Life and death
Yarmuk
Non c’è una linea di demarcazione. Solo una strada che all’improvviso è deserta: “Terra di nessuno” dice l’autista che mi accompagna a Yarmuk. Negozi incendiati, pali della luce abbattuti, l’asfalto sgretolato dai cingoli dei carri armati. E nell’aria l’odore della guerra: benzina, polvere, rifiuti, plastica bruciata.
Damasco è una città surreale. Nei quartieri del centro scuole, banche e uffici sono aperti, il traffico è paralizzato dai posti di blocco dell’esercito e negli affollati ristoranti di Bab Touma nessuno sembra far caso ai colpi di mortaio e alle cannonate che scuotono il Qasioun, la montagna che sovrasta la capitale siriana. Ma il confine invisibile tra la vita e la morte è a pochi passi: dietro l’angolo di ogni sobborgo della cintura urbana; e dietro il minareto crivellato di proiettili della moschea di Yarmuk, il campo profughi palestinese sotto assedio dal dicembre del 2012.
Gli shabab sono appostati all’entrata del rione, un denso agglomerato di edifici anonimi e incolori che un tempo contava oltre un milione di abitanti, oggi in gran parte sfollati. Armati di Kalashnikov, mitragliatrici e lanciarazzi, tengono sotto tiro il viale d’accesso e il piazzale della moschea. Di notte bivaccano nel locale sventrato di una bottega, fumando interminabili narghile di tabacco alla mela e riscaldando il mate sui fornelli ad alcol. Scattano sull’attenti quando arriva Abu Akkram, il loro capo.
Abiti borghesi color caffè, baffetti curati, sulla sessantina: non fosse per la rivoltella calibro nove infilata nella cintura dei calzoni, per la cicatrice sul collo e il braccio destro reso invalido da una pallottola lo scambieresti per un commerciante del bazaar. E invece è un combattente incallito, veterano di una mezza dozzina di guerre mediorientali, comandante dei fedayin di Yarmuk e stretto collaboratore di Ahmed Jibril, storico leader del Fronte popolare per la liberazione della Palestina-Comando generale, schierato al fianco del regime di Bashar al-Assad.
Seguo Abu Akkram all’interno di una palazzina. Il primo piano, centrato da una granata, è un ammasso di lamiere contorte, vetri infranti, schegge di metallo annerito. Al secondo c’è la casa-ufficio: due divani sfondati, posacenere trabbocanti di mozziconi, il bricco del caffè, una cassa di munizioni, una pila di libri e una grossa radio sintonizzata sulle frequenze militari. “Intercettiamo tutte le loro comunicazioni” tiene a dirmi il comandante.
“Loro” sono i gruppi dell’opposizione armata che controllano il 75 per cento del quartiere e che, con il passare dei mesi, si sono moltiplicati. L’Esercito libero siriano – afferma Abu Akkram – continua ad arretrare di fronte alla crescente consistenza delle brigate jihadiste che arruolano volontari arabi, ceceni, libici, tunisini: le milizie qaediste di Ebin Taymiya e di Jabhat al-Nusra, il Battaglione dell’islam, i salafiti di Ababil Horan, i filo-Hamas di Aknaf Beit al-Makdis e i fuoriusciti siriani di Sukkur al-Golan, i Falchi del Golan.
Eccomi servito il mantra della propaganda ufficiale: il complotto sunnita ordito contro Assad dal Qatar e dai sauditi con l’appoggio di Turchia, Israele, Europa e Stati Uniti. L’avevo messo in conto: come i cristiani, i palestinesi sono una minoranza a rischio nella guerra civile siriana e il Fronte popolare ha tutto da perdere dal crollo del regime di Damasco. “La Siria” continua Abu Akkram “appoggia la resistenza palestinese: per questo la vogliono colpire. Yarmuk era un quartiere dinamico, c’erano banche, centri commerciali, fabbriche di ceramica e rubinetteria: è tutto distrutto. Ci hanno attaccato anche se eravamo neutrali, per provocare un’altra diaspora”.
L’esilio e le guerre inseguono da oltre sessant’anni milioni di palestinesi espulsi da Israele nel ’48 e nel ’67 verso la Giordania, il Libano, la Siria. E Abu Akkram ne incarna il destino: fuggito con la famiglia dalla Cisgiordania occupata dopo la guerra dei Sei giorni, profugo a Beirut, ferito durante i massacri di Sabra e Chatila, nuovamente esule a Damasco. Sempre con la rivoltella alla cintura.
Scendiamo in strada. Gli shabab ci scortano sulla linea del fronte: barricate, cumuli di macerie, auto carbonizzate, scheletri di edifici bombardati dalle Katiuscia, dall’artiglieria, dai Mig di Assad. E i tunnel, scavati dagli insorti per convogliare rinforzi e munizioni. I civili non si vedono ma sono migliaia, intrappolati nel campo di battaglia. Si combatte casa per casa. “Quel palazzo di cinque piani là in fondo” indica Abu Akkram “era la base del Fronte popolare. Ci hanno attaccato in massa e noi eravamo in 50: prima di cedere abbiamo resistito tre giorni, senza cibo e senz’acqua. Adesso stiamo avanzando, lentamente, ma stiamo avanzando”.
Nei vicoli, a chiudere la visuale tra le facciate dei caseggiati in rovina, sono stese lenzuola e grandi bandiere. “Sono per i qannas, i cecchini” spiega Khaled, uno dei giovani della scorta. Avrà si e no vent’anni, ai piedi un paio di sandali di plastica, nel pugno l’AK 47, le tasche piene di caricatori. Si ferma accanto alla carcassa di una moto: “Qui mio fratello è stato ucciso da un cecchino. Ma ho altri quattro fratelli. E siamo tutti fedayin”.