Lost in Juarez
Mexico, April 2015

Ti aspetti una frontiera blindata. E invece bastano pochi minuti per attraversare il fiumiciattolo che gli americani chiamano Rio Grande, il Rio Bravo dei messicani. Se vai a sud non guardano neppure il passaporto. Ti lasci alle spalle i grattacieli e le banche di El Paso, la “seconda città più sicura degli Stati Uniti”, e la prima cosa che vedi di là dal Puente Internacional Paso del Norte è una croce di legno trafitta da centinaia di chiodi: un chiodo per ogni donna assassinata.

Ciudad Juárez, stato di Chihuahua, un milione e mezzo di abitanti, ha una pessima fama: “capitale mondiale degli omicidi e dei femminicidi”, “principale piazza del traffico di droga e di esseri umani”. Tra il 2006 e il 2012 la guerra tra i cartelli dei narcos ha mietuto più di 50 mila vittime, di cui oltre 10 mila nella “città dei morti” al confine texano: tra questi una settantina di giornalisti, centinaia di donne, migliaia di desaparecidos. Eppure, camminando per l’avenida Juárez, si nota che qualcosa è cambiato.

Sul boulevard che conduce al Puente, dove fino a due anni fa si avventuravano solo spacciatori, prostitute e sicari al soldo delle mafie, caffè e ristoranti hanno riaperto i battenti, le facciate degli edifici crivellate dai proiettili sono state restaurate e sui marciapiedi passeggiano gruppi di studenti e tranquille famigliole con bambini. Il mistero s’infittisce al calar del sole: i night club un tempo deserti, teatro di sanguinose sparatorie, sono aperti fino all’alba. Il Kentucky, dove si favoleggia che il 4 luglio 1942 il barista Francisco “Pancho” Morales abbia inventato il cocktail Margarita, è pieno di clienti. E a Jesús, l’anziano barman dai capelli tinti e impomatati del Club 15, sembra quasi di rivivere l’epoca d’oro degli anni ruggenti, quando nei casinò serviva drink a famosi toreri, celebri cantanti e stelle di Hollywood del calibro di John Wayne e Marilyn Monroe.

“Non farti illusioni” mi dice Miguel Ángel Chávez Díaz de Léon, che sul biglietto da visita ha fatto stampare scrittore, giornalista, sopravvissuto a un’embolia e a un carjacking. “Il numero degli omicidi è sceso da 10 a uno o due al giorno. Ma c’è un motivo. I cartelli di Juárez e di Sinaloa si sono indeboliti nella lotta per il controllo del mercato della droga: molti boss sono morti o sono stati arrestati e gli introiti degli affari illeciti si stavano prosciugando. Così i nuovi narcos sono scesi a patti. Hanno capito che una relativa calma è molto più vantaggiosa. E da quando i reparti speciali dell’esercito e della polizia federale si sono ritirati il business è ripreso alla grande: un fatturato di svariati miliardi di dollari che proviene dal contrabbando di narcotici, dalle estorsioni, dal racket della prostituzione e, in misura crescente, dal traffico dei migranti”.

L’intreccio tra politica, mafia e traffici illegali ha segnato la storia di Ciudad Juárez. Già nel 1921, dopo l’epopea della rivoluzione messicana, il console generale degli Stati Uniti John W. Dye descriveva l’ex El Paso del Norte come “la Mecca dei criminali e dei depravati di entrambi i lati della frontiera”, dove crimine organizzato e potere economico andavano a braccetto. Alcuni anni dopo, era l’ottobre del ’29, entrò al Café Lobby un gringo scortato da tre uomini: un tipo grassoccio, con un Borsalino calato sulla fronte calva e un panciotto di raso sotto l’abito grigio. Aveva una cicatrice sulla guancia e un grosso sigaro tra le dita: era Al Capone, e dal proprietario del caffè, che possedeva la più importante distilleria del Paese, aveva appena acquistato una partita di Straight American Whiskey, un bourbon invecchiato il cui contrabbando, in pieno proibizionismo, fruttava decine di milioni di dollari.

L’altro big business, a Juárez, era la droga. Negli anni Venti era una donna, Ignacia Jasso, detta “La Nacha”, a gestire il commercio: vendeva mota, marjuana, in città ed esportava chiva e perico, eroina e cocaina, a El Paso. Poi, durante la Seconda guerra mondiale, furono gli americani a incentivare la coltivazione dell’oppio per produrre anestetici da inviare al fronte: le province di Durango, Chihuahua e Sinaloa si riempirono di gomeros, piantatori di papaveri, e di laboratori per la raffinazione. A Juárez la morfina costava meno del whisky. L’eroina si comprava per pochi pesos. Jack Kerouac, William Borroughs e i poeti della beat generation sperimentavano in Messico sostanze allucinogene e nuove forme di espressione. Bob Dylan scriveva Just like Tom Thumb’s Blues, che sembra prefigurare la discesa agli inferi di Juárez: “ci sono donne affamate che ti riducono a brandelli…è meglio che te ne torni da dove sei venuto, perché gli sbirri non ti vogliono tra i piedi, e si aspettano la stessa cosa”.

Jesús stappa un’altra bottiglia di tequila: “È stato Pablo Acosta Villareal a rifondare il cartello. Arrivava in avenida Juárez su una Ford Bronco, armato di un mitra Colt AR-15. Quando fu ucciso nel 1987 il suo posto fu preso da Amado Carrillo Fuentes, il ‘Signore dei cieli’: la sua flotta di avionetas trasportava 60 tonnellate all’anno di coca dalla Colombia. Ora i boss sono cambiati ma da questa frontiera continua a passare il 90 per cento della droga destinata al mercato americano. Un giro d’affari da 40 miliardi di dollari l’anno”.

Gli stranieri sono pochi nelle vie e negli alberghi della città. Juárez è ancora off limits per i militari della base texana di Fort Bliss, che fino a qualche anno fa attraversavano il confine nei weekend in cerca di ragazze, marijuana e whisky a basso costo: il Crime and Safety Report pubblicato in aprile dal dipartimento di Stato definisce “critico” il tasso di violenza, con 434 omicidi registrati nel 2014. Qui tutti hanno un morto in casa, un figlio in carcere e un altro con la pistola in tasca.

Miguel Perea, che da trent’anni fotografa i morti per il quotidiano El Mexicano, mi accompagna nelle colonias della periferia: sulla collina del Cerro Bola, dove in una cava di pietra, sotto la grande scritta “La Bibbia è verità: leggila”, la polizia ha trovato frammenti di ossa e resti umani; nei piazzali delle maquiladoras, gli impianti di assemblaggio industriale delle multinazionali dove gli operai immigrati lavorano per 5 dollari al giorno; nella cappella dove i famigliari dei narcos invocano la protezione della Santa Muerte; tra le baracche di cartone e lamiera di Lomas de Poleo, dove i bambini sniffano solventi e un murale racconta la storia di Maria Sagrario, 17 anni, rapita e uccisa all’uscita del turno in fabbrica; tra i cespugli della strada per Chihuahua, dove la scientifica sta esaminando il cadavere di un uomo con due colpi in testa. “Cuerno de chivo” sentenzia Miguel. “Corno di caprone: chiamano così il Kalashnikov, per la forma ricurva del caricatore”.

A Rancho Anapra, una baraccopoli ai margini della città, non c’è traccia dei terroristi dello stato islamico che secondo alcune fonti dell’intelligence americana starebbero progettando di infiltrarsi oltreconfine confusi tra i migranti. Ma ci sono occhi che scrutano il punto dove la palizzata metallica s’interrompe e una curva obbliga il treno merci di El Paso a rallentare. “È uno dei varchi più utilizzati per attraversare la frontiera” spiega il delegato federale per l’immigrazione Wilfrido Campbell. “I clandestini che arrivano dal Centroamerica e dal sud del Messico sono una manna per i trafficanti di esseri umani, un business di 7-10 miliardi di dollari l’anno. E il numero dei minori non accompagnati è in continuo aumento: 60 mila nel 2014, probabilmente il doppio nel 2015”.

I volontari dei Grupos Beta, che assistono i migranti, pattugliano il confine tra Las Palomas e Las Chepas, 130 chilometri a ovest di Ciudad Juárez: dal lato americano moderne fattorie in un oceano verde di campi perfettamente irrigati e coltivati; in quello messicano un arido deserto di agavi e cactus, mulinelli di sabbia e ruderi abbandonati. “Passano soprattutto di notte, in piccoli gruppi, sui sentieri della sierra” dice il capopattuglia Carlos Castillo. “Da Las Chepas devono affrontare tre giorni di cammino: dormono nei letti asciutti degli arroyos, si nascondono nelle pieghe del terreno. Ma le temperature sono estreme, torrido d’estate, gelido d’inverno. Ci sono vipere e serpenti a sonagli. E molti muoiono di sete”.

In un anfratto c’è una cappella dove i migranti fanno sosta e accendono candele alla Vergine prima di tentare il balzo oltreconfine. Tra gli arbusti lattine, bottiglie di plastica, scatolette di tonno. La “linea” è a meno di 300 metri: a tratti è solo una rete, facile da scavalcare e apparentemente incustodita. Basta un salto per atterrare nel sogno americano. Ma è un’illusione. Dove non c’è la barriera sormontata da cellule fotoelettriche ci sono invisibili sistemi di sorveglianza elettronica: duemila chilometri di sensori termici, telecamere a raggi infrarossi su palloni aerostatici, radar, droni ed elicotteri Black Hawk e A-Star pronti a intervenire a supporto dei 20 mila agenti della US Border Patrol.

Tuttavia il flusso dei migranti, stimolato dalla ripresa economica negli Stati Uniti, non accenna a diminuire. Il rafforzamento dei controlli, inaspriti dopo l’attentato del 2001 alle Torri gemelle, ha soltanto reso più costoso, pericoloso e sempre più spesso letale il transito dei clandestini. I coyotes al soldo dei narcos, i polleros che organizzano la tratta, estorcono fino a 10 mila dollari per ogni singolo passaggio. A Juárez altri soldi si devono versare agli Aztecas, la gang che imperversa in città. Il traffico di esseri umani sta diventando più lucroso del traffico di droga.

“Sto aspettando da un mese il segnale per passare” dice Angel, trentenne del Michoacan, sposato con quattro figli. “Al mio paese non c’è lavoro. Ho fatto per qualche anno il meccanico a Chicago dove vive mia sorella, poi sono rientrato in Messico a trovare la famiglia: è dura stare lontano dai bambini ma in America la paga è buona”.

Il viaggio dei migranti è un calvario di abusi, ricatti, torture, estorsioni. La ruta de la muerte dai Paesi centroamericani devastati dalla violenza e dalla fame all’eldorado yankee è un percorso a ostacoli. Molti, nonostante l’accresciuta sorveglianza, continuano a saltare sulla “Bestia”, il famigerato treno merci che risale dal confine guatemalteco, più volte assalito da bande di rapinatori e sequestratori. Altri si spostano in autobus, per migliaia di chilometri, lungo le rotte atlantiche o del Pacifico: fino a Tijuana, Ciudad Juárez o nell’inferno del Tamaulipas, a Reynosa e a Matamoros, dove i commando degli Zetas e del cartello del Golfo si combattono nelle strade, assediano le caserme dell’esercito e massacrano a dozzine i migranti che tengono in ostaggio. Nel solo municipio di San Fernando sono state scoperte 49 fosse comuni con i resti di 300 immigrati: ogni anno 20 mila clandestini risultano desaparecidos.

Gli adolescenti non accompagnati sono i più vulnerabili: vittime di stupri, sevizie, minacce, arresti arbitrari. Sono spesso costretti, per pagarsi il passaggio, a caricarsi in spalla una mochila piena di droga. E se riescono a passare la frontiera corrono il rischio di incappare nella polizia e di essere deportati. O di venire intercettati da formazioni paramilitari come gli Arizona Border Recon di Tim Foley, un ex parà dell’82ma Divisione aviotrasportata che “difende” la frontiera del Rio Grande con un manipolo di veterani dell’Iraq e dell’Afghanistan la cui storia è raccontata nel docufilm Cartel Land, premiato al Sundance Festival e presentato il mese scorso a New York.

“Il trauma psicologico per i ragazzi e i bambini deportati è spesso insopportabile” sospira Virginia Gaytán de Serrano, moglie del sindaco di Juárez, che coordina le attività di assistenza ai migranti e dirige México Mi Hogar, una casa di accoglienza per minori: lo scorso anno, nell’Hogar La Esperanza, una ragazzina ecuadoregna di 12 anni, Nohemi Álvarez, si è suicidata impiccandosi con una tenda.

Alfredo non ha la più pallida idea di cosa siano il “Dream Act” o la “Deferred Action”, le proposte di Barack Obama per differire la deportazione dagli Usa dei minori senza documenti, duramente contestate dalla destra repubblicana al Congresso di Washington e destinate a infiammare la campagna presidenziale del 2016. A 11 anni ha viaggiato da solo per tre mesi dall’Honduras a Ciudad Juárez, è stato catturato alla periferia di El Paso ed è stato rispedito in Messico, dove aspetta con altre centinaia di ragazzini di essere rimpatriato.

Nelle colonias e nelle case di accoglienza deportati e migranti in attesa di attraversare il confine raccontano storie di miseria e disperazione. La famiglia Martinez, due fratelli e una donna con quattro figli in un monolocale con un tavolo, un vecchio frigorifero e un paio di materassi, si arrangia vendendo lattine recuperate nella spazzatura. José, 28 anni, di Guadalajara, voleva raggiungere la moglie e i figli in Nebraska, ha pagato 3.500 dollari a un pollero ma è stato beccato dalla Border Patrol. “Non ho documenti” dice. “Qui non esisto: non ho passato e non ho futuro”. Raul è al quinto tentativo: in Arizona ha scontato tre mesi di carcere ma se riuscirà a trovare i soldi è deciso a riprovare, “per mandare i figli a scuola”. Julio, 16 anni, arrivato dal Salvador, sogna di raggiungere i genitori a Los Angeles: non li ha mai conosciuti ma gli hanno mandato il denaro per il viaggio.

“Tutta la frontiera è controllata dai narcos” afferma Emmanuel, che ha i fratelli a New York, nel Queens, e che a Hidalgo aveva un laboratorio tessile mandato in rovina dalla concorrenza cinese. “Bisogna pagare i coyotes, ma anche la polizia, i militari, i funzionari dell’immigrazione, l’alloggio, il cibo, i trasporti, i contatti locali e i gangster delle bande armate. Se non hai soldi devi contrabbandare droga: marijuana, coca, crystal, anfetamine. Io ho già provato due volte a passare, da qui e da Sonora. Il meglio che può capitare è che ti prenda la Migra. Perché se finisci nelle mani dei killer dei cartelli la tua vita vale meno di un peso”.