Niger Delta, Nigeria, March 2006

Giovanni Porzio – da Port Harcourt (30.03.06)

Di notte la città piomba nel buio. Le uniche luci nell’immensa distesa del delta del fiume Niger sono i bagliori rossastri delle fiaccole del gas nelle paludi di mangrovie e i fari che illuminano i compound fortificati delle compagnie petrolifere. Port Harcourt, la capitale africana del greggio, è priva di corrente elettrica. Un paradosso che alimenta il rancore della popolazione locale e inasprisce la rabbia delle bande armate che hanno dichiarato guerra alle multinazionali degli idrocarburi.

Nei mesi scorsi i miliziani hanno sabotato decine di oleodotti, attaccato le piattaforme off-shore, preso in ostaggio tecnici americani e canadesi, rapinato banche, ingaggiato sanguinosi scontri con la polizia e l’esercito. La Shell è stata costretta a evacuare 500 dipendenti e a sospendere le operazioni nel terminal di Forcados, con una perdita netta di oltre 200 mila barili al giorno. Nell’ultimo attentato, il 17 marzo, è saltata con la dinamite una pipeline della Naoc, la joint venture tra l’Agip e la società petrolifera nazionale. La guerriglia è già riuscita a bloccare il flusso di mezzo milione di barili al giorno, quasi il 20 per cento della produzione nigeriana. E minaccia di intensificare la lotta, fino alla chiusura di tutti gli impianti.

La Nigeria è l’ottavo produttore mondiale di petrolio e le sue riserve accertate sfiorano i 36 miliardi di barili: greggio leggero, apprezzato dalle raffinerie europee e americane per il basso tenore di zolfo e di residui, che costituisce il 95 per cento dell’export del paese e la principale fonte di entrate in valuta. Le riserve di gas naturale sono valutate in oltre 3.500 miliardi di metri cubi. In quarant’anni il colosso africano ha incamerato oltre 300 miliardi di dollari in royalties. Ma sono in gran parte finiti nei conti esteri di una nomenklatura politica unanimemente considerata la più corrotta del pianeta. Il 70 per cento dei 140 milioni di nigeriani sopravvive con meno di un dollaro al giorno. Negli stati del delta, che galleggiano su un oceano di oro nero, il numero degli indigenti al di sotto della linea della povertà è raddoppiato nell’ultimo ventennio. E il paese, a corto di industrie, è costretto a importare la benzina.

Haj Mohammed è uno dei capi del Mend, il Movimento per l’emancipazione del delta del Niger, il più recente tra i gruppi armati attivi nella regione. “Le multinazionali sfruttano il sottosuolo e inquinano l’ambiente” dice. “Ma il nostro obiettivo è il governo federale. Attacchiamo le compagnie petrolifere perché è il solo mezzo di cui disponiamo per sensibilizzare l’opinione pubblica internazionale e costringere il governo a investire almeno una parte dei profitti nello sviluppo del sud. Vogliamo il controllo delle nostre risorse e un’equa distribuzione della ricchezza”.

Scendiamo nei meandri tortuosi del delta a bordo di una veloce barca a motore dal fondo piatto, sotto un cielo grigio carico di pioggia. Sulle isole di mangrovie e sui fondali melmosi dei canali passano migliaia di chilometri di tubi. Sull’acqua, dove i pescatori lanciano le reti da piroghe scavate nei tronchi degli alberi, ristagnano chiazze oleose di petrolio. Chiatte, grandi petroliere e vecchie carrette del mare succhiano il greggio dai terminali costruiti accanto ai villaggi di palafitte. Gli “spills”, le fuoriuscite di petrolio, sono all’ordine del giorno: provocate dalla corrosione, dai sabotaggi, dai guasti alle attrezzature. E dalla diffusa pratica del “bunkering”, il sistematico furto e contrabbando di migliaia di tonnellate di greggio, organizzato dalle mafie dei trafficanti con la complicità della polizia e dei corrotti politici locali.

Dopo ogni attacco i ribelli si dissolvono in questo labirinto di canali e di lagune malariche di cui conoscono ogni anfratto, ogni recesso, ogni via di fuga. Sono armati di mitra, fucili a pompa, Kalashnikov, bazooka, lanciagranate e comunicano agevolmente con radio, cellulari e telefoni satellitari. L’esercito federale ha inviato nella zona contingenti di rinforzo, ma non sembra in grado di garantire la sicurezza degli impianti e il governo del presidente Olusegun Obasanjo ha chiesto una fornitura urgente di motovedette alla Cina, da tempo impegnata in un serrato confronto strategico con Washington per l’accesso alle fonti energetiche africane.

Okujagu è una comunità di 1.200 anime nel cuore del delta dove gli oyibo, i bianchi, non mettono piede. Gli uomini più robusti riempiono le canoe di sabbia e pagaiano fino al mercato di Port Harcourt per venderla ai cantieri edili. I bambini mangiano il cibo dei poveri, che qui sono le ostriche e le lumache di fiume. Le donne affumicano il pesce sui fusti vuoti del carburante: sgombri norvegesi scongelati, perché il pesce fresco è sempre più scarso. Quasi tutti i giovani sono via con le milizie. “Non abbiamo luce elettrica, né acqua corrente” spiega Princewill Bipialaka, 74 anni, il capo del villaggio. “Non abbiamo ospedale e non ci sono strade: chi si ammala deve andare in barca fino in città. Se ha i soldi per la benzina”.

Sull’isola vicina i tubi di una stazione di pompaggio costeggiano le catapecchie di lamiera e assi inchiodate. “Qui passano ogni giorno milioni di dollari di greggio” dice Jonah Fiberesime, acceso sostenitore della lotta armata. “E le nostre ragazze sono costrette a prostituirsi con gli equipaggi delle navi e nei bar in città. Quando i pozzi saranno esauriti qui non resterà niente. Dobbiamo agire subito: che cosa abbiamo da perdere?”

Il Bayelsa, farwest della Nigeria dove le bande armate scorrazzano alla luce del sole e i sabotaggi alle pipeline sono più frequenti, è uno staterello ritagliato tra gli acquitrini e le paludi. L’unica strada è costellata di check point dove la polizia preleva balzelli. I bianchi si spostano in elicottero o con la scorta armata. Sua altezza reale Simon Ibebi, “oba” di Aleibiri, è un uomo mite e anziano, ma si accalora: “Non c’è lavoro. Non ci sono attività industriali. Non ci sono trasporti pubblici né infrastrutture. Le scuole fanno schifo e gli insegnanti non sono pagati. Gli ambulatori non hanno medicine. L’agricoltura è stata abbandonata. Il governo, i militari e gli amministratori locali rubano a man bassa. Le terre degli Ijaw e degli Ogoni sono diventate un cimitero”.

Il miraggio del denaro facile e la speranza di un impiego hanno gonfiato a dismisura gli slum di Port Harcourt, città senza legge dove le strade si chiamano “Pipeline street” e “Agip road”. E dove anche Samuel Adetuyi, commissario capo della polizia del Rivers state, deve ammettere che “omicidi, rapine, furti e conflitti per la proprietà dei terreni sono in costante aumento”. Alla gente delle baraccopoli, cresciute a pochi passi dalle ville con piscina degli espatriati, dagli alberghi a cinque stelle e dagli alloggi difesi dal filo spinato dei funzionari delle multinazionali del petrolio, non resta che aggrapparsi ai deliri dei predicatori delle numerosissime chiese evangeliche, pentecostali, avventiste e apostoliche: ciarlatani che garantiscono, a pagamento, “felicità istantanea” e “miracoli last minute”.

Il disastro ecologico è esacerbato dalle emissioni di gas. Per decenni nell’atmosfera si sono riversati due milioni di metri cubi al giorno di fumi nocivi (metano, monossido e biossido di carbonio, fuliggine, acido solforoso), generati dalla combustione dei gas inutilizzati nei procedimenti estrattivi e responsabili delle piogge acide.

Il primo a protestare fu lo scrittore e attivista per i diritti umani Ken Saro Wiwa, arrestato e giustiziato con altri otto compagni di etnia ogoni il 10 novembre 1995: un’esecuzione che costò alla Nigeria l’imposizione di sanzioni economiche e l’espulsione dal Commonwealth. Nel 1999 la fine della dittatura militare e l’elezione di Obasanjo fecero sperare in una soluzione politica del conflitto. Le trattative non ebbero però alcun esito e nel 2004 gli Ijaw del delta imbracciarono il mitra contro le compagnie petrolifere mettendo a segno una serie di spettacolari attacchi e di sequestri di personale straniero. Il capo della rivolta, Mujahid Dokubo-Asari, leader della Forza popolare volontaria del delta del Niger, è stato arrestato lo scorso settembre ed è in attesa di processo per “tradimento” ad Abuja, la capitale federale.

I ribelli si sono subito riorganizzati: dietro le sigle del Mend, del Coma (Coalition for militant action) e delle Brigate dei martiri non si celano solo bande di criminali e rapinatori manipolati dalle mafie politiche ed economiche del delta. “I nuovi leader della rivolta” sostiene Annkio Briggs dell’organizzazione per i diritti umani Agape “sono giovani istruiti, laureati, con una strategia definita e precisi obiettivi. Vogliono riappropriarsi delle risorse del delta per fare uscire la popolazione da una condizione di intollerabile sottosviluppo”.

Le compagnie petrolifere (Shell, Agip, Elf, Mobil, Chevron, Texaco) hanno cercato di sopperire alla colpevole assenza dello stato federale investendo miliardi di dollari nella sicurezza e nello sviluppo sociale delle 291 comunità del delta. Ma è una sfida ad alto rischio e dai risultati incerti. Tanto che la Shell, primo produttore in Nigeria con oltre 1,3 milioni di barili al giorno, ha già messo in conto l’eventualità, niente affatto remota, di cessare le attività sul continente per limitarsi all’estrazione off-shore. “Con 300 pozzi nel delta” spiega Antonio Panza, general manager dell’Agip in Nigeria, “la nostra società è tra le più esposte sul territorio. Abbiamo finanziato centinaia di progetti nel settore agricolo, scolastico, energetico, sanitario. Ma non possiamo certo sostituirci al governo centrale e realizzare le infrastrutture di cui il paese ha bisogno”.

L’Eni, in Nigeria dal 1962, è oggi in prima linea con Agip (161 mila barili al giorno), Saipem (oleodotti e piattaforme) e importanti partecipazioni negli impianti di liquefazione del gas (isola di Bonny), il business del futuro. Negli anni Novanta la Nigeria bruciava il 75 per cento del gas associato al petrolio: il 12,5 per cento, secondo la Banca mondiale, del totale dei gas combusti sul pianeta. Uno spreco, e uno scandalo ecologico, cui il governo e le multinazionali stanno ponendo rimedio riducendo i quantitativi immessi nell’atmosfera. “La percentuale combusta è scesa in Nigeria al 45 per cento” spiega Antonino Fiore, responsabile dei progetti downstream dell’Eni, che ha realizzato a Okpai una centrale termoelettrica da 480 megawatt alimentata a gas. “E nei prossimi anni scenderà ancora”.

Basteranno questi palliativi per evitare che un conflitto a bassa intensità si trasformi in una guerra con devastanti conseguenze per le forniture energetiche dell’Occidente? La Nigeria, terra di sanguinosi scontri endemici tra cristiani e musulmani, rischia oggi di implodere per il petrolio? John Negroponte, capo dell’intelligence americana, afferma che la posta in gioco è più elevata che in Iraq. E lascia intendere che la Casa Bianca e il Pentagono non starebbero a guardare.