Iran vs Trump
Tehran, february 2020

Per celebrare il 41° anniversario della Rivoluzione islamica, martedì 11 febbraio, i sostenitori del regime degli ayatollah si sono riversati in massa nelle strade di Tehran sfoderando i consueti slogan: “morte all’America”, “morte a Israele”, “abbasso Trump”. C’erano i Bassiji, con la fronte fasciata dai versetti del Corano, le fanfare dell’esercito e dei Pasdaran, gli striscioni che promettono “dura vendetta”, le foto dei martiri, dell’imam Khomeini e del Rahbar, la Guida suprema Ali Khamenei. C’erano i mullah, gli impiegati statali, le scolaresche, le donne in chador, i disoccupati venuti a riempirsi le borse con il cibo distribuito gratis. Ma una larga parte della popolazione è rimasta a casa.

“Nessuno di noi è andato alla manifestazione” dice Zahra, primo anno di disegno industriale all’università di Tehran, che ogni pomeriggio si vede con gli amici e i compagni di corso in un caffè di piazza Fatemeh. “Nessuno di noi va in moschea. E nessuno di noi venerdì prossimo andrà a votare. Siamo stufi delle balle che ci raccontano, delle promesse non mantenute, dei politici corrotti, della repressione poliziesca. Per i giovani non c’è futuro in Iran. Tutti sognano di andarsene, in Europa o altrove”.

Lo scollamento tra la società civile e la teocrazia al potere è ormai incolmabile. L’80 per cento degli 83 milioni di iraniani è nato dopo il 1979, il 40 per cento ha meno di 25 anni e alla generazione Instagram, ai ragazzi che vivono e s’incontrano sui social, la retorica rivoluzionaria e le astruse alchimie della politica appaiono incomprensibili. Eppure, a dispetto del manifesto disinteresse per il voto, le elezioni del 21 febbraio per il rinnovo del parlamento e dell’Assemblea degli esperti, l’organo incaricato di designare il leader supremo, sono di cruciale importanza. Se i risultati confermeranno le previsioni degli analisti, i conservatori legati al clero e alle Guardie della rivoluzione avranno un ruolo chiave nella scelta del successore dell’ottantenne Rahbar, in declinante stato di salute.

“Sono pessimista” ammette Yasser Rafsanjani, figlio dell’ex presidente Hashemi Rafsanjani. “La società iraniana non è mai stata così divisa e se prevarranno gli oltranzisti non usciremo dalla palude in cui ci troviamo”.

Gli ultimi mesi sono stati tra i più drammatici nella storia della Repubblica islamica. In novembre i disordini per l’aumento del prezzo della benzina sono sfociati in un’aperta rivolta contro il regime, soffocata nel sangue: centinaia di morti, duemila feriti, settemila arresti. Il 3 gennaio, in un blitz ordinato da Donald Trump, un drone ha assassinato a Baghdad il generale Qasem Soleimani, comandante della Forza Quds dei Pasdaran e principale artefice della strategia iraniana in Medio Oriente.

Soleimani, stretto collaboratore di Khamenei, esperto conoscitore delle dinamiche regionali, rispettato in patria anche dai giovani e dall’opposizione, era una figura mitologica nell’universo sciita. Aveva saputo sfruttare a favore dell’Iran la disintegrazione delle strutture statali causata dai disastrosi interventi militari americani in Afghanistan e in Iraq; governava le milizie, i clan tribali e le fazioni religiose che esercitano il potere di fatto nel caotico teatro mediorientale; dialogava con Washington e forniva al tempo stesso armi e addestramento all’Hezbollah libanese e agli Houthi yemeniti. Se quel che resta dell’Isis ha festeggiato la sua morte definendola “un intervento divino”, è perché sono state le milizie sciite inquadrate dal generale iraniano a fermare nel 2015 i jihadisti alle porte di Baghdad e a contribuire in modo decisivo alla sconfitta del Califfato in Siria e in Iraq.

“L’omicidio di Soleimani” afferma il direttore del quotidiano Tehran Times, Mohammad Ghaderi, “rinforza i sentimenti antiamericani nel mondo sciita e avrà conseguenze negative per l’Occidente. L’Iran vendicherà la sua morte. E non cambierà la propria strategia in Medio Oriente”. La nomina del generale Esmail Qaani alla testa della Forza Quds segnala piuttosto uno slittamento su posizioni meno pragmatiche tra i Pasdaran e negli ambienti politici più ostili a Israele e Stati Uniti.

Le dimostrazioni di cordoglio per l’assassinio di Soleimani, con milioni di iraniani in piazza per le cerimonie funebri, hanno innestato la collaudata leva del nazionalismo, che ha catapultato il “martire vivente” nell’empireo della Rivoluzione accanto a Khomeini e alla Guida suprema. Ma la ritrovata solidarietà patriottica si è sgretolata con il missile che l’8 gennaio ha abbattuto il Boeing ucraino decollato dall’aeroporto di Tehran e scambiato per un aereo nemico. I maldestri tentativi di nascondere la verità e la tardiva ammissione di colpa hanno indignato l’opinione pubblica, stemperando la provvidenziale onda emotiva suscitata dalla morte del generale. L’icona del “martire vivente” non può del resto occultare la grave crisi in cui versa la Repubblica islamica.

Dopo avere affossato l’accordo del 2015 sul nucleare iraniano, Trump ha aperto il fuoco sull’economia del Paese imponendo pesanti sanzioni nei settori vitali degli idrocarburi, del credito, della difesa, dell’acciaio, del tessile e delle telecomunicazioni, in gran parte controllati dai Pasdaran e dalle Bonyad, le Fondazioni statali. Il meccanismo escogitato dall’Ue per aggirare l’embargo è rimasto sulla carta e le principali società europee hanno gettato la spugna. L’interscambio con l’Italia si è dimezzato. In due anni le esportazioni di petrolio sono scese da 2,3 milioni di barili al giorno a meno di 500.000, con una conseguente drastica riduzione delle entrate e delle riserve in valuta. E per il secondo anno consecutivo il pil registra una contrazione del 9,5 per cento a fronte di un allarmante crescita dell’inflazione e del tasso di disoccupazione, che tra i giovani raggiunge punte del 40 per cento.

Al Bazaar di Tehran, termometro dell’economia iraniana, l’atmosfera è plumbea. I turisti sono scomparsi e i mercanti di tappeti lamentano il crollo verticale degli affari. “Migliaia di prenotazioni sono state annullate” dice Navhad, impiegato in un’agenzia di viaggi. “Stimiamo un calo di due milioni di visitatori nei prossimi mesi”. I prezzi dei generi alimentari, come il pane e la carne, sono quadruplicati mentre il rial, la moneta locale, perde terreno: agli angoli delle strade i cambiavalute trattano euro e dollari al triplo del loro corso ufficiale. Alcuni farmaci sono introvabili e negli ospedali i medici devono adattare i protocolli delle terapie oncologiche ai medicinali reperibili in loco.

Khosroe, trent’anni di servizio nell’esercito, una moglie e due figli da mantenere, ha una pensione di 200 euro: “Per guadagnare un po’ di soldi mi alzo alle 5 del mattino e guido un taxi fino a notte. Intanto i nostri ragazzi non possono sposarsi perché non trovano un impiego e gli affitti sono saliti alle stelle”.

A sopportare il peso della crisi sono i giovani, la classe media, la gente comune che arriva a stento alla fine del mese. Ma il sistema economico è in grado di reagire. “Dopo 40 anni di sanzioni” spiega Hasan Forouzanfard, economista alla Camera di commercio e dell’industria, “abbiamo imparato a fronteggiare l’embargo con soluzioni autarchiche, riducendo le importazioni e diversificando la produzione nazionale. Siamo autosufficienti nell’energia, vendiamo gas in Turchia, abbiamo accordi con i Paesi dell’Asia centrale, con la Russia, l’India e con la Cina, primo partner commerciale. Siamo costretti a voltare le spalle all’Europa e a guardare a Est”.

Le vie del commercio, legale e informale, sono infinite. E gli iraniani sono maestri nell’arte di arrangiarsi. Il mercato è inondato da prodotti cinesi, di scarsa qualità ma accessibili, dalle lampadine ai pezzi di ricambio per le auto. Il greggio, acquistato da misteriose società d’intermediazione, continua a uscire dall’Iran e a viaggiare su petroliere che navigano con i trasponder spenti per sfuggire ai radar; i cargo trasportano acciaio, pistacchi, fertilizzanti, minerali. Per le transazioni si ricorre al baratto, merci contro merci, o a pagamenti cash in dollari e in rial.

Gli iraniani che non si fidano degli istituti di credito, travolti da una serie di scandali e di fallimenti, investono in valute virtuali. Barham, che vende smartphone in un negozio di piazza Firdousi, sorveglia su internet l’andamento dei Bitcoin. “Stamattina” dice “un Bit costa diecimila dollari. È il modo più sicuro per proteggere i risparmi. Lo fanno anche i mullah!” Chi può permettersi i prezzi delle boutique di Farmanieh, degli shopping center o del mercato nero non ha difficoltà a procurarsi beni di consumo e prodotti di lusso. Abiti firmati e cosmetici arrivano via mare da Dubai. Elettrodomestici e computer seguono le tradizionali rotte dei traffici clandestini con l’Iraq, il Kurdistan, la Siria e la Turchia. O con il Pakistan, dove i contrabbandieri baluchi vanno a vendere benzina e a caricare droga.

Alla campagna di “massima pressione” di Washington, Tehran oppone una strategia di “massima resistenza” economica, politica e militare: un antagonismo che rischia di esacerbare i conflitti regionali e di incendiare il Medio Oriente, a tutto vantaggio delle componenti più radicali del sistema politico iraniano. “I conservatori devono ringraziare la Casa Bianca” mi dice Masumeh Ebtekar, vice presidente della Repubblica islamica con delega alle donne e alle famiglie. “Facendo fallire l’accordo sul nucleare, inasprendo le sanzioni e assassinando il generale Soleimani, Trump ha bloccato il cammino delle riforme avviate dal presidente Hassan Rouhani. Boicottare le elezioni non serve: sono la strada obbligata verso la democrazia”. Ma gli iraniani che si apprestano a votare, e i molti che diserteranno le urne, hanno oggi una sola certezza: non ci sono alternative al regime degli ayatollah.