living hell
South Sudan, june 2017

In pace i figli seppelliscono i padri, in guerra sono i padri a seppellire i figli”, Erodoto, Storie.

 

Roda accende il fuoco.

La legna è fresca, il fumo riempie la stanza, fa lacrimare gli occhi. Ma all’aperto è peggio. Troppe mosche, troppe zanzare, troppo fango. E il sole scotta.

La baracca è come tutte le altre. Settore 1, blocco 4. Pareti di canne, porta di zinco, pavimento di terra, tetto di lamiera e plastica. La latrina è un casotto di latta sull’orlo del canale di scolo, colmo di una melma putrida e verdastra. Ma qui nel Poc, il “sito per la protezione dei civili” di Bentiu, Roda e gli altri 130 mila sfollati Nuer si sentono al sicuro. Almeno lo sperano.

Roda è uscita viva dall’inferno. Ma quasi tutta la sua famiglia è stata massacrata. “Era il gennaio 2015” racconta. “I tukul ardevano come falò di sterpi. Rintanati nella boscaglia, udivamo le grida e le raffiche di mitra. Vedevamo i miliziani inseguire i bambini: li falciavano con le roncole e i machete. C’erano cadaveri dappertutto: donne sventrate, neonati carbonizzati. E i corpi mutilati dei miei cinque fratelli. Sento ancora l’odore del sangue, della carne bruciata”.

Roda e suo marito si sono salvati per caso: erano andati con i due figli a prendere acqua al fiume. All’alba sono tornati al villaggio, dove le iene e gli avvoltoi si erano già saziati. Hanno preso quel che restava dalle rovine fumanti della loro casa, due pentole, una coperta, un catino, e sono fuggiti a piedi attraverso le paludi. Cinque giorni di cammino nutrendosi di radici, insetti e bacche selvatiche. “Certe piante si possono mangiare” spiega. “Si pestano con un bastone fino a ridurle in una poltiglia, amara e filacciosa, che si fa bollire. Ma non pensavamo di farcela. Kelual aveva quattro anni. Sunday, la femmina, solo due. E io ero incinta. Abbiamo avuto la fortuna di imbatterci in un villaggio Nuer a sud di Bentiu e ci siamo accampati sotto un grande tamarindo: ho partorito sotto quell’albero. Un maschio. L’ho chiamato Puot, ‘scampato al pericolo’. Poi siamo venuti qui. Non c’è nessun altro posto dove possiamo andare”.

Hanno perso tutto, soprattutto le vacche. Per i Nuer, come per i Dinka, il bestiame è la vita. Il latte e il sangue sono alimenti preziosi in tempo di carestia. Con lo sterco mescolato a paglia si fanno i mattoni e l’intonaco delle case, il combustibile per cucinare e procurarsi la cenere che, cosparsa sul corpo, protegge dalle zanzare anofele. Con l’orina si si conciano le pelli, fa il caglio, si tingono i capelli. E le bianche vacche dalle corna ricurve sono la dote dei matrimoni: fino a cento capi per una ragazza giovane e bella. “Senza vacche” recita un proverbio “niente moglie; senza moglie niente figli; senza figli la tribù muore”.

Puot gioca con una vecchia lattina di birra. Il suo universo, e quello di migliaia di bambini nati nel Poc, è un orizzonte chiuso: finisce alle recinzioni di “concertina” e di filo spinato che circondano la città dei morti viventi. Perché il campo è una fortezza, o una prigione, sorvegliata a vista da due battaglioni di caschi blu mongoli e ghanesi dell’Unmiss, la missione delle Nazioni Unite in Sud Sudan. Mezzi blindati, torri d’avvistamento, terrapieni, garitte, barriere di cemento e postazioni di mitragliatrici sono indispensabili per difendere lo staff delle organizzazioni umanitarie, i magazzini del cibo, i depositi dei medicinali. E per impedire lo sterminio dei profughi.

Appena nato (9 luglio 2011) il Sud Sudan “cristiano” è già uno stato fallito: un’altra Somalia devastata dalla guerra e dalla fame. Un’altra sconfitta della comunità internazionale.

Le speranze suscitate da un’indipendenza costata quarant’anni di sanguinose battaglie contro gli eserciti del Nord musulmano e più di due milioni di vittime, sono subito naufragate. Miliardi dollari di aiuti economici, in gran parte sborsati da Washington e dall’Onu, sono andati in fumo: dilapidati da uno dei regimi più corrotti del continente, stornati per acquistare armi, intascati dai leader delle milizie che si contendono il potere e le risorse del Paese, ricco di petrolio.

Il conflitto è esploso nel luglio 2013, quando il presidente Salva Kiir, un Dinka, ha accusato il suo vice Riek Machar, un Nuer, di avere organizzato un colpo di stato. Gli scontri tra l’Spla, braccio armato del Movimanto popolare di liberazione, che controlla il governo provvisorio, e i seguaci di Machar, si sono propagati dalla capitale Juba a tutte le province innescando una guerra civile di inaudita ferocia, esasperata dalle mai sopite rivalità etniche e alimentata, nell’ombra, dai contrapposti interessi delle potenze regionali: la lotta per l’egemonia nel Corno d’Africa tra l’Etiopia e l’Uganda; e l’irrisolta contesa tra Egitto, Etiopia e Sudan sul controllo delle acque del Nilo.

Poco importa però se le armi arrivano dal Cairo, da Kampala o da Khartoum. Il risultato sono: dai 50 ai 300 mila morti in cinque anni, sedicimila bambini-soldato, quattro milioni di sfollati, cinque milioni di allevatori e contadini a rischio di morte per fame, due milioni di rifugiati oltre i confini (quasi un milione solo in Uganda) su una popolazione di tredici milioni. Il Sud Sudan, grande come la Francia, ricco d’acqua, di terre fertili e di petrolio, si sta svuotando. Ai soldati, da mesi senza paga, è stata data licenza di uccidere e di accaparrarsi il bottino, mentre le squadracce degli “Youth”, giovani reclutati nelle campagne, male armati e assetati di vendetta, si accaniscono sui civili inermi. I supestiti raccontano di villaggi rasi al suolo, stupri di massa, civili bruciati vivi, bambini fatti a pezzi, razzie di bestiame, scuole distrutte, ospedali saccheggiati e malati trucidati nei loro letti.

Non è facile raggiungere la remota Bentiu, capoluogo dello stato di Unity, a poca distanza dalla disputata frontiera col Sudan, teatro di duri scontri e brutali rappresaglie. Via terra non è più possibile: anche i convogli umanitari sotto scorta sono ormai nel mirino delle milizie, che hanno già assassinato più di ottanta cooperanti locali e stranieri. L’unico mezzo di trasporto è il volo settimanale di un bimotore delle Nazioni Unite dal disastrato aeroporto di Juba, l’antica Gondokoro, agognata meta dei geografi e degli esploratori che in età vittoriana risalivano i meandri del Nilo. Nel 1863 Samuel Baker impiegò quaranta giorni per compiere il viaggio da Khartoum a Gondokoro, dove incontrò Richard Burton e John Speke, reduci da una spedizione alla ricerca delle enigmatiche sorgenti del Grande Fiume.

A quell’epoca la cittadina non era che un avamposto di avventurieri, mercanti di schiavi e banditi sempre ubriachi e dal grilletto facile. Anche la missione cattolica austriaca era in rovina: fondata nel 1851, era stata abbandonata dopo soli otto anni con un bilancio di quindici dei venti sacerdoti uccisi e neppure un convertito. La derelitta stazione commerciale sul Nilo, scrive Baker nel suo diario, era “un inferno perfetto”. Oggi Juba è piena di chiese e di missionari, di funzionari dell’Onu e di volontari delle ong. Ma è ancora un luogo infernale, soffocato dalla paura.

Camionette cariche di uomini armati di Kalashnikov pattugliano rabbiosamente le strade sterrate, zigzagando tra le buche e i mucchi d’immondizia. Le saracinesche dei negozi crivellati di proiettili restano abbassate. Decine di società hanno chiuso i battenti. I sobborghi sono deserti. I Nuer sono fuggiti in Uganda o nei due campi protetti dall’Unmiss, lasciandosi alle spalle le case incendiate, i loro averi e i loro morti. Al tramonto scatta un coprifuoco non dichiarato e la città piomba nel buio, in un silenzio teso, spezzato dagli spari e dai latrati dei cani randagi. Al mattino si contano i cadaveri. E fuori dalla capitale è anche peggio.

Sul volo per Bentiu rileggo i dati che ho annotato nel taccuino. L’analfabetismo sfiora l’80 per cento, un quarto della popolazione vive con meno di un dollaro al giorno, più della metà del bilancio dello stato è assorbito dalla Difesa, i trasporti pubblici e i servizi essenziali sono inesistenti, l’acqua potabile è fornita in bidoni da venditori ambulanti, negli ospedali mancano i medicinali, il sistema scolastico è allo sbando e gli insegnanti senza stipendio sono in sciopero da un anno. Appena raggiungono la pubertà le bambine lasciano la scuola: i genitori le costringono a sposarsi per avere in dote qualche mucca. Il governo non ha un soldo e per far fronte ai debiti stampa moneta che è carta straccia: l’inflazione è al 900 per cento. Per pagare il conto dell’albergo ho dovuto riempire uno zaino di banconote.

Sotto, l’immensa distesa della savana è uno spettacolo desolante: le coltivazioni di cassava e di fagioli abbandonate, i minuscoli agglomerati di tukul disabitati. I combattimenti hanno impedito la semina, i raccolti sono andati perduti, la pulizia etnica e le deportazioni pianificate dal governo in vista delle elezioni del 2018 stanno alterando i fragili equilibri tra i 76 gruppi e sottogruppi tribali del Paese e lo spettro della carestia, già dichiarata in tre stati, incombe minaccioso. La fame è un efficace arma di guerra.

L’aereo segue la scia argentea del Nilo, che a nord si disperde in un vasto acquitrino di papiri, canne, giacinti d’acqua, praterie d’erba elefantina e isole di vegetazione marcescente. È il Sudd, un paesaggio preistorico, che non è acqua e non è terra, popolato da coccodrilli, ippopotami, serpenti velenosi e miliardi di insetti. “Tutto è selvaggio e brutale” scriveva Baker. Il Sudd era il territorio della fame, delle malattie, della morte. Un ostacolo per secoli insormontabile, una barriera tra il nord islamizzato e il sud cristiano e animista. Ora Bentiu, al margine delle grandi paludi, è la preda più ambita: qui sono i più ricchi giacimenti petroliferi del Paese, da qui parte la pipeline che trasporta il greggio a Port Sudan, sul Mar Rosso.

Accaparrarsi i pochi pozzi ancora in funzione per spartirsi i proventi dell’export di petrolio, unica fonte di valuta pregiata oltre agli aiuti internazionali, è il palese obiettivo dei signori della guerra. Bentiu è semideserta: si vedono solo vecchi e bambini, veicoli carbonizzati, case bombardate e campi minati. La moschea dove 75 civili sono stati trucidati è chiusa: l’imam se n’è andato insieme a tutti i musulmani. Solo Hasan, il macellaio, continua a vendere carne halal in una bottega del fatiscente mercato.

Il campo degli sfollati è pochi chilometri più a nord: uno sterminato accampamento di baracche separate da canali di putridi liquami, immerse nella nebbia azzurrina dei fuochi di ramaglia.

All’interno l’ong italiana Intersos gestisce due scuole e coordina le attività di altri otto “centri educazionali” frequentati da 40 mila studenti dai cinque ai 15 anni. Molti sono orfani. Le aule sono ricoveri di lamiera, fogli di plastica e canniccio, alcune prive di tetto. “Mancano i libri” dice Bashir, il responsabile dell’organizzazione. “Mancano le matite, i banchi, i quaderni. E gli insegnanti sono volontari reclutati tra i profughi, che a mala pena sanno leggere e scrivere. Facciamo il possibile”.

Nel Poc la vita è durissima. Le capanne sono sovraffollate, il caldo è insopportabile, il cibo è scarso: il Wfp è stato costretto a dimezzare le razioni di olio, fagioli, sale, sapone e farina di sorgo. Sulle bancarelle, tra nugoli di mosche, i bambini vendono per pochi centesimi microscopici avanzi di grasso animale. E i lavori faticosi sono, come sempre, affidati alle donne: cucinano, lavano, badano ai figli e agli anziani, attingono l’acqua dai pozzi e la trasportano sul capo in pesanti secchi. Per fare legna devono allontanarsi dal campo. Vanno loro nella boscaglia, perché rischiano “solo” di essere violentate: gli uomini non tornerebbero vivi.

Negli ambulatori e nei centri nutrizionali, catapecchie senza luce circondate da recinti di canne, si affolla un’umanità sofferente: feriti, mutilati, pazienti accovacciati sulle stuoie. Nyahok, trent’anni e sette figli, ha i seni vuoti e rugosi di una vecchia. Non può allattare i tre gemelli che ha da poco partorito. Uno di loro, Matuong, ha il ventre dilatato e le guance scavate. Suo fratello Duop, otto anni, trascina le gambe esili come rami secchi, appoggiandosi a un bastone. Non ha superato il trauma dell’eccidio di suo padre e di due sorelle. “C’erano cadaveri dappertutto” dice con un filo di voce. “Nelle case, nei fossi, nelle paludi”.

Le precarie condizioni igieniche favoriscono la diffusione delle malattie: malaria, tubercolosi, tifo, polmonite, scabbia, kala azar, verminosi, diarrea. I tassi di malnutrizione e di grave denutrizione dei bambini sotto i cinque anni sono in aumento. E con le grandi piogge arriverà anche il colera.

Il cielo è gonfio di nuvole, gli uccelli volano bassi, le raffiche di vento strappano i teli di plastica dai tetti delle capanne: il temporale si avvicina. È un sollievo per la terra arsa dalla siccità, per le zolle spaccate dal sole e per gli affamati che devono piantare il miglio. Le piogge rallentano gli spostamenti delle truppe, bloccano i blindati degli eserciti, inchiodano le milizie nelle loro posizioni. Ma rendono anche quasi impossibile l’invio e la distribuzione degli aiuti. Le strade sono impraticabili, gli aeroporti chiudono. Tutto si ferma. E i campi degli sfollati si trasformano in paludi di fango e di reflui umani, vettori di epidemie e di contagio.

I malati più gravi hanno una sola possibilità di salvarsi: l’ospedale di Medici senza frontiere, l’unica struttura sanitaria dotata di sale chirurgiche, terapia intensiva, reparti pediatrici, specialisti in grado di assistere i tubercolotici, i sieropositivi, gli ustionati e le ragazze stuprate, molte anche all’interno del Poc. In uno dei 160 letti della clinica un bambino denutrito, la pelle raggrinzita incollata alle ossa, gli occhi infossati, lotta per restare in vita. Respira appena. Ha un ago della flebo nella tempia, un altro conficcato nel ginocchio. “È troppo debole per farcela” sussurra un’infermiera.

Davanti alla sua capanna Roda si prepara alle piogge scavando una trincea. “Adesso è questa la mia casa. È tutto quello che possiedo” dice. “E non ce ne andremo. Qui, almeno, di notte non si sentono le urla, le raffiche dei mitra”.

Si sente un canto, invece. Peggio della fame c’è solo l’assenza di speranza. E allora in una delle molte chiese della citta dei morti viventi, poche assi di legno sotto un tetto di lamiera, i Nuer si raccolgono in preghiera. Cantano e pregano per i loro defunti. Danzano e pregano per i figli perduti. Per dimenticare l’odio, il dolore, gli spari. Il fuoco, le grida, il sangue.