Qurna, Egypt, December 2006

Giovanni Porzio – da Luxor (20.12.06)

Quando arrivano le ruspe la casa di Abdul Hof è una carcassa spolpata. La sua famiglia è al lavoro dall’alba per svuotare i locali e recuperare i materiali utili. Gli uomini hanno divelto le porte e gli infissi, strappato i fili della luce, sradicato i tronchi di palma che sorreggevano il tetto. Le donne hanno trasportato le masserizie sul piazzale di fronte in attesa del camion: letti, armadi, materassi, la tv, la cucina a gas, il frigo, le ceste dei polli e i bauli dei vestiti. I vecchi e i bambini osservano in silenzio, accucciati sulla cresta di un’altura che domina la vallata del Nilo.

Il bulldozer, sorvegliato da un ispettore del governo, impiega più di un’ora per demolire i robusti muri di pietre e mattoni di fango, che infine crollano in una nube di polvere giallastra. “Maledetti!” ringhia Abdul Hof. “I miei antenati avevano costruito questa casa due secoli fa. I monumenti sono forse più importanti degli esseri umani?”

Da almeno sessant’anni le autorità del Cairo cercano di espellere i 10 mila residenti dei villaggi di Qurna dalla zona archeologica delle necropoli dell’antica Tebe, sulle colline dove s’incuneano le valli dei Re e delle Regine. Il primo tentativo, negli anni Quaranta, era fallito: la “nuova Qurna” progettata dall’architetto Hassan Fathy non aveva convinto gli abitanti a spostarsi ed è stata occupata da successive ondate di immigrati. Nel 1997 uno sgombero forzoso era finito in violenti scontri con la polizia e con un bilancio di quattro morti e una ventina di feriti.

Questa volta il destino dei villaggi appare segnato. Con un approccio più morbido ma non meno inesorabile il generale Samir Farag, governatore di Luxor, è deciso a raderli al suolo e a trasferire l’intera popolazione a Qurna Taref, un aggregato di villette a schiera realizzato a tempo record dall’esercito in un’area desertica a una decina di chilometri di distanza e costato 32 milioni di dollari. “Tremilacinquecento famiglie avranno a disposizione case moderne con acqua corrente, negozi, scuole, servizi sociali” afferma il generale Farag. “E’ cominciato il più grande esodo organizzato dall’epoca della costruzione della diga di Assuan”.

Maryam, un’anziana copta che vive con la figlia in una decrepita baracca, è contenta di andar via. Il suo letto è sistemato all’interno di una tomba dalle nude pareti di roccia. Ma non tutti concordano con i metodi e le finalità della migrazione pianificata dal governo, che insiste sulla necessità di preservare i siti archeologici minacciati dall’invasione dei turisti e dalla pressione antropica. Zahi Hawass, dinamico e controverso capo del Consiglio supremo per le antichità egiziane, è il fautore delle misure più drastiche. “Con 5 miliardi di euro all’anno il turismo è la prima industria del paese” spiega. “Proprio per questo dobbiamo proteggerla. I danni ai monumenti e alle pitture sono incalcolabili: dobbiamo dimezzare il numero dei visitatori, da 10 a 5 milioni. Il 18 per cento del nostro patrimonio archeologico è già andato perso”. A Luxor molte tombe, tra cui quelle di Tutankhamon e della regina Nefertari, sono chiuse al pubblico e saranno soppiantate da rappresentazioni virtuali con sistemi di riproduzione laser.

I villaggi di Qurna sorgono sulla necropoli dei nobili e dei funzionari faraonici, in gran parte inesplorata. Le abitazioni sono prive di condutture idriche e di fognature: i reflui e l’acqua che le donne attingono ai pozzi e trasportano sui carretti tirati dagli asini penetrano nel suolo e percolano nelle caverne sotterranee danneggiandole. Ma è un ragionamento che non convince Hassan Amer, egittologo e professore all’università del Cairo, nato in una delle tombe-case di Qurna Marai: “Le tombe sono state trasformate in cantine e in magazzini, tutto quanto era di valore è già stato trafugato e non è comunque necessario abbattere i villaggi per aprire nuovi scavi. Qurna ha una sua storia: la trasformeranno in un luogo desolato, in una città dei morti”.

Il sito originale era abitato da discendenti di popolazioni beduine che usavano le tombe come rifugi. Con l’arrivo dei primi esploratori al seguito di Napoleone e poi degli archeologi europei, i contadini locali si riciclarono in manovali negli scavi, guardiani, restauratori e – soprattutto – abili tombaroli. Una delle principali scoperte del XIX secolo, il sito DB 320, contenente le mummie, i sarcofagi e gli arredi funerari di numerosi faraoni, fu messa a segno nel 1875 dallo sceicco Abdel Rasul, che per anni continuò a vendere i papiri e i preziosi reperti ai collezionisti stranieri e agli antiquari del Cairo.

Quando nel 1850 vi giunse Gustave Flaubert, Qurna era già un insediamento strutturato: “Le case sono sopra, dentro e con le rovine. Le case abitano tra i capitelli delle colonne, le galline e i piccioni si appollaiano, fanno il nido tra le grandi foglie di loto; muri di mattoni o di fango secco separano una casa dall’altra, i cani corrono sui muri abbaiando. Così si agita una piccola vita tra i resti di una grande”. Al British Museum di Londra sono conservati i disegni di Robert Hay, che negli anni Venti e Trenta dell’Ottocento documentò l’architettura e le attività quotidiane nei villaggi: quasi nulla è cambiato. Le donne cuociono il pane nei forni di argilla, i fellahin tagliano il grano e la canna da zucchero nella piana verdeggiante del Nilo, i traghettatori in galabiya alzano la vela delle feluche e le ragazzine vendono collane e bambole di pezza ai turisti di passaggio.

I villaggi sono parte del paeseggio, il cui fascino fiabesco scaturisce proprio dall’innesto delle zone abitate sullo sfondo archeologico e monumentale dell’antica necropoli: un presepe che al calar del sole si accende di mille luci tremule, tra il viavai degli asini, le voci e i giochi dei bambini. Un mondo condannato a scomparire. Solo venti case, forse meno, saranno risparmiate grazie a un accordo con l’Unesco: le più belle, con le facciate d’intonaco pastello decorate con murales che raccontano il pellegrinaggio alla Mecca. Ma per farne uffici amministrativi, musei, posti di ristoro.

“Dicono che le nuove case sono confortevoli e moderne” lamenta Ahmed Mohammed Abdel, scultore. “Ma non è vero. Ci vogliono deportare in appartamenti dove non c’è spazio per gli animali e per le nostre famiglie allargate: siamo abituati a vivere insieme, nonni, figli, nipoti e pronipoti. E poi chi proteggerà le tombe? Io e mio padre le abbiamo custodite perché ci viviamo sopra. Metteranno un esercito di poliziotti? Sono nato e cresciuto qui, e da qui non ho intenzione di andarmene”.

Un altro irriducibile è Mohammed Abdel Salam “Snake”, proprietario della Sennefer Guest House: dieci stanze e una terrazza con vista mozzafiato sulla necropoli, il tempio di Ramesse e il Nilo. “Abbiamo speso tutto per costruire l’albergo, che è la nostra unica fonte di reddito. E ora mi vogliono cacciare. Non c’è motivo. La mia acqua finisce in serbatoi che svuoto ogni settimana: è mio interesse proteggere i monumenti, collaborando con il governo. Qui sotto non c’è niente, mentre intorno ci sono centinaia di ettari dove scavare”.

Il vero obiettivo, anche a parere di molti esperti, è fare di Qurna un parco archeologico “sterilizzato”, circondato da mura di cinta e controlli di sicurezza, assecondando lo stolido trend del turismo organizzato: quegli “inclusive tours” con torpedoni e colazione al sacco che considerano un’inutile e pericolosa perdita di tempo qualsiasi contatto con la popolazione locale. Una prassi consolidata e quasi militarizzata, soprattutto dopo la strage del 17 novembre 1997 al tempio funerario di Hatshepsut, dove 58 turisti e 4 guardie furono massacrati a raffiche di mitra da un commando di terroristi islamici.

Gli ispettori fanno la ronda nei villaggi con l’elenco degli edifici da demolire e i nominativi degli assegnatari dei nuovi appartamenti. Scoppiano furiose discussioni. “Ho una famiglia di 12 persone, ho 5 fratelli e 3 figli” sbotta Jaber. “Ci volete rinchiudere in tre stanze? E che ne sarà del mio negozio di artigianato?” “Io sono un contadino” incalza Gamal. “Ci costringete a vendere gli animali: al mercato il prezzo degli asini e delle vacche è crollato. Come faremo a campare?” “Ho una fabbrica di alabastro” si sfoga Khaled. “Perderò il lavoro e dovrò licenziare dieci operai”.

Guide turistiche non autorizzate, venditori ambulanti di cianfrusaglie, tassisti, piccoli artigiani e guardiani delle tombe rischiano di restare disoccupati. Sarà anche più difficile accalappiare le facoltose turiste nordeuropee in caccia di un marito o di un’avventura erotica sul Nilo: attività che nell’ultimo decennio ha fatto nascere un lucroso business, con  agenzie specializzate in viaggi romantici e in contratti matrimoniali, truffe ai danni delle sprovvedute signore e inevitabili strascichi legali. Al punto che l’ambasciata britannica ha incaricato un funzionario di monitorare sul posto il dilagante fenomeno.

Nel pomeriggio la grande casa di Abdul Hof è un cumulo di macerie e le ruspe hanno preso di mira un altro edificio. Lo accompagno al suo nuovo alloggio: tre stanze per sette persone, un salottino, cucina e bagno microscopici, soffitti bassi. Un’infilata di villette come nel compound di una caserma, con pareti di cemento che nella torrida estate nubiana le trasformeranno in soffocanti fornaci. E intorno soltanto il deserto. Le donne non sanno dove mettere le oche e le ceste con le galline. La cucina a gas non passa dalla porta. E dai rubinetti non stilla una goccia d’acqua. Il vecchio Ali, il nonno, guarda i nipoti che armeggiano con la tv. Poi si rivolge al figlio: “Abdul Hof! Qui non è degno. Me lo hai promesso: voglio morire nella tomba in cui sono nato”.