Mogadishu, Somalia, January 2007

Giovanni Porzio – da Mogadiscio (16.01.07)

Coprifuoco, stato di emergenza, legge marziale. Le drastiche misure adottate dal governo di transizione insediato dai carri armati di Addis Abeba non sono di buon auspicio: dopo sei mesi di pace talibana imposta dalle Corti islamiche, nella torturata capitale somala è tornata la paura. Al tramonto Mogadiscio sprofonda nel buio e il silenzio è interrotto solo dalle raffiche dei fucili automatici: nessuno osa avventurarsi nelle strade pattugliate dai militari etiopi che presidiano il porto, l’aeroporto, le principali vie di comunicazione e rastrellano i quartieri in cerca di sospetti terroristi. Gli uomini d’affari hanno ricominciato a spostarsi con la scorta, mentre i signori della guerra cacciati in giugno dagli “shebab” dei tribunali religiosi fanno incetta di munizioni al mercato di Bakhara: in una città di due milioni di abitanti dove tutti i maschi in grado di camminare maneggiano un Kalashnikov, le armi hanno ripreso a sparare.

La sera di domenica 14 gennaio il cielo si è improvvisamente illuminato di traccianti: un convoglio etiope è caduto in un’imboscata nei pressi del famigerato check point Pasta e per oltre un’ora è infuriata una battaglia a colpi di Rpg e di mitragliatrici pesanti, con un bilancio di numerosi morti e decine di feriti. Si è trattato di uno scontro isolato con le milizie di un warlord o della prima operazione di resistenza contro le truppe di occupazione preconizzata in un recente video da Ayman al-Zawahiri, il numero due di al-Qaeda?

L’offensiva della task force del Pentagono di stanza a Gibuti contro le basi e i campi di addestramento degli integralisti musulmani nel sud del paese ha un duplice obiettivo: rafforzare il governo di transizione e frustrare le velleità di rivincita della corrente più estremista delle Corti islamiche, sventando sul nascere la minaccia di una guerriglia di tipo iracheno; catturare, vivi o morti, tre dei più pericolosi terroristi ricercati dall’Fbi. Ma il primo intervento della Casa Bianca in Somalia dopo il fallimento della missione Restore Hope e la tragedia di “Black Hawk Down” (l’abbattimento il 3 ottobre 1993 di due elicotteri Black Hawk e il massacro di 18 soldati americani) potrebbe rivelarsi, oltre che tardivo, suscettibile di aprire un nuovo fronte nella sfida planetaria lanciata dai jihadisti all’Occidente con la strage dell’11 settembre.

Il blocco navale, la presenza della portaerei Eisenhower, la chiusura della frontiera kenyota, i bombardamenti aerei e la ricognizione satellitare non hanno impedito ai tre terroristi braccati dalle forze speciali di eclissarsi nella sterminata savana a nord di Ras Chiamboni. Il comoriano Abdullah Fazul, su cui pende una taglia di 5 milioni di dollari, ricercato per gli attentati del 1998 contro le ambasciate americane a Nairobi e Dar es-Salaam e per l’attacco all’USS Cole del 2000 nel porto di Aden, il sudanese Abu Taha al-Sudani, luogotenente di Bin Laden nel Corno d’Africa, e il kenyota Ali Saleh Nabhan, responsabile dell’attentato del 2002 all’Hotel Paradise di Mombasa, restano sulla lista dei “most wanted”. Mentre a Mogadiscio sono in pochi a scommettere sulla tenuta di un governo di cui fanno parte alcuni dei più temuti signori della guerra somali ed è potuto entrare nella capitale dopo oltre due anni di peregrinazioni da una città di provincia all’altra solo grazie al sostegno militare ed economico dell’Etiopia e degli Stati Uniti.

“L’esercito etiope deve ritirarsi al più presto e far posto alla forza di pace prevista dalle risoluzione 1725 del Consiglio di sicurezza dell’Onu” avverte l’ex presidente Ali Mahdi Mohamed. “Altrimenti sarà inevitabile un altro bagno di sangue”. I militari di Addis Abeba, contro i quali i somali hanno combattuto due cruente guerre ai tempi di Siad Barre, sono odiati dalla popolazione. E un crescente risentimento si avverte anche nei confronti dei miliziani di etnia Darod fedeli al presidente Abdullahi Yusuf, l’uomo “venuto dal nord”, dal lontano Puntland, che decretando la legge marziale ha di fatto assunto i pieni poteri. Yusuf, d’altra parte, non ha alternative: la priorità assoluta è mantenere l’ordine e garantire la sicurezza che le Corti islamiche erano riuscite a imporre dopo 15 anni di scontri fratricidi tra le fazioni. Alcuni warlords hanno promesso di smantellare le loro milizie, ma si rifiutano di consegnare le armi fintanto che gli etiopi resteranno in Somalia.

“La legge coranica non faceva distinzioni di etnia” dice Hersi Osman, uno shebab ricoverato all’ospedale Benadir con un proiettile conficcato nel femore. “Questo governo fantoccio manovrato dagli americani non ha alcuna credibilità: è arrivato con le truppe straniere e se ne andrà con loro”. Il nuovo regime, per sopravvivere, deve rapidamente guadagnarsi la fiducia della comunità internazionale e, soprattutto, quella dei somali: gli anziani delle tribù, i capi dei principali clan e sottoclan in cui è divisa la società tradizionale, gli imam delle moschee, i leader islamici moderati, i businessmen che avevano sostenuto le Corti e la gente comune che teme di ripiombare nell’anarchia e nella guerra civile. La presenza nel governo di Hussein Aidid, vice premier, ministro dell’Interno e figlio del defunto generale Mohamed Farah Aidid, assicura per il momento al presidente Yusuf l’appoggio del potente clan degli Hawiyah, maggioritario nella capitale. Ma gli accordi politici, in Somalia, sono più aleatori del prezzo di un Kalashnikov: sceso a 150 dollari la scorsa estate, è oggi più che raddoppiato.

Mogadiscio è una città fantasma. Uno scheletro di case sventrate e di macerie, di container trasformati in abitazioni e di fetidi tuguri di plastica e stracci dove gli sfollati muoiono di colera, di tubercolosi, di malaria. Tutto è stato distrutto: ospedali, ministeri, ambasciate, caserme, negozi, musei, archivi. I predoni si sono avventati sui fili della luce, i cavi del telefono, le fognature, le tubature dell’acqua. Gli unici edifici risparmiati o ricostruiti sono gli uffici degli uomini d’affari, le ville dei warlords e le moschee: sul cadavere della metropoli, sopra i tetti di lamiera verde delle scuole coraniche, svettano decine di minareti.

Il regime islamico, nonostante la rigida applicazione della sharia, mal sopportata dalla maggioranza moderatamente religiosa dei somali, aveva liberato il paese dalla tirannia dei signori della guerra. Le loro “tecniche”, i veicoli con cannoni e mitragliatrici che seminavano il terrore nei quartieri della capitale, si erano volatilizzate. Dopo anni di guerriglia urbana, di saccheggi e di rapine gli sceicchi avevano riorganizzato una parvenza di amministrazione pubblica e giudiziaria, garantendo un accettabile livello di sicurezza. Porto e aeroporto erano tornati a funzionare. Gli imprenditori della diaspora cominciavano a rientrare, investendo in alberghi, ristoranti, cliniche private, linee aeree, telecomunicazioni. “Le Corti avevano chiuso i cinema, proibito l’alcol e il qat, la droga nazionale; ai ladri tagliavano le mani e i rapinatori erano condannati a morte. Ma non è così anche in Arabia Saudita? Per sei mesi noi abbiamo vissuto come in paradiso” sostiene Ahmed Galal, che gestisce una rivendita di telefoni cellulari. “Ora chi potrà impedirci di precipitare all’inferno?”

La deriva fondamentalista dei tribunali religiosi è stata rapida e in parte alimentata dall’aperta ostilità di Washington, che in Somalia vedeva profilarsi un regime talibano con probabili legami con la rete di Bin Laden. All’interno delle Corti, presiedute dal moderato Sheikh Sharif Ahmed, hanno finito per prevalere le componenti salafite più radicali: anziani predicatori come lo sceicco Hassan Dahir Aweys, ex comandante dell’ala militare del partito integralista al-Ittihad, inseguito da un mandato di cattura dell’Fbi per attività terroristiche; e jihadisti come Hassan Turki e Aden Hashi Ayro, che aveva installato la sua base operativa nell’ex cimitero italiano di Mogadiscio dopo aver gettato le salme riesumate in una discarica di rifiuti.

Gli shebab con la kefiyah rossa sono oggi in fuga. Ma se anche il quattordicesimo tentativo di costituire un governo legittimo in Somalia dovesse fallire, tutti a Mogadiscio invocherebbero il loro ritorno.

 

Giovanni Porzio – da Mogadiscio

Buio assoluto. Di notte Mogadiscio è una città morta dove echeggiano gli spari e i latrati dei cani. Dieci anni di guerra civile e di anarchia hanno ridotto la capitale somala a un ammasso di macerie popolate di profughi affamati, rapinatori, killer a pagamento. Gran parte dell’ex colonia italiana è un territorio senza legge, in ostaggio alle bande di predoni, ai contrabbandieri, ai trafficanti di armi e di droga: uno “spazio bianco sulle carte”, come all’epoca dei primi colonizzatori. Di giorno è impossibile muoversi senza una scorta tra le devastazioni di questa Dresda africana dimenticata dal mondo: facciate pericolanti dietro cui c’è il vuoto, mozziconi di minareti e di campanili, muri sventrati dalle cannonate, carcasse di auto e di mezzi blindati, palazzi sbriciolati, livellati al suolo. Nei quartieri abbandonati del vecchio centro, dai mucchi di rottami e di spazzatura, emergono come reperti archeologici le vestigia di un passato che appare sempre più lontano: l’obelisco, i ruderi crivellati di proiettili della Cattedrale e della Banca centrale, le rovine di Casa Italia, l’arco trionfale dedicato “a Umberto di Savoia, romanamente”.

Tutto è distrutto e saccheggiato: case, scuole, ospedali, ministeri, uffici postali, musei, archivi. I ladri si sono avventati sui fili della luce, i cavi del telefono, le fognature, le tubature dell’acqua, che viene ora distribuita dai carretti tirati dagli asini. Gli sfollati continuano a morire di tifo e di colera nei loro tuguri di stracci e di lamiere arrugginite. E i container trafugati al porto servono da botteghe e rivendite di qat, la pianta euforizzante che ogni giorno, alle dieci del mattino, arriva puntuale dal Kenya negli aeroporti controllati dai signori della guerra.

Eppure, qualche flebile segno di speranza s’intravede anche a Mogadiscio. Da alcuni mesi esiste un governo di transizione e c’è un presidente, Abdiqassim Salad Hassan, che cerca di riorganizzare una parvenza di amministrazione. “E’ un’impresa titanica” dice a Panorama nel suo studio provvisorio, una palazzina bianca nel settore meridionale della città, difesa da un esercito di uomini armati e di “tecniche”, le jeep equipaggiate con mitragliatrici pesanti e cannoni da 106 millimetri. “Dobbiamo costruire uno stato partendo da zero. E abbiamo molti nemici: i warlord fanno di tutto per sabotare i nostri sforzi”. L’attacco contro la sede di Medici senza frontiere lo scorso 27 marzo (14 morti tra i guardiani somali) e il rapimento di due funzionari dell’Onu, Roger Carter e Billie Condie (rilasciati il 4 aprile), aveva appunto lo scopo di dimostrare che il nuovo governo non è in grado di garantire la sicurezza nella capitale. Tutti gli stranieri sono stati evacuati e anche Msf, che aveva in cura decine di bambini ammalati di colera, è stata costretta a lasciare Mogadiscio.

Abdiqassim, un hawiya del clan habr-gedir, ex ministro degli Interni di Siad Barre, è stato designato dai 245 membri di un parlamento scaturito da 5 mesi di trattative tra i duemila delegati intervenuti lo scorso anno alla conferenza di Djibuti, sostenuta anche dall’Italia, che per la prima volta ha ignorato i signori della guerra, puntando sulla partecipazione dei rappresentanti della società civile: gli anziani, le donne, gli intellettuali, i capi tradizionali. Da ottobre, quando il governo si è insediato, qualcosa è stato fatto. “Abbiamo rimosso l’immondizia dalle principali arterie cittadine” spiega il primo ministro Ali Khalif Galaydh, responsabile dell’Industria durante il vecchio regime, esperto economista e uomo d’affari con solidi contatti negli Stati Uniti e nel mondo arabo. “Abbiamo costituito un corpo di polizia che presidia le 14 stazioni della capitale e pattuglia le strade. Abbiamo rimosso i posti di blocco e cacciato le milizie dal porto e dall’aeroporto. La linea verde che divideva Mogadiscio non esiste più. La popolazione è con noi: non ne può più di guerre e di massacri. Ma i nostri mezzi sono limitati e le aspettative della gente molto elevate”.

I poliziotti, ex miliziani dei warlord e delle Corti islamiche che hanno indossato le divise verde oliva dell’esercito yemenita, controllano però solo i settori meridionali della città. Porto e aeroporto sono sempre nel mirino dei mortai delle fazioni in lotta. E i signori della guerra, benché indeboliti e screditati, continuano a rappresentare una seria minaccia e a spadroneggiare nelle loro enclave: Hussein Aidid nella zona di Villa Somalia, Osman Ato e Mussa Sudi (l’ex camionista analfabeta che ha rapito i due funzionari Onu) nei quartieri di Medina e di Karan. Si finanziano con il traffico di droga, con le tasse ai commercianti e i pedaggi imposti agli autisti che trasportano merci verso Balad e Giohar. Nei giorni scorsi si sono incontrati in Etiopia e hanno annunciato la formazione di un governo alternativo: Addis Abeba avrebbe fornito ai warlord ingenti quantitativi di munizioni e di mine antiuomo.

“Ci aspettiamo ulteriori tentativi di destabilizzazione” afferma il presidente Abdiqassim. “Con l’Etiopia vorremmo cooperare pacificamente: i nostri porti sono lo sbocco naturale per i prodotti del Corno d’Africa. Ma Addis Abeba non vuole una Somalia unita, integrata a pieno titolo nella comunità internazionale. Foraggia i gruppi armati, occupa le zone di frontiera e considera il nord della Somalia una provincia etiopica”. Somaliland e Puntland sono di fatto regioni indipendenti e la loro relativa sicurezza ha favorito lo sviluppo di numerosi progetti di assistenza e di cooperazione economica e commerciale: sono pertanto indifferenti, se non ostili, alle proposte federative avanzate da Mogadiscio.

Di fronte a questi ostacoli, l’obiettivo della ricostruzione di uno stato unitario – attivamente perseguito dalle Nazioni Unite e dall’Italia – sembra per il momento irrealistico. L’idea stessa di nazione come entità al di sopra dei clan è del resto un concetto estraneo alla cultura somala. L’esempio del Somaliland, al contrario, è già stato seguito dalle tribù digil e rahanweyn, che hanno dato vita a un’amministrazione autonoma nelle province di Bay e Bakol. Il governo di transizione, inoltre, è criticato da molti settori della società civile per la sua composizione: 75 tra ministri e sottosegretari (e una sola donna ministro) scelti sulla base di un manuale Cencelli alla somala, in modo da accontentare tutti i clan e i sottoclan del paese. Il presidente è un habr-gedir, il premier un darod, il ministro degli Interni un abgal, quello degli Esteri un issak, la Difesa è affidata al sultano di Bosaso, Abdullahi Mussa Bogor “King Kong”, che è un migiurtino, e così via.

“Abbiamo l’appoggio dell’Onu, dell’Oua e della Lega araba” risponde Abdiqassim Salad. “Ci serve tempo per cambiare la mentalità della gente, abituata a ragionare con i mitra. E ci servono capitali per la ricostruzione. La Somalia ha un grande potenziale agricolo, 65 milioni di capi d’allevamento, 3.300 chilometri di coste pescose, minerali e petrolio: con l’Elf abbiamo siglato un accordo preliminare per le esplorazioni off shore. Ma gli unici aiuti concreti li riceviamo dai commercianti somali e dall’Arabia Saudita. Peccato: speravamo che l’Italia diventasse il nostro principale interlocutore politico ed economico”.

Nel vuoto di potere, intanto, fioriscono gli affari, legali e illegali. Non ci sono controlli, non si pagano tasse: la Somalia è il regno del capitalismo allo stato puro. I trafficanti acquistano merci franco dogana negli Emirati arabi e le riesportano clandestinamente in Kenya e in Etiopia. Se manca la valuta, si importano banconote false stampate in Indonesia: con l’ultimo cargo sono arrivati 120 miliardi di scellini. I businessmen gestiscono 5 compagnie aeree, 2 fabbriche di pasta, 45 cliniche private, 55 fornitori di energia elettrica, 3 società telefoniche con tariffe stracciate e linee fisse e mobili specializzate nel money wiring, che consente di trasferire denaro all’estero in meno di 24 ore. Una rete radiotelevisiva indipendente, HornAfrik, trasmette notiziari, talk show e programmi educativi su sei canali in diverse lingue: ha appena lanciato il suo sito internet, hornafrik.com.

Gli ospedali sono chiusi, il 90 per cento dei bambini è affetto da bilharzia, malaria, tubercolosi, malnutrizione. Si muore per il morbillo o per una dissenteria. Ora anche per l’aids. Ma al mercato di Mogadiscio, capitale di un paese che non esiste, le pallottole dei Kalashnikov continuano a costare meno degli antibiotici.