Giovanni Porzio – da Karachi (17.03.09)
Centinaia di arresti e la proclamazione dello stato di emergenza non sono serviti. All’alba del 16 marzo il governo ha dovuto capitolare di fronte alla marcia su Islamabad organizzata dal leader dell’opposizione Nawaz Sharif e accogliere le sue richieste: immediata riabilitazione dei giudici estromessi dall’ex presidente Musharraf e revisione di una sentenza della Corte suprema che esclude dai pubblici uffici Sharif e suo fratello Shabaz, governatore del Punjab.
La crisi istituzionale, che per alcuni giorni ha spinto il Pakistan sull’orlo della guerra civile o di un ennesimo colpo di stato, è stata scongiurata in extremis. Ha però evidenziato la debolezza dell’esecutivo e l’estrema precarietà del paese che Barack Obama ha messo in cima alla lista delle priorità internazionali degli Stati Uniti.
Il Pakistan è oggi il fronte centrale della guerra al terrorismo e la chiave di volta del conflitto afghano. Ma “i problemi dell’Afghanistan impallidiscono se paragonati ai rischi che corriamo in Pakistan” afferma Bruce Riedel, l’analista della Brookings Institution che ha stilato l’ultima “policy review” per l’Amministrazione di Washington. Nessun altro paese al mondo è altrettanto pericoloso, perché possiede tutto ciò di cui Osama bin Laden ha bisogno: instabilità politica, un capillare network di integralisti islamici, un rancore anti-occidentale rinfocolato dai bombardamenti dei caccia americani e degli elicotteri pakistani (centinaia di vittime civili e decine di migliaia di sfollati), santuari e campi di addestramento nelle inaccessibili zone montuose del nordovest, facile accesso al mercato clandestino delle armi e alla tecnologia elettronica, una polizia corrotta, l’appoggio delle tribù pashtun, la malcelata connivenza dell’Isi, i servizi segreti. E un arsenale nucleare che è un incubo per gli strateghi del Pentagono.
L’esercito ha dispiegato 120 mila militari ai confini afghani e negli scontri ha già perso oltre 1.300 uomini. Ma è sempre più in difficoltà di fronte agli integralisti che operano nelle zone tribali. L’intera regione, dove con ogni probabilità si nascondono Bin Laden, Ayman al-Zawahiri e il mullah Omar, è di fatto governata dai taliban e da al-Qaeda. Dal Baluchistan al Waziristan, fino alle impervie catene montuose delle Province di frontiera del nordovest, i jihadisti hanno trovato un rifugio e un fecondo bacino di reclutamento. E hanno vinto la loro prima battaglia: nella valle dello Swat e nei distretti di Dir e Chitral il governo è stato costretto a barattare una tregua con l’applicazione della sharia.
Il 16 febbraio il maulana Sufi Muhammad, leader del fuorilegge Movimento per l’applicazione della legge del Profeta, è entrato trionfalmente a Mingora, capoluogo dello Swat, annunciando la lieta novella: i tribunali islamici si insedieranno tra breve nell’ex “Svizzera del Pakistan”, dove suo genero Qazi Fazlullah ha fatto saltare con la dinamite 140 scuole femminili e le statue rupestri del Buddha, imposto alle donne il burqa, proibito ai barbieri di rasare gli uomini e alle radio di trasmettere musica. E dove accanto ai taliban sono scesi in armi, per la prima volta dopo l’11 settembre, gli arabo-afghani della Brigata 055 di al-Qaeda. “E’ il primo passo verso la talibanizzazione del Pakistan” dice a Panorama Ahmed Rashid, autore di un nuovo saggio (Descent into Chaos) sull’avanzata dell’islam radicale. “Anche Musharraf aveva siglato controverse intese con i taliban, ma non si era mai spinto al punto di modificare il sistema giuridico del paese: siamo al collasso delle istituzioni”. Il 9 marzo altri quattro distretti delle Zone tribali hanno ottenuto dal governo l’applicazione della sharia.
L’intero Pakistan, sostiene Rashid, si è trasformato in una retrovia di al-Qaeda. Il nuovo e più preoccupante fattore di rischio è che l’influenza e le attività dei gruppi jihadisti si estendono ben oltre i remoti santuari al confine afghano: i terroristi sono in grado di colpire i centri nevralgici della sesta nazione più popolosa del mondo (160 milioni di abitanti). Dopo avere assassinato Benazir Bhutto hanno nel mirino suo marito, il presidente Ali Zardari.
Negli ultimi 18 mesi i commando di Lashkar-e-Toiba (il gruppo kashmiro responsabile della strage di Mumbai) e della costellazione di movimenti estremisti nominalmente guidati da Baitullah Mehsud hanno lanciato 150 operazioni suicide, demolito nella capitale (20 settembre) l’Hotel Marriott e il comando dei reparti speciali antiterrorismo (9 ottobre), rapito l’inviato dell’Unhcr John Solecki, ucciso il volontario americano Stephen Vance, sequestrato un diplomatico iraniano e un team di ingegneri cinesi, attaccato a Lahore (3 marzo) la nazionale di cricket dello Sri Lanka.
Quetta, nel Baluchistan, è la base operativa della guerriglia nel sud dell’Afghanistan. Da qui si alimentano le linee di rifornimento con i gruppi taliban afghani. E qui affluiscono i fondi raccolti dai finanziatori del Golfo persico. “La shura di Quetta” afferma il generale David Barno, consigliere del generale David Petraeus, “è il puntello ideologico dell’insurrezione”.
I taliban hanno stabilito una solida presenza nel sud e nord Waziristan, nel Bajaur e nel Mohmand. Ma nelle ultime settimane si sono impadroniti anche dell’agenzia del Khyber. Mangal Bagh Afridi, 35 anni, “emiro” della provincia, è oggi il boss incontrastato di una zona a solo un’ora di viaggio da Peshawar, che le sue milizie promettono di occupare entro l’autunno del 2009.
Sotto attacco è anche la principale via di rifornimento per i 38 mila militari americani sul fronte afghano. Ogni settimana partono da Karachi 500 container diretti al Khyber Pass e a Shamsi, in Baluchistan, dove decollano gli aerei teleguidati Predator: un’arteria cruciale, anche in vista dell’arrivo di altri 17 mila soldati e della ventilata chiusura della base di Manas, in Kyrgyzstan. Ma sempre più insicura. Duecento camion, Humvee e mezzi di trasporto blindati sono stati assaliti e bruciati: il 15 marzo a Peshawar, sono andati distrutti altri 13 veicoli.
Ancora più allarmante è l’ultimo rapporto della polizia di Karachi, secondo il quale “il network talibano si sta diffondendo al punto che potrebbe in qualsiasi momento prendere in ostaggio la capitale economica e commerciale del paese, infiltrata da gruppi estremisti che vi mantengono basi, depositi di armi e centri di reclutamento”.
La metropoli del Sindh, sede della Borsa, delle banche, dell’editoria e dell’industria high-tech, è una città assediata. I rari occidentali non si avventurano oltre i limiti dei quartieri presidiati dall’esercito dove sorgono le ville dei politici, dei tycoon della finanza, dei boss che gestiscono uno dei maggiori hub mondiali del traffico di eroina e dei rampolli dell’alta borghesia che frequentano i club di Clifton Beach. Fuori dalle enclave dei ricchi si allunga uno sterminato e informe agglomerato urbano: 15 milioni di abitanti in gran parte ammassati nei katchi abadi, miserabili bidonville senz’acqua, senza luce e senza fogne, sommerse da montagne di immondizia, dove la polizia non si azzarda a entrare. E dove le madrase integraliste, a lungo protette dall’Isi, continuano a proliferare: almeno 2 mila, moltissime affiliate alla scuola Deobandi, che predica la forma più estrema dell’islam radicale d’ispirazione wahhabita.
Karachi non è soltanto la città dove è stato decapitato l’inviato del Wall Street Journal Daniel Pearl e la base logistica da cui sono salpati gli attentatori di Mumbai. E’ una vera e propria fucina di jihadisti votati alla guerra santa globale. La Jamia Binoria, 20 edifici, due moschee, 5 mila studenti dagli 8 ai 28 anni provenienti da 29 paesi (tra cui Stati Uniti, Canada, Germania e Gran Bretagna), è retta dal maulana Mufti Muhammad Naeem, che riceve Panorama in un ufficio blindato da cui controlla, attraverso monitor e telecamere, ogni angolo del campus. “Bin Laden” esordisce “è una pedina degli americani. Qui si studia solo religione. Però voglio dirle una cosa: il governo pakistano non è islamico, non c’è giustizia per i poveri. Ora ci chiamano terroristi, ma quando i nostri studenti combattevano contro i russi in Afghanistan erano degli eroi”.
A poca distanza, su Jamshed Road, c’è un altro seminario: Jamia Uloom-ul-Islamiya. Alte mura, inferriate, uomini con la kefiyah saudita a scacchi bianchi e rossi, armati di Kalashnikov. Un labirinto di corridoi, sale di preghiera, aule piene di giovani barbuti che recitano il Corano a memoria. E’ il quartier generale di al-Qaeda a Karachi: qui nel 2000 Masood Azhar e Nizamuddin Shamzai hanno fondato il Jaish-e-Mohammed, che ha fornito i reparti di élite a Bin Laden. Da qui sono partite alcune delle audiocassette del terrorista saudita, che nel 2002 vi avrebbe soggiornato per ricevere cure mediche.
Nessuno accetta di parlare. E le guardie cominciano a innervosirsi. Mentre mi allontano un invasato seminarista mi afferra per un braccio: “Tienilo a mente: la guerra santa è un dovere per ogni musulmano!”