Nyagwete, Kenya, June 2005

Giovanni Porzio – da Nyagwethe

Motom Delfino, 160 di cilindrata, velocità di punta cento all’ora. Non era il massimo neppure nel 1959, ma era abbastanza comoda per i lunghi viaggi: sedile basso, manubrio alto, sellino posteriore sostituibile con un portapacchi, un solido talaio a forma di ariete. E si poteva acquistare a rate. Pini Franco da Ponteranica (Bergamo), classe 1932, operaio in un’azienda tessile, con una passione sfrenata per le due ruote, decide che è il mezzo giusto per riuscire nell’impresa: raggiungere Capo Nord, 9.215 chilometri andata e ritorno, vincendo il Concorso turistico organizzato dal Giornale del Popolo.

I viaggi in moto sono il chiodo fisso di Franco. Comincia giovanissimo, appena avuta la patente, con una Lambretta 125: Italia, Jugoslavia, Macedonia e il resto dell’Europa. Con una tendina, il sacco a pelo e in tasca i soldi, contati, per la benzina. Ha fatto l’alpino e sa come cavarsela. Da ragazzino ha fatto anche lo straccivendolo e il garzone da un panettiere per aiutare il padre rimasto disoccupato. Ma la sua più grande aspirazione è conoscere il mondo. “Si lavorava dodici ore al giorno, compresa la domenica” racconta. “E durante le tre settimane di ferie ero sempre sulla moto. Correre dietro alle ragazze mi sembrava una perdita di tempo”.

Anche quando si decide a fidanzarsi è in sella alla moto. “Accompagnavo a casa Rosetta, che lavorava in un laboratorio della ditta. Allo spalto di Sant’Agostino, sulle mura di Bergamo alta, mi giro e le chiedo: Vuoi diventare la mia morosa? Lei resta a bocca aperta, ma fa cenno di si col capo. Andammo subito a dirlo ai suoi genitori”. Si sposano sette anni più tardi, nel 1962, dopo aver costruito la casa di Ponteranica: una linda villetta con giardino e l’immancabile garage per la moto. “La prima notte fu un disastro” rammenta Franco. “Eravamo entrambi ancora vergini e non sapevamo come fare. Ma poi ci siamo impegnati: ora abbiamo quattro figli, tutti ammogliati, e sei nipoti”.

I viaggi continuano: un paio con Rosetta (con la moto in Spagna, in auto in Algeria), quasi tutti da solo, con il Delfino e poi con la nuova Gilera 150. Franco, che è diventato caporeparto, si spinge sempre più lontano: Marocco, Mauritania, il deserto libico. Nel 1973 cambia lavoro: impiegato tecnico in un’altra azienda tessile, la Reggiani. E in estate parte per il Medio Oriente: raggiunge Abadan, la città petrolifera nell’Iran meridionale, attraversa lo Shatt al-Arab presidiato dai carri armati e arriva a Bassora. Ad Aleppo, in Siria, è costretto a cambiare itinerario: sta per scoppiare la guerra del Kippur. Meglio evitare il Libano e tornare in Iraq, rientrando a Bergamo dal Kurdistan e dalla Turchia.

Due anni dopo è in Egitto e in Sudan. Nel maggio del 1976, con l’Ana (Associzione nazionale alpini) si fa le ossa come muratore costruendo un asilo nel Friuli colpito dal terremoto. E nell’estate del ’77 parte per il viaggio dei suoi sogni: Bergamo-Kashmir-Bergamo, 19 mila chilometri attraverso Jugoslavia, Bulgaria, Turchia, Iran, Afghanistan, Pakistan, India. Un sogno che s’infrange in modo drammatico sulla via del ritorno.

“Il buio, il sonno eterno, il crollo, la fine della mia esistenza”. Così Franco descrive quei cinque giorni di coma. In realtà non ricorda nulla. E’ successo nei pressi di Tureg, a 700 chilometri da Teheran. Si risveglia all’ospedale di Qazvi, intravede una flebo, alcune ombre, camici bianchi. Ha sette costole rotte, gli occhi neri e il volto gonfio come un pallone per gli ematomi. Lo ha trovato in un dirupo una pattuglia di soldati. Non è stato un incidente: la moto è in perfetto stato. Gli aggressori lo hanno sorpreso mentre si trovava nella tenda, ma non hanno rubato niente. “Un attacco a sfondo politico?” si chiede Franco. “In quei mesi il regime dello scià cominciava a vacillare sotto i colpi della rivoluzione islamica. C’erano scontri, retate della polizia, cadaveri nelle strade”.

Non è in grado di rimontare in sella. Regala l’amata Gilera ai militari e torna a casa in autostop: un iraniano che vive in Germania lo porta fino a Zagabria, da dove prosegue in treno. Rosetta e i figli sono affranti. Franco è sparito da oltre un mese e le linee telefoniche con l’Iran sono interrotte. Lo vedono barcollare nel giardino: è un morto che cammina.

Franco si riprende. Ma la sua vita cambia in modo radicale. E per capire come bisogna andare a trovarlo a Nyagwethe, un minuscolo villaggio di pescatori e di contadini sulle sponde del lago Vittoria, in Kenya.

Rosetta, da brava massaia, sta preparando una marmellata di limoni e si muove tra le pentole come se fosse nella sua villetta di Ponteranica. Ma non è proprio la stessa cosa. “Chiudi bene la porta” dice con noncuranza. “Qui è pieno di cobra. L’altr’anno ne abbiamo trovato uno nel bagno. E se vai al lago fai attenzione agli ippopotami: sono più pericolosi dei coccodrilli”.

Quando Franco arrivò a Nyagwethe, nel 1980, con una missione di scout di Gallarate di cui faceva parte la dottoressa Maria Bonino, uccisa il 7 aprile scorso in Angola dal virus di Marburg, non c’erano edifici in muratura. Per undici anni ha vissuto in una capanna col tetto di paglia. “Ero terrorizzata dai serpenti” racconta Rosetta. “Di notte non osavo muovermi neppure per andare a far pipì. E’ una testa dura, il Pini! Poi l’ho convinto a tirar su la casa. E tra anni fa ha ceduto anche sul telefono satellitare”.

Non c’era, allora, nemmeno la strada. “Arrivammo a piedi, aprendoci il sentiero a colpi di machete” racconta il Pini. “Quasi tutti i bambini erano ammalati: malaria, dissenteria, morbillo, tubercolosi, scabbia. Decisi all’istante che avrei costruito un dispensario. Sentivo che quello era il modo per dare un senso alla mia vita, per mettere a frutto tutte le esperienze accumulate in giro per il mondo”.

Torna in Italia, racimola un paio di milioni, compra secchi, badili, livella, medicinali. E riparte per Nyagwethe. Apre il cantiere e comincia a impastare il cemento. Da solo, con l’aiuto della gente del villaggio. E’ coì da 25 anni: sei mesi a Bergamo a raccogliere fondi, sei mesi a Nyagwethe a costruire. Senza mai mollare, neppure quando la malaria, nell’82, lo sta per ammazzare. D’accordo con la famiglia, va in pensione e investe i soldi della liquidazione nel progetto africano, che continua a crescere. Il piccolo dispensario diventa un’ospedale. E intanto si fa la strada e si gettano le fondamenta di una scuola elementare.

A Bergamo Franco frequenta un corso per infermieri e uno per odontotecnici. A Padova si specializza in malattie tropicali. Ma in realtà sa fare tutto: il muratore, l’idraulico, il carpentiere, l’elettricista, il meccanico, il contabile, il geometra. E poi il chirurgo (ha imparato ad amputare), il biologo (fa i test dell’aids), il ginecologo (fa nascere i bambini anche nei parti difficili, con il rivolgimento manuale nell’utero). Persino il prete: è stato autorizzato a somministrare ai malati che lo richiedono le ostie, consacrate dal parroco di una vicina missione.

Il suo incubo è la maledizione dell’acqua, il falgello di Nyagwethe. E’ l’acqua del lago a decimare la gente del villaggio: poveri pescatori Luo che si nutrono di omena, pesciolini seccati al sole, e di mbuta, il persico del Nilo. E allora il Pini testa dura scala le montagne, setaccia la foresta, finché trova la sorgente. E poi anche i soldi (13 milioni di lire) per comprare i tubi. E mette giù un acquedotto di 5 chilometri, con cisterne di raccolta, che porta acqua all’ospedale e alle capanne. “Un lavoro straodinario” dice Gervas Ikhan, direttore della scuola elementare che ospita 527 alunni e 11 maestri. “Il tifo e la bilharzia sono quasi del tutto scomparsi”.

Ma Franco non si ferma. Costruisce un asilo per 250 bambini, una scuola politecnica con annesso campo per sperimentare nuove colture, laboratori di sartoria e di falegnameria, una guest house per gli ospiti, una cooperativa d’acquisto, alloggi per il personale (60 dipendenti tra infermieri, insegnanti e impiegati), un ristorantino (Trattoria Ponteranica), un centro sociale, una chiesa (richiesta da cattolici, protestanti, musulmani e animisti) dedicata a San Francesco.

Oggi il Pini ha 73 anni. Carlo Azelio Ciampi lo ha nominato Commendatore della repubblica; l’Ana lo ha proclamato, in aprile, “alpino dell’anno”. E lui continua a impastare il cemento. Sta ampliando l’ospedale, sorveglia il cantiere della nuova mensa scolastica (500 coperti) e in riva al lago è quasi pronta una barca di 13 metri per il trasporto di merci e persone. “Così i miei ragazzi potranno vendere il pesce e la farina di mais nei mercati della costa” spiega. “Ma dovranno indossare i salvagenti che ho portato dall’Italia: su questo non transigo”.

La comunità di Nyagwethe è diventata un modello per tutto il Kenya. Visitandola, il ministro dei Trasporti Christopher Murungaru è rimasto di stucco. Ha immediatamente ordinato di allargare e consolidare la strada. E ha chiesto a Franco di costruire, con il contributo del governo di Nairobi, una scuola superiore. Le fondamenta, su un poggio arieggiato da cui si domina il lago Vittoria (“Così grande che sembra il mare”), saranno gettate nei prossimi giorni. Franco, in canotta e pantaloncini corti, è già al lavoro con i suoi manovali. Uomini e donne regolarmente pagati, che hanno imparato il mestiere e a essere responsabili fino all’autogestione. “Perché io” dice il Pini da Ponteranica “sono solo un bianco di passaggio”.