Migrants, Malta, May 2009

Giovanni Porzio – da La Valletta (12.05.09)

Il segnale che la tempesta era in arrivo l’aveva dato il Pinar, il mercantile turco con a bordo 140 migranti che in aprile era rimasto per quattro giorni al largo di Lampedusa in balia del conflitto di competenza tra Roma e La Valletta sullo sbarco dei clandestini. Poi, a gettare benzina sul fuoco con una bordata contro i rimpatri forzati decisi dal governo italiano ha provveduto di persona, il 6 maggio, il premier maltese Lawrence Gonzi, “disgustato” dall’intransigenza del Viminale nei confronti dei profughi avvistati su tre carrette del mare e rispediti in Libia.

E non è finita. Ricuciti in tutta fretta con attestazioni di eterna amicizia e promesse di reciproca collaborazione, i rapporti diplomatici tra i due paesi sono ora sottoposti a un ennesimo stress test. Lunedì la fregata Spica della Marina italiana, con a bordo 69 migranti, si è vista rifiutare l’autorizzazione ad attraccare alla Valletta e ha dovuto ripiegare su Porto Empedocle: i clandestini, sostengono le autorità maltesi, si trovavano su un’unità militare e dunque già in territorio italiano. La replica è arrivata a ruota dal ministro degli Esteri Franco Frattini: un dossier di Medici senza frontiere sulle “condizioni inumane” nei centri di detenzione degli extracomunitari a Malta. Dove Panorama è andato a guardare.

“Benvenuto nel gulag” sogghigna Robert Amusi, approdato un anno fa a Safi, l’ex caserma dell’esercito britannico che ospita uno dei tre campi di detenzione dell’isola. “Qui siamo in 860, tutti africani partiti dalla Libia e diretti in Italia. Siamo finiti a Malta per sbaglio: abbiamo chiesto l’asilo politico ma ci è stato negato”. In Ghana Robert faceva il meccanico. Ha attraversato in camion il Burkina Faso, il Niger, il deserto libico. A Misurata ha consegnato mille dollari a uno scafista. Ma gli è andata male. “Sognavo un lavoro in Europa, mi sono svegliato in prigione e senza un soldo”.

Stessa sorte per Efe Osarobe, 26 anni, nigeriano di Benin City. Dice che al suo paese è perseguitato per motivi politici: ha denunciato i brogli elettorali e lo vogliono far fuori. “Siamo rimasti sei giorni in mare. Tre di noi sono morti. C’era burrasca e la barca, stracarica, si è rovesciata in piena notte”. La prospettiva di essere rimandato in Libia lo atterrisce: “Piuttosto mi uccido. Ci trattano come bestie, soprattutto noi che siamo cristiani”. Alcuni dei suoi compagni si tolgono la camicia: mostrano le cicatrici e i segni delle frustate.

Di fronte all’edificio, in un’area abbandonata, c’è il cimitero delle imbarcazioni sequestrate. Dozzine di gusci in vetroresina sfondati, costruiti in Libia. I motori Yamaha da 40 cavalli, venduti dall’Egitto alla Marina di Gheddafi e misteriosamente finiti in mano ai trafficanti, sono stati messi all’asta.

Il “Blocco C” del campo, riservato ai clandestini più irrequieti, è una gabbia circondata da inferriate alte più di cinque metri, reticolati e matasse di filo spinato. Il secondino che toglie il lucchetto alle celle si raccomanda di fare attenzione: ci sono state rivolte, aggressioni. Materassi e coperte bruciate. Dentro è quasi buio: la luce filtra appena dai vetri rotti delle feritoie. Nella penombra si distinguono prima gli occhi, poi i volti e infine i corpi dei detenuti raggomitolati nelle brande. L’aria è greve di sudore, puzzo di urina e immondizia, cibi speziati cucinati su fornelli da campeggio. Ci sono somali, sudanesi, eritrei, nigeriani. Tutti si lamentano: “D’estate si soffoca per il caldo e d’inverno non c’è riscaldamento. Non abbiamo medicine. E’ pieno di scarafaggi e di zanzare. C’è una sola latrina per 40 persone: non siamo animali!”

In aprile, dopo sei mesi di lavoro a Malta, Medici senza frontiere ha deciso di sospendere per protesta le attività di sostegno agli immigrati e di divulgare il rapporto che denuncia senza mezzi termini le inumane condizioni di vita dei detenuti. “Celle sovraffollate, standard igienici inadeguati e scarsa assistenza sanitaria” spiega a Panorama Philippa Farrugia, coordinatrice del team di Msf, “mettono a repentaglio la salute fisica e mentale dei detenuti. A farne le spese sono come sempre i più deboli: ci sono casi di donne e di minori che hanno tentato più volte di suicidarsi. E’ un trattamento indegno di un paese membro dell’Unione europea”.

In alcuni blocchi dei centri di reclusione di Safi, Lyster Barracks e Ta’kandja lo spazio disponibile pro capite non supera i tre metri per due e i detenuti sono spesso costretti a dormire per terra o a spartirsi il materasso. “Fino al febbraio 2009” si legge nel rapporto di Medici senza frontiere “la sezione E del blocco Hermes disponeva di una sola doccia funzionante per oltre cento persone. I dormitori sono costantemente allagati dai reflui delle latrine e degli scarichi”.

Il flusso crescente dei migranti è destinato a provocare un sensibile deterioramento delle già precarie condizioni sanitarie. Il dossier di Msf elenca un numero allarmante di malattie infettive, scabbia, varicella, gastroenteriti, tubercolosi, hiv, la cui trasmissione è favorita dalle procedure di isolamento: pazienti affetti da malattie contagiose vengono rinchiusi in cella con individui sani isolati per motivi disciplinari. Le cure mediche sono state appaltate a due società private che intervengono in modo saltuario e in assenza di protocolli stabiliti. Non esistono farmacie, gli indumenti sono forniti da volontari esterni e i reclusi dispongono soltanto di una carta telefonica da 5 euro ogni due mesi.

I cancelli del carcere si schiudono dopo un periodo massimo di detenzione di un anno e mezzo. Ma sono pochi i boat people che riescono a ottenere lo status di rifugiato. La maggior parte dei clandestini viene respinta o deve accontentarsi di un documento di “protezione temporanea”: un assegno mensile provvisorio di 130 euro e un alloggio (con obbligo trisettimanale di registrazione) nella tendopoli di Hal Far o nell’ex istituto tecnico di Marsa, trasformato in centro di accoglienza da una fondazione benefica dei frati cappuccini. Padre Ahmed Bugre, che lo gestisce, non ha un compito facile: “Non c’è integrazione, abbiamo problemi di alcolismo, consumo di droga e prostituzione. Ma sopratutto c’è molta rabbia. E’ gente in fuga dagli orrori della guerra e da una sordida miseria. Nessuno di loro vuole tornare a casa. E a Malta si sentono in trappola: tenteranno ancora, con ogni mezzo, di raggiungere le coste italiane”.

Abdul, che in Somalia ha lasciato la moglie e i bambini di due e quattro anni, non ha dubbi: “Certo che ci riprovo! Non ho più niente da perdere. Meglio annegato che ammazzato come un cane a Mogadiscio. Cos’altro posso fare per il futuro dei miei figli?”