Land wars
South Africa, dec 2018

Si leva un suono ritmato e nel buio si accendono i bagliori di un falò. Uno dopo l’altro gli squatters lasciano i ripari di lamiera, i materassi inzuppati, i tuguri di stracci e si avvicinano alla radura ai piedi della collina di Khanana. Gettano sulle fiamme tralci secchi che scagliano scintille nella notte stellata. Sono donne con i neonati al collo, ragazzine intirizzite, giovani con la coperta sulle spalle. Passeranno un’altra notte all’addiaccio.

Si scaldano, in cerchio attorno al fuoco, intonando i canti di battaglia degli zulu: inni guerreschi per farsi coraggio e non sentirsi soli, danze per scongiurare la pioggia, dimenticare la fame, sognare una casa, un lavoro, un briciolo di felicità. Fino all’alba, quando i raggi del sole svelano la desolazione dell’accampamento devastato: baracche bruciate, pentole annerite, assi sfondate, reti dei letti carbonizzate. Le raffiche di vento sollevano una nebbia di cenere grigiastra e trascinano nelle pozzanghere i relitti domestici: un paio di sandali, uno lenzuolo stracciato, una scodella di plastica.

“Sono arrivati ieri a mezzogiorno” racconta Sizwe, 25 anni. “Poliziotti, agenti della squadra anti-invasione. Hanno sparato: proiettili di gomma e di piombo, calibro 9. In quattro sono finiti all’ospedale. Ci hanno presi a bastonate, hanno incendiato tutto. Hanno portato via anche i tetti di zinco. Ci trattano come animali”.

Del capanno di Sbongile, 34 anni, sieropositiva, sono rimasti i pali di sostegno e le tavole di legno su cui dorme. “La polizia ha sequestrato il cibo, i vestiti, le scarpe. Persino i referti della clinica dove sono in cura, senza i quali non posso avere i farmaci antiretrovirali”.

Philisiwe, che ha 19 anni e non è mai stata a scuola, viene da un villaggio del distretto di Mapumulo, a due ore di autobus: “Non ho i soldi per pagare un affitto. Sono qui da sei mesi ma non sono riuscita a trovare un impiego. È già la quarta volta che la polizia brucia la mia casa. Dicono che siamo illegali, che questa terra non ci appartiene, ma non ho un altro posto dove andare”.

Non resta che ricostruire. Cavare dalle discariche il cartone, il bambù, le lamiere arrugginite, i brandelli di stoffa. Raddrizzare a martellate i chiodi di recupero. Attaccare un filo al più vicino palo della luce per accendere una lampadina. Si aiutano a vicenda, condividono una scatola di fagioli e le loro speranze: Sizwe vorrebbe produrre musica rap, a Philisiwe basterebbe fare la donna delle pulizie.

Sono 168 gli abitanti dell’“insediamento informale” di Khanana, un fazzoletto di terra in un’area degradata alla periferia di Durban: figli di contadini poveri che abbandonano le campagne in cerca di fortuna. Ma sono migliaia gli immigrati che ogni anno sbarcano nella grande metropoli portuale del KwaZulu-Natal. Occupano i terreni incolti ai margini degli slum, i capannoni dismessi, le scarpate ai bordi delle strade e dei binari della ferrovia.

Durban è in pieno sviluppo. I cantieri di ampliamento del porto stanno ultimando quello che si appresta a diventare il secondo scalo mercantile al mondo dopo Rotterdam. Il vecchio centro coloniale, con i decrepiti edifici vittoriani e i magazzini dei commercianti indiani, è incalzato dagli uffici delle banche, delle assicurazioni e delle società immobiliari. Il valore delle zone edificabili aumenta e la municipalità, controllata dall’African National Congress, è risoluta a combattere l’occupazione dei terreni. Ma gli oltre 800 mila residenti degli slum e delle baraccopoli illegali, un quarto della popolazione cittadina, sono determinati a resistere e si sono organizzati. L’Abahlali baseMjondolo (AbM), il Movimento degli abitanti degli slum, attivo in 40 insediamenti, conta più di 50 mila membri a livello nazionale: la più grande organizzazione sociale nel Sud Africa post-apartheid.

L’AbM non è un partito politico, ma da Durban a Cape Town guadagna consensi tra i 12 milioni di squatters che vivono nei 2.300 insediamenti informali del Paese. Entro l’estate sarà eletto il parlamento che dovrà confermare alla presidenza Cyril Ramaphosa, succeduto nel febbraio 2018 al dimissionario Jacob Zuma, travolto dagli scandali e dalle accuse di corruzione. Per l’Anc, in calo nei sondaggi, il voto delle township è di fondamentale importanza, politica e simbolica.

La casa e la terra saranno al centro della campagna elettorale. Il Programma di ricostruzione lanciato nel 1994 da Nelson Mandela ha assegnato 4 milioni di alloggi ai più indigenti. Ma sono di gran lunga insufficienti. La redistribuzione della terra, concentrata nelle mani dei proprietari bianchi, procede a rilento. E lo slogan dell’AbM, “Niente terra, niente casa, niente voto”, fa breccia nella tradizionale base sociale dell’Anc.

L’AbM nasce nel 2005, quando gli abitanti dell’insediamento di Kennedy Road bloccano la strada per protestare contro l’assegnazione a un imprenditore di un lotto di terra che la municipalità aveva promesso agli squatters. Oggi il Movimento mobilita migliaia di seguaci e sfida l’establishment politico, nelle piazze e nei tribunali. Ha impedito decine di sgomberi, sostiene gli slum nelle lotte per l’accesso all’istruzione, ai servizi igienici, alle cure sanitarie e ha ottenuto dalla Corte costituzionale l’annullamento dello Slums Act, la legge approvata del 2007 che intimava lo sfratto coatto e la demolizione delle baraccopoli.

Il prezzo è elevato: centinaia di arresti, intimidazioni, raid della polizia, agguati mortali. Dal 2017 sei esponenti del Movimento sono stati assassinati da killer prezzolati: l’ultimo, S’fiso Ngcobo, è stato steso sulla porta di casa nel maggio 2018. E il leader dell’AbM, S’bu Zikode, minacciato di morte, è costretto a vivere in semi-clandestinità, protetto da guardie del corpo armate.

Lo incontro a Nkanini, dove gli squatters hanno respinto ripetuti attacchi e non hanno ceduto: hanno rimesso in piedi le abitazioni, si sono collegati alla rete elettrica, all’acquedotto, alle fognature e stanno inaugurando, tra canti e balli, una grande sala comunitaria. “So che la mia vita è in pericolo” dice Zikode, che ha 5 figli e deve continuamente cambiare alloggio. “Ho subito numerosi attentati, l’ultimo in settembre. Ma occupare gli spazi urbani inutilizzati è la sola possibilità per i giovani che vengono in città in cerca di lavoro. I politici ci temono perché siamo indipendenti dai partiti e ci battiamo contro l’ingiustizia e la corruzione. Non era questa la visione di Mandela, la dignità per tutti: a 25 anni dalla fine dell’apartheid siamo costretti a vivere nella merda come maiali”.

Negli slum le condizioni igieniche sono aberranti. L’acqua potabile scarseggia, la spazzatura e i ratti sono ovunque, i cessi sono buchi nel fango e quando piove le baracche si allagano. I giovani si abbrutiscono nell’alcol e nella droga. Gli anziani sono preda dei ciarlatani delle chiese evangeliche. A Kennedy Road sono in trentamila aggrappati alla montagna della più grande discarica di rifiuti della città. A Cato Crest non è meglio. “In questa sezione ci sono sei latrine per seimila persone” dice Revival Mkhize, che si è sistemata con i 4 figli un tugurio senza luce. “I bambini muoiono di diarrea e di polmonite. Molti nascono con l’aids”.

Nathi Mngomezulu, attivista di AbM, gestisce il piccolo spaccio comunitario: uova, caramelle, sapone, sigarette. Ha profonde cicatrici al ventre e il sacchetto della colostomia. “Ero manovale al porto” racconta. “La polizia è venuta qui venti volte per abbattere le costruzioni abusive. Nel settembre 2013 mi hanno scaricato otto proiettili nello stomaco”.

S’bu Zikode si allontana in fretta. I guardiaspalle hanno ricevuto una segnalazione. “Ci minacciano” dice “perché siamo senza casa, perché veniamo in città a cercare una vita migliore, perché vogliamo costruire un futuro per i nostri figli. Ma non ci arrendiamo. Pagheremo la terra con il nostro sangue”.

 

Giovanni Porzio