Nepal’s Maoists, 2002

Giovanni Porzio – da Rolpa

La strada, una mulattiera sulla quale anche la jeep fatica ad avanzare, finisce a Livang, bazaar e avamposto militare alla confluenza di due valli nel remoto distretto di Rolpa: un buco circondato dal filo spinato in cui si aggirano poliziotti ubriachi di roksi, l’acquavite di mais, spie del governo e gruppi di sfollati. E che alle 18, quando scatta il coprifuoco, piomba nel buio e in un silenzio teso, interrotto dai latrati dei cani e dai rauchi colpi di tosse dei bambini tubercolotici. I mille effettivi delle forze di sicurezza si rintanano in caserma, le pattuglie di guardia sbarrano gli ingressi del paese e le sentinelle piazzano le mitragliatrici sulle altane fortificate e sui tetti delle case. Il nemico invisibile colpisce di notte. Poi svanisce nell’impenetrabile territorio montuoso che da Livang sale fino alle vette dell’Himalaya.

Guidati da Pushpa Kamal Dahal “Prachanda” (Furioso), e dal dottor Baburam Bhattarai, due intellettuali della casta dei brahmini, i maobadi (guerriglieri maoisti) hanno lanciato nel ’96 la lotta armata per rovesciare la monarchia e instaurare un regime comunista. Dispongono di oltre 15 mila uomini (il capo militare è un certo Ram Bahadur Thapa, detto “Baadal”, Nuvola), sono attivi in 73 dei 75 distretti del Paese e nelle zone liberate hanno formato amministrazioni provvisorie che impongono tasse rivoluzionarie e dispensano la giustizia popolare.

Il bilancio di sette anni di combattimenti, attentati, massacri, sabotaggi e “operazioni coperte” condotte dai reparti d’assalto dell’esercito (50 mila soldati) è devastante: più di 7 mila vittime (in maggioranza civili inermi), sistematiche violazioni dei diritti umani, arresti arbitrari, esecuzioni sommarie, stato di emergenza, spopolamento delle campagne, distruzione di ponti e centrali elettriche, tracollo dell’economia e del turismo (unica fonte di valuta pregiata), scuole paralizzate dallo sciopero a tempo indeterminato proclamato dall'associazione degli studenti maoisti.

Re Gyanendra Bir Bikram Shah, succeduto lo scorso anno al fratello Birendra, assassinato con la moglie e altri otto membri della famiglia reale dal principe ereditario Dipendra, che si è poi suicidato (è la versione ufficiale; ma molti nepalesi pensano a una fosca congiura di palazzo), ha sciolto il parlamento, rinviato sine die le elezioni, nominato un esecutivo di sua fiducia e dato mano libera alle forze armate, che contano sui 20 milioni di dollari di aiuti promessi dagli Stati Uniti. Una soluzione militare del conflitto è però improbabile. Il massacro è destinato a continuare. Nelle zone rurali ormai disertate anche dalle agenzie dell’Onu e dalle organizzazioni umanitarie il consenso agli insorti è in costante crescita, alimentato dalla miseria e dalla disoccupazione. Nei villaggi annichiliti dalla paura e dal sospetto l’unica presenza dello stato è quella, sporadica e brutale, delle forze armate.

Nella tetra prigione locale languono in attesa di giudizio 42 detenuti accusati di attività sovversive. Manjit Ghanti ha 27 anni: è dentro da 7. “Qui non ci sono giudici” dice. “Non c’è nemmeno il tribunale”. Sarashoti Shah, 21 anni, sta allattando il figlio di 11 mesi: “Mio marito” dice “è stato ammazzato dai soldati”. C’è chi ha venduto la casa e il pezzo di terra per pagarsi un legale, senza risultato. “E’ dall’inizio della guerra che a Livang non si fanno processi” conferma l’avvocato Prem Prakash. “Siamo diventati un Paese senza legge”.

Mentre all’alba supero l’ultimo check point per inoltrarmi nel territorio dei maobadi ripenso a una frase del colonnello Dipak Grun, incontrato al Circolo ufficiali di Kathmandu: “Non ci servono altri uomini e altri mezzi. Quello che ci manca è l’intelligence”. Non potrebbe essere altrimenti. La gente, presa tra due fuochi, non parla. I militari escono dai loro avamposti solo per effettuare rastrellamenti e incursioni-lampo, senza fare troppa distinzione tra miliziani comunisti, sospetti fiancheggiatori e semplici contadini. Violenze, stupri, rappresaglie sono documentate nei rapporti di Amnesty International e di Human Rights Watch.

I ribelli, giovanissimi e molto spesso analfabeti, sono altrettanto feroci. Assaltano banche (“autofinanziamento”), attaccano autobus e stazioni di polizia, saccheggiano le caserme per procurarsi le armi, distruggono le statue di Shiva e gli stupa buddhisti (“vecchie superstizioni”), tagliano le linee telefoniche e i cavi elettrici, giustiziano i “traditori”. Nelle campagne come nella capitale costringono commercianti, latifondisti, piccoli imprenditori a versare un’obolo per l’esercito del popolo: un ricatto al quale non può sottrarsi neppure la direzione del lussuoso Hotel e casinò Soaltee, di proprietà del sovrano. Chi sgarra paga con la vita.

Questa strategia del terrore, mutuata dall’esperienza del peruviano Sendero luminoso più che dai precetti di Lenin e dal Mao Zedong-pensiero, ha una finalità precisa: provocare il caos sociale e la bancarotta dello stato, spingere le classi medie alla rivolta, indurre il governo a negoziare da una posizione di debolezza.

Il sentiero sale ripido tra i pendii terrazzati a riso e cereali delle colline, diramandosi in un labirinto di percorsi secondari verso vallate coperte di vegetazione subtropicale e alpeggi battuti dal vento, oltre i quali s’intravedono i ghiacciai del Dhaulagiri. Nel distretto di Rolpa, culla e roccaforte dell’ultima guerriglia maoista, le strade non sono mai esistite e nessuno si è mai preoccupato di fare arrivare i fili della luce. Tranne i centri urbani e la pianura meridionale al confine con l’India, tutto il Paese versa in simili condizioni. Gli impervi e sdrucciolevoli sentieri di montagna sono le uniche vie di comunicazione, di commercio e di fuga per migliaia di villaggi e per milioni di nepalesi. I ponti sospesi, indispensabili per attraversare i fiumi che scendono impetuosi dall’Himalaya, sono le uniche infrastrutture risparmiate dal conflitto: consentono di guadagnare giorni di marcia, all’esercito come alla guerriglia.

Mi imbatto in lunghe file di portatori: donne, vecchi, bambini piegati sotto il peso delle gerle cariche di riso, zucchero, olio per le lampade, farina. Camminano scalzi: i sandali di plastica sono un lusso. Gli uomini se ne sono andati, con la guerriglia o a cercar lavoro in India e nei Paesi del Golfo. A Jankot, un agglomerato informe di casupole di fango a quota 1.700, molte abitazioni sono vuote. Sono i ragazzini di 8, 10, 12 anni a lavorare i campi, a raccogliere la legna e lo sterco, a trasportare l’acqua dal torrente, mentre le loro madri tritano il miglio nelle macine di pietra, accendono il fuoco e preparano il chang, la birra di cereali. Sui muri della scuola gli slogan dei maobadi: “Viva la lotta armata del popolo!”, “Lunga vita al movimento maoista!”.

Kim Bahadur, il maestro, tiene a bada 170 bambini vestiti di stracci. “Non c’è cibo a sufficienza” spiega. “Il governo non ci permette di fare provviste a Livang perché teme che finiscano agli insorti. Gli elicotteri dell’esercito, decrepiti MI-8 sovietici, sorvolano la zona. Un insegnante è stato arrestato dai maobadi perché aveva indetto una riunione senza il loro permesso. Da un mese non abbiamo sue notizie. Dopo il tramonto non usiamo neppure le candele: i militari e i ribelli sparano a vista”. La radio diffonde bollettini di guerra: “Sedici terroristi abbattuti a Lahan”, “Tre poliziotti assassinati a Dang”. Le famiglie più agiate cremano i cadaveri a Pashupatinath, sulle sponde del sacro Baghmati.

Il giorno successivo ci informano che è in corso un’operazione delle forze di sicurezza a fondovalle e che i guerriglieri si sono spostati in un altro settore. Per avvicinarli sono necessari altri tre o quattro giorni di marcia nelle zone più interne del distretto orientale, verso Pobang. Si cammina anche di notte, col favore della luna, guadando fiumi e risalendo sui crinali, dormendo nei fienili abbandonati, mangiando patate dolci e bevendo latte di bufala. La mia guida è un magar, l’etnia del posto, e conosce ogni anfratto del monte Jaljala.

Il primo contatto non è incoraggiante. Veniamo intercettati da due ragazzi armati e in tuta mimetica che ci intimano di seguirli in un vicino casolare. Guardano con sospetto i miei pantaloni blu, identici a quelli dei poliziotti, e mi perquisiscono. “Siete nel territorio del Janamukti Sena (Esercito popolare di liberazione, ndr)” dicono in tono brusco. “E non avete un lasciapassare”. Dopo un lungo interrogatorio e interminabili discussioni in nepalese con la guida accettano infine di inviare al loro comandante una staffetta con la nostra richiesta di un abboccamento. Non resta che aspettare, sotto stretta sorveglianza.

Un’altra gelida notte di attesa, con la tosse incessante dei bambini. Non ci sono farmaci, non ci sono medici, non ci sono ambulatori. Maghi e stregoni si danno da fare con erbe, radici e amuleti. Ma nessuno è vaccinato e l’elenco delle malattie è deprimente: tubercolosi, poliomielite, tetano, morbillo, scabbia, rachitismo, denutrizione, verminosi, infezioni virali, intestinali, polmonari. La mancanza di igiene e di acqua potabile concorre a un'altissima mortalità infantile e neonatale.

Il comandante di zona si presenta di buon mattino, accompagnato da un reparto di miliziani con il volto coperto che imbracciano gli antiquati fucili britannici 303 in dotazione alla polizia nepalese e carabine ad avancarica fabbricate in casa. Si fa chiamare “Iman” e si definisce “un membro attivo del movimento rivoluzionario”. “L’esercito brucia le case e uccide i contadini” esordisce. “In questa valle 30 persone sono state arrestate e solo due sono tornate. Hanno ammazzato anche un bambino di tre anni. Ma la repressione gioca in nostro favore: i giovani capiscono che non c’è alternativa alla lotta armata”. Che cosa chiedete? “Diritti basilari: riforma agraria, istruzione, alloggi decenti, assistenza sanitaria, pari opportunità, abolizione delle caste. Vogliamo una società senza classi, una vera democrazia”.

Ma il comunismo non ha fallito ovunque? “In Urss, in Cina, a Cuba e in Corea del nord i revisionisti hanno commesso gravi errori. Noi faremo meglio: costruiremo un vero comunismo, basato sul maoismo e sulle teorie scientifiche di Marx e Lenin”. Ricevete aiuti dall’estero? “Si. Non solo armi, ma soprattutto un sostegno politico da gruppi rivoluzionari in India, Turchia, Sri Lanka, Bangla Desh”. Come fate a sopravvivere alla macchia? “Il popolo ci nutre. Armi e munizioni le prendiamo al nemico. Abbiamo cominciato con bastoni e coltelli. E abbiamo imparato a fabbricarci i fucili”. Come è strutturato il movimento? “E’ diviso in tre settori: partito, esercito, organizzazioni di base. Il compagno Parchanda è il capo politico e militare”. Perché distruggete le infrastrutture? “Sono obiettivi militari, presidiati dalle forze di sicurezza. E servono solo ai ricchi: i contadini non usano il telefono e la luce elettrica”. Perché attaccate agenzie umanitarie come SOS Kinderdorf? Perché incendiate gli autobus? “Chiunque si oppone alla lotta armata è un nemico del popolo. E i poveri vanno a piedi”.

Fine dell’intervista. “A noi non piace la guerra” conclude Iman, come per scusarsi. “Desideriamo la pace. Ma dobbiamo abbattere questo sistema monarchico, corrotto e feudale che mantiene il popolo nella miseria e nell’ignoranza”. La sera i maobadi ci scortano sull’altro fianco della montagna oltre il fiume Lunri, che – si narra – è gonfio di pagliuzze d’oro. Su un poggio terrazzato, tra greggi di capre e falò di stoppie, alcune centinaia di contadini assistono estasiati a una “rappresentazione di massa”: una versione riveduta del Distaccamento femminile rosso, lo spettacolo teatrale simbolo della Rivoluzione culturale cinese. Musiche, danze, canti e discorsi di propaganda, arti marziali. Niente alcol e niente hashish: nelle zone liberate sono vietati. La gente applaude, anche se non sembra capire: l’ideologia maoista è totalmente estranea alla società nepalese, ma promette ai diseredati ‘affrancamento da un ingiusto karma.

Kashi, 16 anni, ha lasciato la scuola un anno fa per unirsi ai ribelli. Ti hanno arruolato a forza? “Imparavo solo cose inutili” dice. “Qui invece combatto per la dignità del mio popolo”. Può darsi. Ma scendendo a valle incontriamo famiglie intere di sfollati in marcia. Muti, a testa bassa, i volti come pietre scavate, i piccoli che sonnecchiano nelle gerle tra le pentole e i fagotti. Emigranti che si lasciano alle spalle i killing fields dell’Himalaya sognando di pulire i cessi di Mumbay o di pedalare su un rickshaw di Delhi.

Dal posto di frontiera di Nepalganj, la scorsa settimana, sono passati in 8 mila, dopo aver pagato il pizzo ai doganieri e ai procacciatori di manodopera. I più disperati vendono le figlie: 12 mila ragazzine finiscono ogni anno nei bordelli indiani. Il loro futuro si perde nelle nebbiose pianure del Gange.