IVORY WARS
Tanzania, May 2016

La Land Rover s’infila in una pista fangosa tra l’erba alta della savana. È la stagione delle piogge: il cielo tra Ngorongoro e il lago Manyara è gonfio di cumuli grigi e il fuoristrada arranca tra le pozze d’acqua. “È in questi mesi che i bracconieri sono più attivi” dice il capo della pattuglia. “I turisti sono rari e c’è meno sorveglianza”. La jeep si ferma a poca distanza da un branco di elefanti. I Rangers caricano i fucili, attivano il gps e sciolgono i cani, che seguono le tracce fino a una radura circondata da acacie spinose. Il terreno è disseminato di ossa, femori, vertebre, costole, e in mezzo un cranio privo di zanne: i resti di uno dei 60 mila elefanti massacrati in Tanzania negli ultimi cinque anni.

In Africa è in corso una battaglia dai contorni opachi e di cui poco si parla: una guerra feroce, combattuta nell’ombra e dall’esito incerto. Firmando nel 2014 la Dichiarazione di Londra 46 Paesi si sono impegnati ad abolire il commercio di avorio e di corno di rinoceronte. Ma i maestosi pachidermi africani, sopravvissuti per milioni di anni, continuano a essere abbattuti su scala industriale, vanificando gli sforzi per salvarli dall’estinzione.

I bracconieri sono la manodopera a basso costo di un racket transnazionale che dispone di armi, coperture economiche, protezioni politiche, strutture logistiche e di una rete di contrabbandieri che alimenta un business da 20 miliardi di dollari l’anno: un fiume di denaro sporco che ingrassa i conti bancari delle organizzazioni mafiose cinesi e africane, diffonde il cancro della corruzione e finisce per finanziare le attività di alcuni dei gruppi terroristici più pericolosi al mondo. Tanto che il presidente americano Barack Obama ha più volte dichiarato di considerare il commercio illegale di avorio e di corno di rinoceronte una “minaccia globale alla sicurezza nazionale”, al pari del traffico di droga, di armi e di esseri umani.

I profitti sono stellari. Il corno di rinoceronte, come le unghie e i capelli umani, è fatto di cheratina e non ha alcuna proprietà terapeutica. Ma un chilo di polvere di corno, ritenuta in Cina e in Vietnam un miracoloso rimedio per una serie infinita di malattie, dal cancro all’impotenza sessuale, ha un valore medio di mercato di 80 mila dollari e può arrivare a 200 mila: molto più della cocaina, dell’oro e del platino. Il prezzo dell’avorio alla borsa nera, da alcuni mesi in calo, oscilla tra i 1.200 e i 2.400 dollari al chilo. Ciò significa che le zanne di un elefante adulto maschio, ciascuna del peso di circa 60-70 chili, possono valere più di 300 mila dollari.

In Asia e soprattutto in Cina, principale Paese importatore (il “fabbisogno” stimato è di 200 tonnellate/anno), la domanda di avorio è lievitata in modo esponenziale nell’ultimo ventennio: la crescita economica ha generato un esercito di consumatori assetati di beni di lusso, effimeri simboli dell’ascesa sociale dei nuovi ricchi. Nel 2006 la pressione di Cina e Giappone ha indotto il Cites, la Convenzione sul commercio internazionale delle specie in via d’estinzione, a infrangere il bando totale in vigore dal 1989 che aveva quasi del tutto eliminato il bracconaggio. A Tokyo sono state assegnate 50 tonnellate, e 60 a Pechino con la clausola di immettere sul mercato cinque tonnellate l’anno per 12 anni. “Le conseguenze della decisione del Cites sono state devastanti” spiega Malcom Ryen, biologo e ricercatore con base a Dar es Salaam. “La Cina ne ha approfittato per riciclare sotto banco altre 195 tonnellate l’anno, il prezzo è schizzato ai massimi storici, il bracconaggio è riesploso e gli elefanti africani, che un secolo fa erano cinque milioni, sono stati decimati. Oggi ne restano meno di 400 mila”.

Riconoscere l’avorio illegale da quello venduto legalmente è quasi impossibile. Gli Stati Uniti, nonostante le severe norme vigenti, sono – anche se a molta distanza dalla Cina – il secondo mercato mondiale e uno snodo fondamentale della filiera verso l’area del Pacifico. Obama ha firmato un ordine esecutivo che obbliga il Paese a intensificare la lotta al contrabbando e il 2 giugno il governo federale ha varato un bando quasi totale alla vendita di manufatti in avorio. Misure analoghe sono state promesse dal presidente cinese Xi Jinping. Ma in America si continua a commerciare avorio online per oltre 2,5 milioni di dollari al mese e la legge consente di importare avorio antico e oggetti d’arte: è facile per i trafficanti spacciare prodotti nuovi come pezzi di antiquariato.

Quantitativi non irrilevanti di avorio entrano nel circuito della devozione religiosa sotto forma di amuleti e statuette buddhiste, icone cattoliche, croci copte e rosari islamici. Ma l’oro bianco serve anche a finanziare il jihad e i gruppi armati, da Boko Haram ai Janjaweed del Darfur. I guerriglieri ugandesi del Lord’s Resistance Army di Joseph Kony, i bracconieri del Sud Sudan e le milizie congolesi hanno abbattuto migliaia di elefanti a colpi di Kalashnikov. E secondo l’Elephant action league il contrabbando di avorio proveniente dal Kenya procura agli islamisti somali di al-Shabab il 40 per cento dei fondi destinati all’acquisto di armi e alle attività terroristiche: tra i 200 mila e i 600 mila dollari al mese.

Le ramificazioni occulte e la dimensione globale del commercio di avorio, corno di rinoceronte e animali a rischio di estinzione sono ben descritte nel libro-inchiesta Killing for Profit del giornalista sudafricano Julian Rademeyer, che ha svolto un’indagine approfondita sul “Xaysavang network”, ritenuto da Washington “il più potente e prolifico racket internazionale dedito al contrabbando di avorio e di specie rare”. Il capo dell’organizzazione, su cui pende una taglia di un milione di dollari del dipartimento di Stato, è un laotiano che vive tra la capitale Vientiane e un compound fortificato in un villaggio sulle rive del Mekong: Vixay Keosavang, soprannominato “il Pablo Escobar del traffico di animali protetti”.

Come ogni boss mafioso, Keosavang mostra una faccia rispettabile: amministratore di una società di import-export (la Xaysavang), vicepresidente del comitato nazionale di nuoto e di boxe, interessi in un’azienda statale di costruzioni e contatti con la nomenklatura locale che lo rendono intoccabile. L’arresto in Sud Africa del suo più stretto collaboratore, Chumlong Lemtongthai, condannato a 30 anni di prigione, ha permesso di mappare almeno in parte le losche attività del racket: traffico di avorio e corno, di ossa di tigri e di leoni, di animali protetti come i pangolini, i cobra reali, i macachi. Un solo ordinativo riconducibile a Keosavang elenca 70 mila rettili, 20 mila tartarughe e 20 mila lucertole rare per un valore di 860 mila dollari.

L’avorio viaggia anche nelle valigie diplomatiche. Lo scorso anno il Sud Africa ha espulso un funzionario dell’ambasciata della Corea del Nord che trasportava sull’auto di servizio cinque chili di corno e centomila dollari in contanti. E l’EIA (Environmental Investigation Agency) ha documentato numerosi casi di diplomatici nordcoreani implicati nel traffico in Zambia e Zimbabwe. Ma sono i cinesi i big del contrabbando.

Zanzibar è nota alla Dea americana per essere uno hub del traffico di armi e di droga: eroina proveniente dal Pakistan e diretta in Europa; cocaina in transito dal Sudamerica verso l’Asia. Ma è anche, con Mombasa e Dar es Salaam, il principale porto di imbarco dell’avorio africano. A poca distanza da Stonetown, dove i turisti vanno in cerca della casa natale di Freddy Mercury e inseguono le fatiscenti vestigia dell’antico sultanato, i cargo ormeggiano a un molo di pietra piantonato da militari armati. Sulla banchina sono accatastati centinaia di container che nessuno controlla. “I trafficanti” spiega la direttrice dell’EIA Mary Rice “utilizzano società fittizie e operano attraverso agenti locali che corrompono poliziotti e doganieri. Tonnellate di avorio grezzo partono ogni mese per l’Estremo Oriente nascoste in container che ufficialmente trasportano merce legale”.

La strage dei pachidermi è in atto in tutto il continente. Paul Allen, il cofondatore di Microsoft, sta finanziando un censimento aereo i cui risultati preliminari sono sconfortanti. In dieci anni in Africa Centrale i bracconieri hanno sterminato più della metà degli elefanti. Nella Repubblica democratica del Congo gli esemplari rimasti non sono più di 7 mila: erano 100 mila nel 1980. Il Mozambico ha perso in soli cinque anni la metà dei suoi 20 mila elefanti, ammazzati a raffiche di mitra o avvelenati. In Sud Africa, che ha una popolazione di 21 mila rinoceronti (l’80 per cento del totale mondiale), il 2015 si è chiuso con un bilancio di 1,175 animali uccisi e con l’infausto annullamento della norma che vietava la commercializzazione del corno. Negli ultimi due anni il numero dei rinoceronti abbattuti è raddoppiato in Zimbabwe e quadruplicato in Namibia. Ma il killing field degli elefanti, il Paese dove il massacro è stato più sistematico e cruento, è la Tanzania, primo esportatore al mondo di avorio illegale.

Nel decennio 2005-2015, l’era del presidente J.K., Jakaya Kikwete, la Tanzania ha perso quasi il 70 per cento dei suoi elefanti. Nel traffico di avorio erano coinvolti ministri, parlamentari, membri del partito di governo, uomini d’affari, alti ufficiali dell’esercito e della polizia, lo stesso figlio del capo dello stato. Mentre gli arabi del Golfo ottenevano da J.K. vaste concessioni di caccia e l’autorizzazione a costruire strade e piste di atterraggio per i loro safari, gli elefanti venivano macellati a decine di migliaia: 30 mila in due anni solo nel Selous, un’area “patrimonio universale dell’Unesco” grande il doppio del Belgio che aveva la più vasta popolazione di elefanti dell’intera Africa. Nel parco del Ruaha sono scesi da 34 mila a meno di 8 mila. E ora si stanno intensificando gli attacchi nei parchi del nord: Tarangire, Lake Manyara e Serengeti, dove in gennaio i cacciatori di frodo hanno abbattuto l’elicottero che li stava braccando uccidendo il pilota, Roger Gower, in missione di pattugliamento.

Le strategie di contrasto messe in atto dalle Ong, dai governi, dai privati e dagli organismi internazionali sono molteplici. E le opinioni divergono. Gli allevatori sudafricani di rinoceronti affermano che per colpire il traffico illegale bisogna legalizzare il commercio di corno. Mike Angelides, presidente dell’Hunters’ Association di Arusha, sostiene che i veri conservazionisti sono i cacciatori: “È nel nostro interesse proteggere la fauna. E i proventi di una caccia sostenibile si possono investire nella salvaguardia dell’ecosistema”. C’è chi punta sulle tecnologie avanzate: radar, droni, sensori e satelliti per monitorare porti, strade, carichi e spostamenti sospetti. E chi invece è a favore di un approccio militare.

Sono sempre più numerosi gli ex incursori delle forze speciali britanniche, i marines reduci dall’Iraq o dall’Afghanistan e i mercenari delle compagnie di sicurezza private che in Africa hanno scoperto un nuovo campo di battaglia. Come l’australiano Damien Mander, che in Zimbabwe, Mozambico e Sud Africa addestra i Rangers nelle tecniche di reazione rapida e di assalto sperimentate a Baghdad.

Sparare a vista ai bracconieri è però un deterrente che non disturba più di tanto la mafia dei grandi trafficanti. La manovalanza si rimpiazza facilmente. I cacciatori di frodo sono talvolta professionisti dotati di fucili di precisione e di visori notturni in grado di abbattere un elefante con un solo proiettile e coadiuvati da squadre di scout e di specialisti nell’espianto delle zanne. Ma molto più spesso sono contadini poveri che cacciano per sfamare le famiglie e per arrotondare i magri guadagni vendendo carne di animali selvatici sul mercato locale: il racket non fatica a reclutarli.

I risultati più incoraggianti si ottengono con una strategia integrata. Damian Bell, che ad Arusha guida la fondazione Honeyguide, mi accompagna a Kakoi, un villaggio Masaai ai margini del Tarangire. Le mandrie di vacche e le greggi di pecore e capre si spingono fino al limite del parco. “Il bracconaggio” dice Damian “è solo una delle minacce che incombono sulla fauna selvatica. In Africa come in tutto il pianeta sono di gran lunga più importanti i danni all’ecosistema provocati dall’intrusione umana, dall’allevamento di bestiame, dall’agricoltura estensiva, dalle compagnie minerarie e dalla diffusione di piante e insetti nocivi”. Il Parthenium hysterophorus, “l’erba della carestia”, una pianta invasiva di origine americana importata in Kenya con gli aiuti alimentari, è un flagello che infesta e distrugge le coltivazioni, produce sostanze chimiche tossiche dannose per l’uomo e per gli animali e invade le aree protette.

Le comunità locali entrano inevitabilmente in conflitto con la fauna selvatica. Leoni e iene uccidono il bestiame, un elefante può distruggere in una notte un campo coltivato. “Noi interveniamo in tre modi” spiega Damian. “Procuriamo i mezzi per allontanare i predatori e i pachidermi (sistemi di protezione, potenti torce, razzi luminosi); dotiamo i Rangers di armi, veicoli, cani addestrati, binocoli, radio; e forniamo incentivi ai villaggi in cambio di informazioni sui bracconieri. Pastori e contadini sono i primi difensori dell’ambiente quando ne traggono un vantaggio economico”.

Babaetu Saitabau è il responsabile degli scout di Kakoi. “Gli elefanti” dice “si avvicinano ogni notte ai campi di mais e di sim-sim. Ma non è difficile scacciarli”. Se le torce e i razzi non bastano i volontari intervengono lanciando le “pili-pili bombs”, preservativi imbottiti di polvere di peperoncino in cui è inserito un detonatore: esplodono in aria rilasciando una nuvola urticante che mette in fuga i pachidermi. Un’altra difesa efficace sono gli alveari collocati attorno alle coltivazioni: gli elefanti hanno il terrore delle api e si tengono alla larga.

Contro il racket dell’avorio l’arma di gran lunga più efficace è l’intelligence. Michel Lanfrey, esperto di sicurezza con un passato nella Legione straniera, collabora con la Ntsciu, la task force anti-bracconaggio della Tanzania. La sua società, Askari Maritime, creata per combattere la pirateria somala e difendere le piattaforme off-shore, si è riciclata nell’attività investigativa. “Abbiamo un’estesa rete di informatori” racconta. “E non ci limitiamo a fare arrestare i bracconieri: il nostro obiettivo è smantellare il network criminale. Applicando le tecniche dell’anti terrorismo siamo riusciti a sequestrare ingenti quantitativi di armi e di avorio”.

Bruciare le zanne confiscate, come ha fatto il Kenya il 30 aprile dando fuoco a uno stock di 106 tonnellate, è un atto simbolico dal forte impatto mediatico. Ma per vincere la guerra dell’avorio è necessario mobilitare un ampio schieramento di forze. “Si deve agire su vari fronti” afferma Wayne Lotter della Pams Foundation, da anni sulla breccia. “I Rangers e gli apparati di sorveglianza nei parchi sono l’ultima linea di difesa della fauna. Ma l’attacco decisivo alla filiera dell’avorio dev’essere sferrato nelle città, dove possiamo colpire i capimafia e i loro protettori. In un anno, coordinandoci con la Ntsciu, abbiamo neutralizzato più di mille trafficanti e bracconieri”.

Il nuovo presidente John Pombe Magufuli, detto “il bulldozer”, sembra deciso a voltare pagina: ha licenziato dozzine di funzionari corrotti, molti dei quali sono stati incriminati per frode, e ha promesso di stroncare la piaga del bracconaggio, che nuoce all’immagine del Paese e danneggia il turismo. Poche settimane prima della sua elezione in novembre, la task force tanzaniana aveva già messo a segno due grossi colpi: l’arresto di Boniface Mariango, alias Shetani (“Demonio” in kiswahili), il bracconiere più ricercato dell’Africa orientale, responsabile dell’uccisione di migliaia di elefanti; e la cattura a Dar es Salaam della cinese Yang Fenglan, 66 anni, nota come la “Regina dell’avorio”.

Yang, boss di una rete criminale che ha spedito in Cina tonnellate di oro bianco, era approdata in Africa nel 1975 come interprete per la società che costruiva la ferrovia tra la Tanzania e lo Zambia. Nel 1998, dopo essere tornata un paio di volte a Pechino, aprì a Dar es Salaam il primo di una serie di ristoranti cinesi utilizzati come copertura per le attività del racket. Le zanne venivano tagliate nei retrobottega, imballate con prodotti ittici e merci generiche, consegnate a spedizionieri di fiducia e spedite in Cina dai porti di Zanzibar e della costa. Da oltre un anno, grazie a una soffiata, la task force e la Pams Foundation erano sulle sue tracce: controllavano i movimenti bancari, le comunicazioni telefoniche, i contatti web, i numeri di serie delle armi sequestrate. Yang, sentendosi alle strette, era fuggita in Uganda. Poi in ottobre, tornata a Dar per vedere la nipote, è stata finalmente intercettata.

Una battaglia è stata vinta. Ma in questa guerra il nemico più potente, e sempre più aggressivo, è il mercato: se la domanda di avorio non sarà arginata e se la domanda continuerà a superare l’offerta, la strage degli elefanti non si fermerà. Ad Arusha, qualche giorno prima di Natale, un sicario ha tagliato la gola di Emily Kisamo, un dirigente dell’ente nazionale dei parchi tanzaniani che stava preparando un rapporto con i nomi dei politici e dei funzionari pubblici implicati nel traffico di zanne. Il dossier non è mai stato ritrovato.