Offshore, Congo, May 2008

Giovanni Porzio – da Port Harcourt (25.05.08)

L’elicottero sorvola la distesa grigia del Golfo di Guinea, una selva di pozzi e di torri d’acciaio che dalla Nigeria all’Angola sondano senza sosta uno dei più ricchi ed estesi giacimenti petroliferi del pianeta. E’ un ambiente ostile e desolato. Torrenziali rovesci di pioggia si alternano a roventi sprazzi di sole, su un oceano dove la spessa e uniforme coltre di umidità è interrotta dai bagliori rossastri delle fiaccole del gas.

Atterriamo sulla piattaforma DP1-PP del campo di Loango, 70 chilometri al largo di Pointe Noire, una delle 18 gestite dall’Eni in Congo. “Qui vivono 80 tecnici” spiega il direttore delle operazioni offshore Roberto Bevilacqua. “In totale abbiamo in mare 500 uomini che da 200 pozzi estraggono 60 mila barili al giorno di greggio”.

Non è un lavoro per tutti. Turni di 12 ore. Lunghe settimane lontano da casa. Rigide norme di sicurezza. Isolamento. Spazi esigui. E ovunque pericoli in agguato: cavi ad alta tensione, tubazioni sospese contenenti idrocarburi infiammabili. E la costante presenza di idrogeno solforato, altamente tossico, che riempie l’aria di un odore acre e nauseabondo. Allarmi e sistemi antincendio sono continuamente monitorati, le scialuppe di salvateggio sono pronte all’evacuazione e il personale deve attenersi alle procedure: maschere antigas a tracolla, elmetto, calzature rinforzate, niente sigarette, niente telefoni cellulari.

Ci vuole fegato per sopportare condizioni di vita così estreme. Ci vogliono forza d’animo e spirito di adattamento per resistere su un traliccio ai confini del mondo, dove l’unica via di fuga è l’elicottero o la lancia di soccorso. Ma non sono gli elevati salari a calamitare gli uomini (e più raramente le donne) sulle piattaforme. E nemmeno le prospettive di carriera rese più certe dalla corsa al rialzo del greggio, lanciato verso il picco dei 150 dollari il barile. E’ piuttosto la consapevolezza di appartenere alla compagine degli ultimi esploratori della nostra epoca: una razza nomade e indurita, una legione straniera di tecnici italiani, russi, cinesi, norvegesi, indiani, africani, americani, impegnata giorno e notte a pompare la linfa che alimenta le nostre industrie, le nostre auto, le nostre case.

Veterani come Miro Oggioni, bergamasco, responsabile delle squadre notturne della Saipem, che ha passato 32 dei suoi 56 anni tra la Libia, la Nigeria e i campi petroliferi iracheni di Bassora e di Kirkuk. “Mi piace lavorare in piattaforma” dice. “Lo so, è pericoloso: per noi che facciamo i pozzi e li mettiamo in marcia c’è il rischio delle fughe di gas e delle esplosioni. E poi: la fatica della movimentazione dei pesi, i turni massacranti anche sotto il diluvio. Non valgono i 4 mila euro del mio stipendio. Ma non potrei mai stare in un ufficio al chiuso”.

Anche Leandro Gandolfi, 55 anni, di Motta Baluffi, responsabile operativo del campo di Loango, si è fatto le ossa nel deserto libico e nella foresta nigeriana. E’ lui a raccontarmi il viaggio del petrolio dai giacimenti sottomarini al terminal di Pointe Noire: la piattaforma DP1-PP è attiva dal 1977, i suoi generatori producono l’energia che alimenta le pompe sommerse, i suoi impianti di trattamento separano il greggio dai liquidi e dai gas (bruciati in torcia) e lo immettono nella pipeline. Il rumore è assordante. Gli operai sembrano alpinisti: si arrampicano su per ripide scalette e pareti di tubi, tra grovigli di cavi, valvole e manometri. “Quando c’è cattivo tempo” urla Gandolfi nel frastuono “dobbiamo calarci nelle lance di appoggio con una cestello assicurato a un paranco”.

Nella sala comandi i computer sono collegati ai sensori che controllano la pressione dei pozzi e il flusso nei condotti. Gli incidenti sono rari. “Il problema maggiore qui è la malaria” conferma Annisett Mavungu, medico di bordo, congolese laureato all’Avana. L’equipaggio è in buona salute. Il container con i viveri arriva ogni settimana e tra pranzi e spuntini si mangia cinque volte al giorno. Il pesce fresco, barattato con uova, pasta e con il pane sfornato sulla piattaforma, lo forniscono i pescatori dalle piroghe. Ma niente vino: tutte le installazioni sono rigorosamente “dry”. E pochi svaghi: la tv, il ping pong, le telefonate a casa. Si arriva stanchi alla fine del turno, e si va in branda.

Ai tavoli della mensa il cambusiere croato, Branko Stoiacovic, racconta del suo ristorante a Novigrad, lasciato durante la guerra nei Balcani. Divorziato, ha un figlio di 15 anni che vede quando sbarca, ogni 10 settimane. “Mi manca molto” dice. Sono rare le famiglie degli “oilmen” che restano in piedi: divorzi, separazioni, doppie vite sono l’amaro risvolto delle lunghe assenze e di una vita randagia. “Ogni telefonata a casa” dice Simone Navetto, perito chimico di Orvieto, due figli di 7 e un anno, “è una coltellata al cuore”.

Nelle acque nigeriane le coltellate non sono metaforiche. I gruppi armati come il Mend (Movimento per l’emancipazione del delta del Niger) e le bande al soldo delle mafie locali hanno dichiarato guerra alle compagnie petrolifere. Dall’inizio del 2007 184 espatriati (6 italiani) sono stati presi in ostaggio, 11 hanno perso la vita e 6 sono ancora nelle mani dei ribelli; 82 militari nigeriani sono morti negli scontri. In maggio, nel corso di una nuova offensiva denominata “Operazione Ciclone”, i “boys” hanno abbordato tre navi e fatto saltare tre stazioni di pompaggio e quattro pipeline dell’Agip e della Shell: la guerriglia è riuscita a bloccare il 20 per cento delle esportazioni, con immediate ripercussioni sul prezzo del greggio.

Le piattaforme sono difese da motovedette e dalle forze speciali. Al largo incrociano le unità della Marina americana. Ma i ribelli si dileguano a bordo di veloci imbarcazioni nei meandri dello sterminato delta dove gli oyibo, i bianchi, non osano avventurarsi: un labirinto di mangrovie, isole, canali e acquitrini in cui ristagnano le chiazze oleose degli “spills” di petrolio. E dove aleggiano i miasmi dei gas combusti: 20 miliardi di metri cubi all’anno, un settimo del totale mondiale, responsabili delle piogge acide e dell’effetto serra. “La gente vive con un dollaro al giorno mentre le multinazionali guadagano miliardi con il nostro petrolio e distruggono l’ambiente” dice il leader del Mend Jomo Gbomo. “Dobbiamo fermarle”.