Osama Bodyguard
Sanaa, Yemen, January 2010

Giovanni Porzio – da Sana’a (28.01.10)

Il suo nome di battaglia, in Afghanistan, era Abu Jandal: lo sterminatore. Per quattro anni, dal 1996 al 2000, è stato la guardia del corpo personale di Osama bin Laden. Lo accompagnava ovunque, di giorno e di notte, camminando due passi avanti lo sceicco, per fargli scudo alle pallottole o assorbire il primo impatto di una granata. E aveva, lui solo, uno speciale incarico: uccidere il leader di al-Qaeda.

“Oltre al Kalashnikov” racconta nella penombra di un cortile interno, nella millenaria città vecchia di Sana’a, “avevo una pistola russa con otto colpi nel caricatore. Con questa avrei dovuto colpire alla testa Osama se nel corso di un attacco non fossimo stati in grado di evitarne la cattura. Meglio la morte, mi disse consegnandomi la rivoltella, che finire nelle mani degli infedeli. Io ero sconvolto: come potevo uccidere il mio capo, il mio padre spirituale? Prima di accettare ho resistito una settimana. Poi ho capito. E ho giurato a me stesso che avrei fatto di tutto per impedire quel sacrificio”.

Abu Jandal, 38 anni, il cui vero nome è Nasser al-Bahri, vive in semilibertà con la moglie e i cinque figli a Sawaan, un polveroso quartiere della capitale yemenita a poche centinaia di metri dal bunker dell’ambasciata americana, presidiata dall’esercito e difesa da giganteschi blocchi di cemento. Non ha l’aspetto di un killer: veste casual, con un berretto a visiera da baseball e un maglioncino; profuma di dopobarba e sul robusto fisico da pugile ha qualche chilo di troppo. Oggi Abu Jandal ha preso le distanze da al-Qaeda, ma la sua storia illumina risvolti inediti dell’universo jihadista, del carattere e della personalità del terrorista più ricercato del pianeta, sulla cui testa pesa una taglia di 50 milioni di dollari.

Nato in Arabia Saudita da genitori yemeniti originari dell’Hadramaut, la terra ancestrale del padre di Osama, poi emigrato alla corte dei Saud, Nasser crebbe nell’ambiente religioso della media borghesia. Suo padre era ingegnere meccanico a Jeddah, in una società dei Bin Laden dove anche suo nonno materno aveva lavorato come autista. “Da ragazzino, negli anni Ottanta, vedevo alla televisione le immagini dell’intifada in Palestina: i massacri, gli arresti, i bombardamenti, la distruzione delle case arabe. A scuola mi dicevano che il jihad è un dovere per un musulmano. Fu così che presi la mia decisione: volevo combattere l’oppressione e l’ingiustizia nel mondo”.

Una mattina del 1993, dopo la preghiera, Nasser se ne andò di casa: destinazione Bosnia. Un viaggio senza ritorno, che dopo la firma degli accordi di Dayton tra serbi e bosniaci lo portò in Somalia. “Ci spostavamo lungo le frontiere dell’Etiopia e del Kenya, tra Lugh e Mandera. Ci nascondevamo nella boscaglia: c’erano combattenti cinesi, arabi, americani, alcuni di origine italiana. Poi, nel 1996, andai in Afghanistan. Volevo unirmi ai tajiki dell’Hezb an-Nahda, il Partito della rinascita di Abdallah Nuri, che aveva basi a Kunduz e a Taloqan. Ma la massiccia presenza dei militari russi al confine rendeva impossibili le operazioni. A quell’epoca fui contattato anche dai seguaci del comandante Ahmad Shah Massud, ma il loro stile di vita non mi convinceva: bevevano, fumavano hashish, pregavano poco. I taliban, invece, si comportavano da veri musulmani”.

L’incontro con Osama, a Jalalabad, fu una rivelazione. “Bin Laden aveva appena dichiarato il jihad e aveva bisogno di mujahiddin. Mi chiamò e mi chiese di far parte del primo nucleo di combattenti arabi sotto il suo comando, il Gruppo del nord. Non eravamo in molti. In Occidente ci credevano migliaia, in realtà eravamo poche centinaia. Fino al 2000 i membri effettivi di al-Qaeda non erano più di 500, e anche a Guantanamo, tra i detenuti, non ce ne sono oggi più di una quindicina. Ma eravamo bene addestrati e disposti a morire. Osama diceva: ogni membro dell’organizzazione è lui stesso un’organizzazione”.

Per sette mesi Abu Jandal partecipò a corsi di addestramento nei campi afghani di al-Qaeda: uso di armi ed esplosivi, letture del Corano, discussioni teologiche e politiche. Osama aveva una biblioteca di centinaia di libri. Un giorno il campo di Najm al-Jihad (Stella del Jihad) a Jalalabad fu attaccato. Abu Jandal impugnò le armi e raggiunse la guardia di Osama battendosi con coraggio: lo sceicco notò la sua reazione e lo nominò capo della scorta.

“Si fidava di me” dice Abu Jandal “perché aveva visto che ero pronto al martirio. Ci spostavamo in continuazione. La scorta era composta da 50 mujahiddin, ma tre di noi gli stavano sempre al fianco. Rimaneva da solo unicamente la notte, nella sua casa di Kandahar, nella stanza dove dormiva con i figli. Io sorvegliavo la porta, altri le finestre. Ma se restava sveglio, stavamo con lui”.

A Kabul Osama aveva numerose residenze temporanee: una nel quartiere di Wazir Akhbar Khan, un’altra dietro l’Hotel Intercontinental. Altre abitazioni erano utilizzate come centri di accoglienza per i mujahiddin stranieri che affluivano in Afghanistan, come depositi di armi e munizioni, laboratori per la fabbricazione di detonatori e documenti falsi, tipografie per la traduzione e la stampa di manuali di guerriglia urbana. Ogni tanto Osama vi faceva visita, ma la sua base abituale prima dell’11 settembre erano le Tarnak Farms, un compound alle porte di Kandahar provvisto di tunnel di fuga in caso di attacco americano.

Secondo Abu Jandal il Pentagono ebbe la migliore opportunità per eliminare Bin Laden nell’agosto 1998, subito dopo gli attentati alle ambasciate americane a Nairobi e Dar el-Salam. “Osama si aspettava una rappresaglia e decise di lasciare Tarnak, diretto a nord. Giungemmo a un bivio: a destra la strada conduceva ai campi di addestramento di Khost, a sinistra si andava a Kabul. Dove andiamo? mi chiese Osama. A Kabul, risposi d’istinto. La sera dopo 75 missili Cruise investirono i campi di Khost, dove un informatore della Cia sapeva che Bin Laden era diretto. La spia era il cuoco afghano. Io ero pronto a ucciderlo, ma non fu punito. Osama lo lasciò andare e gli diede persino dei soldi. Lo sceicco è un uomo saggio e tollerante, sempre sorridente. E’ un modello per tutti noi”.

Il racconto di Abu Jandal è ricco di particolari sulla vita privata di Osama che, afferma, non si trova in Pakistan ma in Afghanistan, saldamente al comando delle operazioni di al-Qaeda e deciso a proseguire la guerra santa contro l’Occidente, anche sul territorio americano. “Le tribù pakistane al confine sono capaci di vendere qualsasi informazione per pochi dollari. Sono certo che Osama si sposta tra le montagne afghane, dove è al sicuro e dove per vivere gli bastano pane, acqua e datteri. E’ abituato a vivere con poco e ha una salute di ferro”.

Le indiscrezioni sulle sue malattie, sostiene Abu Jandal, sono false. “A Kandahar conduceva una vita regolare, mangiava solo cibi naturali e aveva quattro mogli di cui occuparsi...Aveva solo qualche problema alle corde vocali, causato dalle armi chimiche utilizzate dai sovietici durante l’occupazione. Prima dell’11 settembre faceva molta attività fisica. Al mattino leggeva e studiava e nel pomeriggio, se non aveva impegni, si dedicava agli sport: tiri col Kalashnikov, corse a cavallo, pallavolo. Sotto rete, con la sua statura, era imbattibile. Poteva montare a cavallo per 70 chilometri senza problemi: solo una volta, nel 2000, è caduto rompendosi due costole. Ogni venerdì organizzava tornei di calcio, e ovviamente giocava all’attacco!”

A quell’epoca Osama utilizzava un computer e guardava la tv, ma non si serviva di telefoni. Tutte le comunicazioni avvenivano a voce. I suoi ordini venivano trasmessi da noi con un codice segreto, oppure attraverso messaggeri. Aveva sei collaboratori che ogni giorno gli preparavano briefing e analisi da tutto il mondo. Un altro briefing settimanale con numerosi files internet arrivava da Quetta, in Pakistan, compresso in una flash card.

All’inzio del 2000 Osama affidò ad Abu Jandal l’incarico di trovargli una moglie yemenita. “Mi disse che se al-Qaeda avesse dovuto lasciare l’Afghanistan lo Yemen sarebbe diventato la sua base operativa: una famiglia yemenita sarebbe stata utile. Mi diede 5 mila dollari per la dote e io trovai una ragazza di 17 anni che divenne la sua quarta sposa”.

Nell’ottobre di quell’anno Abu Jandal era di nuovo a Sana’a: sua moglie, sofferente ai reni, aveva bisogno di cure e suo padre era gravemente malato. “Stavo visitando la Fiera del libro” racconta “quando giunse la notizia che un commando di al-Qaeda aveva colpito l’incrociatore americano Cole nella rada di Aden, uccidendo 17 marinai. Non ero al corrente di quell’operazione: era top secret. Alcuni giorni dopo fui arrestato all’aeroporto mentre mi imbarcavo per l’Afghanistan. Non mi spedirono a Guantanamo, ma finii in cella d’isolamento”.

L’11 settembre 2001 Abu Jandal era nella sua cella nel carcere di Sana’a. “Seppi dell’attentato alle Torri gemelle dall’altoparlante di una vicina moschea. Noi fui sorpreso: Osama diceva spesso che al-Qaeda avrebbe messo a segno un’operazione che avrebbe cambiato il mondo e che i regimi arabi non sarebbero stati in grado di assorbire senza conseguenze”.

Una settimana dopo ricevette una visita: Ali Soufan, agente speciale dell’Fbi, che ha dichiarato al Senato americano di avere ricevuto da Abu Jandal “un tesoro di significative informazioni sulla rete del terrore di Bin Laden, la sua struttura, leadership, armamento, addestramento, metodi di comunicazione”. Soufan afferma di avere ottenuto, senza metodi coercitivi e con l’aiuto di alcune scatole di biscotti senza zucchero (Nasser soffre di diabete), “dettagli sul commando dell’11 settembre che hanno consentito l’identificazione e l’arresto di numerosi terroristi”.

La replica di Abu Jandal, che i suoi ex compagni considerano un disertore, è scontata: sono menzogne. “Da me quell’uomo non ha avuto alcuna informazione di rilievo. E’ una spia al soldo del nemico che ha minacciato la mia famiglia: a lui non ho raccontato niente. Se avessi davvero parlato oggi al-Qaeda non esisterebbe più”.

In Afghanistan Abu Jandal aveva conosciuto Mohammed Atta, Ramzi Binalshibh e Ziad Jarrah, membri della cellula di Amburgo che pianificò l’attentato alle Torri. “Mi trovavo spesso con loro: ho un video in cui preghiamo insieme. Atta era il più religioso e taciturno, si comportava da leader. Jarrah era diverso: era stato Ramzi ad arruolarlo, in Germania. Ma non parlavano. Non immaginavo cosa stavano preparando. Comunque a quell’epoca, se me lo avessero chiesto, avrei partecipato con entusiasmo all’operazione”.

Abu Jandal sostiene di essere sempre stato contrario ad attaccare obiettivi civili. “Ma l’attentato dell’11 settembre era giustificato. Che differenza c’è con il bombardamento della scuola dell’Onu a Qana, in Libano, del rifugio antiaereo di Amiriya a Baghdad, delle moschee e degli ospedali a Gaza, dei raid aerei in Iraq, in Pakistan, in Afghanistan? Americani e israeliani uccidono migliaia di civili. Ammazzano le nostre donne e i nostri bambini. Cosa fanno i militari della Nato in Afghanistan? Cosa fanno gli italiani o i francesi? Abbiamo forse attaccato Roma e Parigi? Io non sono più un effettivo di al-Qaeda e non ho più visto Osama, ma lo ammiro: prego per lui, che Dio lo protegga!”

Nel 2002, dopo 22 mesi, Abu Jandal è uscito dal carcere. Il giudice Hamoud al-Hitar, responsabile di un programma di rieducazione per i jihadisti e attuale ministro per gli Affari religiosi, lo ha convinto a sottoscrivere una formale rinuncia alla lotta armata. “Ma non mi ha fatto cambiare idea: l’ho incontrato solo tre volte, un paio d’ore in tutto. Ho firmato perché volevo tornare a casa dai miei bambini: il mio jihad, adesso, è farli crescere e camminare sulla via dell’Islam. Quando nacque mio figlio Habib, Osama gli mise in bocca un dattero in segno di augurio. Ora Habib vuole diventare ingegnere meccanico, come suo nonno”.

Non è facile la vita dell’ex angelo custode di Osama bin Laden. Non ha un lavoro fisso: insegna in una scuola privata e sta scrivendo le sue memorie, che saranno in libreria in marzo. L’intelligence di Sana’a e l’Fbi lo sorvegliano, non ha il passaporto e una volta al mese deve presentarsi alla polizia. In casa tiene un’arma e si muove accompagnato da due amici fidati: per due volte hanno tentato di ucciderlo. “I salafiti, i Fratelli musulmani, il governo yemenita e quello americano mi considerano un terrorista. E per al-Qaeda sono un kafir, un traditore da eliminare”.

Ci incamminiamo per i vicoli del mercato. Le donne sono avvolte nel nero niqab. Gli uomini masticano le foglie del qat, la pianta euforizzante che è la maledizione dello Yemen. I Mig sorvolano la città diretti a nord: vanno a bombardare i santuari di al-Qaeda e le postazioni dei ribelli sciiti al confine saudita.

“In Yemen al-Qaeda è radicata dagli anni Ottanta: quasi tutte le guardie del corpo di Osama sono yemenite. Ora si è rafforzata, è sostenuta e protetta dalle tribù, ha basi e campi di addestramento sulle montagne e ha esteso la sua influenza in Somalia e in Arabia Saudita. Ma altrove, nel Maghreb come in Iraq o in Nigeria, è solo un marchio di cui si fregiano gruppi armati che hanno obiettivi e strategie diverse. Oggi, molti giovani che si ispirano a Osama non sanno neppure perché e per cosa combattono”.