horn of china
È uno dei luoghi più inospitali del pianeta: una fornace di sabbia e di roccia lavica arroventata dal khamsin, il vento infuocato che soffia dal deserto. Agli albori del secondo millennio Gibuti, un fazzoletto di soli ventitremila chilometri quadrati schiacciato tra l’Etiopia e la Somalia, abitato da tribù nomadi e da un’esigua popolazione urbana, non era che uno scalo marittimo secondario all’imboccatura del Mar Rosso. L’economia dell’ex “Territorio degli Afar e Issa”, ultimo possedimento francese in Africa a ottenere l’indipendenza nel 1977, ruotava stancamente sul commercio del khat, sulla zona franca del porto dove si aggiravano contrabbandieri, trafficanti d’armi, prostitute, avventurieri in cerca di facili guadagni e sulla presenza della Tredicesima Demi-brigade della Legione straniera, che nell’infernale depressione dancala manteneva un massacrante campo d’addestramento.
Al letargo di Gibuti, raccontato da Dino Buzzati nel 1939 in uno dei suoi primi articoli come corrispondente di guerra del Corriere della Sera, pose fine all’improvviso Osama bin Laden quando l’11 settembre 2001 i suoi kamikaze distrussero le Torri gemelle di New York. Il Pentagono individuò subito in Gibuti l’avamposto ideale per allestire la prima base americana per le operazioni antiterrorismo in Africa e nel Medio Oriente. Pochi mesi dopo i giganteschi cargo dell’US Air Force cominciarono a scaricare uomini e mezzi nel sonnolento aeroporto gibutino.
A due passi dalla pista di atterraggio, Camp Lemonnier è una distesa di prefabbricati e installazioni militari difese da barriere di cemento armato e chilometri di filo spinato. Affittata per 63 milioni di dollari l’anno, quella che è oggi l’unica base americana nel continente africano è in poco tempo cresciuta in dimensioni e in importanza, anche in seguito al ritiro del contingente statunitense dall’Iraq e alla riduzione delle truppe schierate in Afghanistan. Il perimetro della base, che nel 2002 abbracciava 40 ettari, ne include ora più di 250. E il numero dei militari e dei contractors è aumentato di sette volte fino a 4.500, di cui duemila in forza ai reparti speciali antiterrorismo e 150 nell’unità di intervento rapido per la protezione delle ambasciate, creata dopo l’attacco del 2102 alla sede diplomatica americana di Bengazi, in Libia.
Diversi fattori hanno poi concorso ad accrescere ulteriormente la funzione strategica di Camp Lemonnier, che nel 2013 ha ricevuto dal Pentagono uno stanziamento straordinario di 1,4 miliardi di dollari: l’instabilità causata dalle “primavere arabe”, la guerra civile in Siria e in Yemen, l’insorgenza dello Stato islamico, la permanente conflittualità in Somalia, la recrudescenza della pirateria nel Mar Arabico e nell’Oceano Indiano. Da Gibuti decollano ogni anno migliaia di droni, Predators e Reapers utilizzati in missioni segrete contro obiettivi nel Corno d’Africa e in Medio Oriente, dai miliziani di al-Shabab in Somalia alle postazioni di al-Qaida in Yemen.
A Gibuti non ci sono soltanto i GI americani. Negli alberghi e nei bar della città vengono in licenza i militari sbarcati dalle navi della task force Atalanta, l’operazione anti-pirateria finanziata dall’Ue, che vede il nostro Paese impegnato con una dozzina di unità della Marina. Nel 2013 l’Italia ha inaugurato a Gibuti una base operativa di supporto interforze in grado di ospitare fino a trecento uomini. La Francia ha recentemente deciso di rafforzare il proprio contingente, che si avvale di millenovecento militari, di una squadriglia di Mirage e di elicotteri d’attacco. Il Giappone ha costruito qui la sua prima base militare all’estero dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Ci sono inoltre i tedeschi, gli olandesi, gli spagnoli, i russi, gli inglesi.
I quindicimila militari occidentali di stanza a Gibuti sono un’insperata manna per la piccola e impoverita repubblica africana, che di solo affitto per le basi incassa più di cento milioni di dollari l’anno. E non è tutto. Sull’arida costa del golfo di Tadjoura sta per sbarcare anche l’Esercito della Repubblica popolare cinese: la base aeronavale in costruzione, l’unica oltre i confini del nuovo Impero di Mezzo, accoglierà più di cinquemila soldati e alle sue banchine potranno attraccare grandi navi da guerra.
Il presidente gibutino Omar Guelleh, al potere dal 1999, non poteva rifiutare l’allettante proposta del suo omologo di Pechino Xi Jinping, accompagnata da un sostanzioso assegno e dalla promessa di nuovi investimenti. Ma è una mossa che ha irritato Washington. Per la prima volta le due superpotenze planetarie, in competizione strategica nel Mar cinese meridionale e ora con Donald Trump alla Casa Bianca ai ferri corti sui dossier della Corea del Nord e degli scambi internazionali, avranno i rispettivi distaccamenti operativi a una manciata di chilometri l’uno dall’altro. E i cinesi potranno osservare da vicino le attività militari americane sui teatri del Nord Africa e della Penisola arabica.
La testa di ponte gibutina, d’altra parte, è l’inevitabile corollario della lunga marcia di Pechino nel continente africano, dove è in assoluto il primo partner commerciale, e del proposito annunciato da Xi Jinping di fare della Cina una potenza d’oltremare. Gibuti, piazzaforte a guardia del Mar Rosso e dell’Oceano Indiano, è oggi il punto focale degli interessi cinesi nella regione. Dallo Stretto di Bab al-Mandeb, la Porta delle Lacrime, transita la metà dell’import cinese di petrolio, assieme al 40 per cento del traffico marittimo mondiale. E grazie ai prestiti agevolati e ai capitali cinesi il desolato avamposto della Legione straniera sta cambiando volto.
Il lungomare è tutto un cantiere. Sul litorale di Doraleh i cinesi, che hanno acquisito il 25 per cento del porto commerciale, hanno costruito il nuovo terminal petrolifero, uno scalo container e stanno completando un gigantesco porto multifunzionale. Ai moli dove un tempo ormeggiavano solo vecchie carrette e sambuchi semiaffondati attraccano ora grandi navi cargo e moderne petroliere: una porta sul mondo per centinaia di milioni di africani senza accesso al mare e al commercio internazionale. Maestranze cinesi stanno realizzando strade, due aeroporti, alberghi, banche, centri commerciali, una conduttura che porterà acqua potabile dall’altopiano etiopico, impianti eolici e solari. Sette cavi sottomarini di fibra ottica, intanto, hanno già trasformato Gibuti nel principale hub informatico della costa orientale dell’Africa.
Nella città vecchia le facciate corrose dalla salsedine degli edifici coloniali sono assediate dalle ruspe. Il Palmier en zinc, famoso ritrovo di legionari e viaggiatori, è diventato un fast food. E persino La Chaumière, storico ristorante in piazza Menelik, è di proprietà di un cinese, Abouye Wang, che offre un menu di piatti europei e cantonesi alla variegata clientela che affolla il locale.
Nella soffocante controra, quando il monsone satura l’aria di umidità e i gibutini si chiudono in casa a masticare il khat, la terrazza ombreggiata della Chaumière ricorda il Rick’s Bar della Casablanca di Humphrey Bogart: si popola di imprenditori italiani, diplomatici francesi, militari tedeschi, uomini d’affari americani, contractors, agenti segreti. Anche se non mancano i rischi. Nel 2014 due kamikaze di al-Shabab si sono fatti esplodere nel ristorante mandandolo in frantumi e uccidendo tre clienti. Ma Wang ha subito riaperto e oggi registra un numero crescente di volontari delle Ong e di funzionari delle agenzie dell’Onu, che rappresentano un’altra fonte di reddito per le casse dello stato. Gibuti, circondato da Paesi in guerra, è la base logistica per le missioni di aiuto umanitario e accoglie un flusso ininterrotto di rifugiati: somali, etiopici, eritrei e yemeniti che languono nei campi profughi allestiti dall’Unhcr ad Ali Sabieh e a Obock.
Se il boom economico gibutino non ha ancora prodotto significativi benefici sociali (la disoccupazione è al 60 per cento, l’analfabetismo al 45), le nuove infrastrutture stanno rivoluzionando la rete degli scambi commerciali regionali. Soprattutto per la confinante Etiopia, Paese di cento milioni di abitanti senza sbocco sul mare il cui import-export passa al 90 per cento per i porti di Gibuti.
“Beca 12”, tra le baracche di lamiera e le catapecchie della bidonville di Balbala, è la sterminata rimessa dei camion etiopici che fanno la spola tra Addis Abeba e Gibuti: tre giorni di viaggio su strade accidentate, pieni di caffè e di arachidi all’andata e di carburante, pezzi di ricambio, macchinari, aiuti alimentari al ritorno. Ce ne sono più di tremila, allineati nel piazzale in attesa del carico: un dispendioso e inefficiente collo di bottiglia. Ma a risolvere il problema ci ha pensato ancora una volta la Cina, finanziando il 70 per cento della nuova linea ferroviaria elettrificata Addis-Gibuti: 760 chilometri costruiti in tre anni e mezzo e costati quattro miliardi di dollari.
Inaugurata in gennaio, la ferrovia con elettromotrici e vagoni made in China entrerà in funzione prima dell’estate riducendo i tempi di percorrenza a meno di dodici ore: sarà gestita per cinque anni da una società cinese; sui treni passeggeri gli altoparlanti annunceranno le stazioni amarico, inglese, cinese; cinesi saranno i macchinisti, le hostess, i controllori; e in stile pechinese è anche la grande stazione di Nagad, alla periferia di Gibuti, con annesso lo scalo merci collegato al porto di Doraleh.
La nuova linea sostituisce la decrepita ferrovia a scartamento ridotto costruita dai francesi all’inizio del secolo scorso, da molti anni in disuso. Nel 1991 mi era capitato di salire su un convoglio del vecchio “Chemin de Fer Djibouto-Ethiopien” che attraversava l’Etiopia in guerra nei giorni della caduta del colonnello Menghistu. La stazione da cui ero partito, un’elegante edificio coloniale nel centro di Gibuti, si sta disfacendo. Gli uffici sono deserti. I balconi di legno e le persiane marciscono. I binari sono stati divelti e venduti come ferraglia. I vagoni arrugginiscono, mangiati dal sale. E nei depositi dei locomotori bivaccano i migranti e gli sbandati.
Youssuf, un elettricista che per quasi trent’anni ha lavorato per la compagnia dei treni, è l’ultimo guardiano senza stipendio della stazione. “Da qui” dice con tristezza “è passato un secolo della nostra storia, dalla colonia all’indipendenza. Adesso tutto è cambiato. E ormai anche in Africa il futuro appartiene alla Cina”.