gli scali marittimi yemeniti, con un danno calcolato in oltre 8 milioni di dollari negli ultimi due mesi.

 

Giovanni Porzio – da Sanaa

Il tempo si è fermato nelle strade della città vecchia di Sana’a. Dopo la preghiera nella Grande Moschea, costruita quando ancora era vivo il Profeta, le donne sciamano nei vicoli nascoste dai neri chador e gli uomini, con il pugnale ricurvo alla cintura, si riuniscono a masticare le foglie del qat, la droga nazionale, in interminabili sedute sulle terrazze dei palazzi-grattacielo con le facciate di mattoni color fango e le finestre di alabastro: capolavori di architettura medievale che l’Unesco ha dichiarato patrimonio dell’umanità. Nelle botteghe del suq, illuminate da candele e lampade a olio, vecchi con barbe da re magi bruciano mirra e incenso del Dhofar, mentre i mercanti contrattano stoffe, spezie, profumi, argento e i dromedari fanno girare le pesanti macine del sesamo.

Ma dietro l’apparente, immutabile calma l’incantesimo si è spezzato. Dopo l’11 settembre il ritmo millenario che scandiva i giorni in questo remoto angolo della penisola arabica si è tramutato in un’inquietudine febbrile. I turisti sono scomparsi, gli alberghi sono vuoti, l’esercito ha moltiplicato i posti di blocco all’entrata delle città, la polizia presidia gli edifici pubblici, le ambasciate e le abitazioni dei ministri. Nello Yemen si aggira il fantasma di Osama bin Laden.

La presenza del terrorista saudita sul territorio yemenita è con ogni probabilità da escludere. Sono invece una certezza, secondo Washington, i collegamenti passati e presenti di numerosi islamisti locali con al-Qaeda e il loro coinvolgimento in operazioni armate contro l’Occidente. Tanto che a Sana’a, negli ultimi mesi, sono sbarcati uno dopo l’altro il responsabile dell’Fbi Robert Mueller, il direttore della Cia George Tenet, il vice segretario di Stato William Burns, il generale Tommy Franks, capo del Central Command, e il suo predecessore Anthony Zinni, il vice presidente Dick Cheney. Tutti, compreso il nuovo ambasciatore Edmund Hull, uno dei massimi esperti di antiterrorismo del dipartimento di Stato, hanno chiesto al presidente Ali Abdullah Saleh la massima collaborazione nella caccia ai sospetti fiancheggiatori di Bin Laden.

Molte piste, spesso evanescenti, conducono nello Yemen, terra ancestrale del padre di Osama, Muhammad bin Laden, che partì a dorso d’asino negli anni Trenta dal villaggio di al-Rubat nel Wadi Doan, una valle dell’infuocata regione meridionale dell’Hadhramawt, per cercar fortuna in Arabia Saudita. Diciassettesimo degli oltre 50 figli di Muhammad, Osama non ha mai vissuto nel Wadi Doan. Ma dal padre, diventato miliardario costruendo palazzi e moschee per la dinastia degli al-Saud, mutuò il radicale fondamentalismo dell’islam wahhabita e il categorico rigetto della cultura e dei costumi occidentali. Osama indossa talvolta l’abito tradizionale hadhrami, con la jambiya (il pugnale ricurvo) infilata nella cintura, e la sua quarta moglie, sposata a Kandahar, in Afghanistan, proviene da una famiglia yemenita.

Sono però altri, e più consistenti, gli indizi su cui lavorano gli investigatori dell’Fbi impegnati nelle indagini sull’attentato del 12 ottobre 2000 contro l’unità della Marina americana U.S.Cole nel porto di Aden (17 morti). Uno dei due esecutori materiali era in possesso di una patente di guida e di documenti d’identità che lo individuavano come un cittadino dell’Hadhramawt; l’altro, secondo alcuni testimoni, parlava con uno spiccato accento hadhrami; nove dei complici arrestati dalla polizia sono arabi che hanno combattuto in Afghanistan durante l’occupazione sovietica e che potrebbero aver mantenuto contatti con al-Qaeda. Negli anni Ottanta dai 20 ai 40 mila yemeniti si arruolarono al fianco dei mujahiddin afghani e di Bin Laden: al loro ritorno in patria furono accolti come eroi e nel ‘94 il presidente Saleh li reclutò a migliaia per un nuovo jihad contro l’allora Yemen del sud, spalleggiato da Mosca. Almeno 200 yemeniti (400 secondo altre fonti) hanno combattuto nei mesi scorsi con i taliban e molti di loro sono ora in carcere nella base cubana di Guantanamo. John Walker Lindh, l’americano catturato dalle forze speciali Usa a Mazar-i-Sharif, aveva ricevuto la sua formazione islamica in Yemen: prima all’università al-Iman di Sana’a, diretta dallo sceicco fondamentalista Abdul Majid al-Zindani; e nel 2000 in una “dar al-hadith” (istituto religioso) di Sa’ada, nel nord del Paese, dove lo sceicco Hadi Muqbel al-Wadi (deceduto la scorsa estate) insegnava i precetti della scuola salafista, che applica alla lettera i dettami del Corano.

Zindani è apparso di rado in pubblico dopo l’11 settembre. Ma i suoi sermoni violentemente antiebraici e antioccidentali, registrati su cassette, sono in vendita nei negozi della capitale e lo sceicco, che presiede il comitato centrale del partito islamico Islah, il secondo del Paese, conserva un’innegabile influenza nelle moschee, nel parlamento e nell’esercito. “Il presidente Saleh” spiega a Panorama il direttore del quotidiano Yemen Times, Walid al-Saqqaf, “si mantiene al potere da 24 anni grazie a un sistema di pesi e contrappesi in cui i capi tribali e i partiti islamici hanno un ruolo di primo piano. Non può permettersi di ignorarli”. Il governo, secondo al-Saqqaf, è di fronte a un bivio: se non accoglie le richieste di Washington può diventare un obiettivo del Pentagono; se accetta di collaborare fino in fondo con gli Stati Uniti rischia di provocare una rivolta delle tribù e di larghi settori delle forze armate.

Ma è un rischio che Saleh sembra deciso a correre. Ancora oggi lo Yemen sconta le conseguenze dell’appoggio a Saddam Hussein durante la guerra del ‘91, quando un milione e mezzo di emigrati yemeniti furono cacciati dall’Arabia Saudita e dagli Emirati e i Paesi del Golfo sospesero i finanziamenti a Sana’a. Da allora la situazione economica ha continuato a peggiorare: la disoccupazione è schizzata al 40-50 per cento, il petrolio (500 mila barili al giorno) basta appena a soddisfare il fabbisogno interno e a consentire un piccolo export, la produzione industriale e quella agricola (metà della superficie arabile è coltivata a qat) sono in calo. Cooperare con Washington, dunque, è una scelta obbligata. E il presidente ha già compiuto decisi passi in questa direzione.

Almeno 173 arabi – non soltanto yemeniti – sospettati di appartenere a cellule di al-Qaeda o al clandestino Islamic army of Aden (accusato di numerosi sequestri ai danni di turisti stranieri) sono stati arrestati; molte scuole religiose sono state chiuse e centinaia di insegnanti e studenti stranieri, tra i quali molti europei, sono stati espulsi; il governo ha fornito alla Cia preziose informazioni sugli individui ricercati e ha accettato l’imbarazzante presenza di un contingente militare americano ufficialmente incaricato di addestrare, consigliare e assistere le forze armate e di sicurezza yemenite. Washington spera anche di convincere Sana’a ad approvare il progetto di una stazione Sigint (Signals intelligence) sull’isola di Socotra, crocevia strategico delle rotte marittime tra il Mar rosso e l’Oceano indiano.

Ma le difficoltà logistiche e le resistenze politiche non sono indifferenti. La lunga e selvaggia costa meridionale dello Yemen, pattugliata da unità navali americane ed europee, resta permeabile alle infiltrazioni. Vaste e inaccessibili zone montuose, nell’est come nel centro-nord, ai confini sauditi, sfuggono al controllo del governo: sono feudi di capi tribali che, alla testa di potenti milizie, amministrano la giustizia in proprio e non sono disposti ad accettare interferenze esterne, né da parte di Sana’a, né tanto meno da parte di Washington. E in un Paese nel quale il numero delle armi è di tre volte superiore a quello degli abitanti (nei bazaar alla periferia della capitale si trova di tutto: dalle mitragliatrici ai lanciagranate), il compito delle squadre antiterrorismo rasenta l’impossibile.

Molti simpatizzanti o presunti membri di al-Qaeda, tra i quali due dei principali indiziati per l’attentato alla Cole, Muhammad Hamdi al-Ahdal e Ali Qaid al-Harithi, si sono dileguati nelle aree più impervie sotto la protezione degli sceicchi e della popolazione locale. Lo scorso dicembre, durante un raid contro sospetti terroristi in un villaggio nei pressi di Ma’rib, 18 soldati hanno perso la vita. Da allora il presidente, che teme contraccolpi sulla stabilità del governo, ha imboccato la strada del negoziato con le tribù. Con risultati, però, inferiori alle aspettative di Washington.

Saleh, d’altronde, non può esporsi fino al punto di spezzare il delicato equilibrio di complicità e alleanze tra capi tribali, notabili religiosi e ufficiali dell’esercito che gli ha consentito di restare finora al potere. Lo sceicco degli Hashed, la più potente tribù yemenita, è Abdullah al-Ahmar, presidente del parlamento e del partito di opposizione islamica Islah. E lo sceicco Tariq al-Fadli, erede del sultano di Abyan e leader dei veterani dell’Afghanistan, che non ha mai nascosto le proprie simpatie per Bin Laden, è membro del consiglio presidenziale.

L’inasprimento delle misure repressive ha già provocato reazioni violente: minacce, lanci di granate contro l’ambasciata americana, attentati contro esponenti del governo e responsabili della sicurezza interna. Il fantasma di Osama continuerà per lungo tempo a condizionare i destini politici di Sana’a e il futuro dello Yemen.