Gangland
Haiti, feb. 2023

È un giorno come un altro a Port-au-Prince. Gli spari sono cominciati all’alba e sulla città ristagnano i miasmi dei copertoni in fiamme. Uomini col volto mascherato, muniti di pistole, mitra e coltelli, hanno preso d’assalto l’aeroporto e le stazioni di polizia. Scuole, uffici e negozi sono chiusi. Le strade sono interrotte da barricate e veicoli ribaltati: si passa solo in moto, a tutto gas per evitare i proiettili vaganti.

All’improvviso Yvon, che è alla guida, rallenta e mi fa un cenno: in mezzo all’incrocio arde un tizzone che sprigiona un fumo azzurrognolo, intorno gente che tracanna birra e sghignazza. “Che c’è di strano?” mi chiedo. “Ci sono ovunque pneumatici carbonizzati”. Ma l’odore non è quello della gomma fusa. Guardo meglio: la sagoma di un cranio, due bracci contorti. È un corpo umano che brucia. “Sarà stato un ladro” dice Yvon. “O un tizio che ha sconfinato nel territorio di un’altra gang”.

Haiti è la Somalia dei Caraibi: uno stato fallito che precipita nel baratro dell’anarchia e di una violenza efferata. I gruppi armati, legati a doppio filo al regime di turno, ai trafficanti di droga e ai clan che sfruttano le scarse risorse locali, sono una piaga endemica, ma nel vuoto di potere seguito all’assassinio del presidente Jovenel Moïse nel luglio 2021 si sono moltiplicati e consolidati. Le gang hanno finito per impadronirsi di gran parte della capitale e di un Paese che da quasi due anni è senza un capo di stato, senza un parlamento funzionante, con una magistratura corrotta e un premier, Ariel Henry, non eletto e impopolare.

La storia di Haiti è un inventario di sciagure: lo schiavismo nelle piantagioni francesi di zucchero, le sanguinose rivolte anticoloniali, l’occupazione americana (1915-1934), la trentennale dittatura dei Duvalier, Papa Doc e Baby Doc, che tra il 1957 e il 1986 si servirono dei famigerati Tonton Macoute per reprimere il dissenso, una serie infinita di colpi di stato, il terremoto del 2010 che causò enormi distruzioni e più di centomila morti, gli uragani, le funeste epidemie di colera. E oggi la cruenta guerra tra le bande mafiose che si contendono il territorio.

Le gang, circa duecento nella capitale, sequestrano ministri e cittadini inermi per ottenere il riscatto, estorcono il pizzo alle imprese commerciali, alle compagnie di trasporti e ai venditori ambulanti, controllano il porto, gestiscono il flusso delle merci e del carburante, presidiano le vie di comunicazione dove miliziani imbottiti di ciment, un miscuglio di marijuana, acquavite e amfetamine, improvvisano posti di blocco per rapinare i camionisti. Persino gli operatori delle organizzazioni umanitarie e delle agenzie dell’Onu devono negoziare con i capi delle gang il transito nelle “zone rosse”.

I feriti d’arma da fuoco riempiono i reparti dell’ospedale di Medici senza frontiere nel quartiere di Tabarre. Evana, 36 anni, è da due mesi in terapia intensiva: due proiettili le hanno perforato il fegato e l’addome. A Pierre Louis, ambulante di 37 anni, è stata amputata una gamba: “Mi hanno sparato a bruciapelo, senza motivo, mentre andavo al mercato. Come farò a lavorare? Ho 5 figli da mantenere”.

Solo nel 2022 – escluse le vittime di una nuova ondata di colera – la Rete haitiana per la difesa dei diritti umani ha contato quasi tremila morti, tra cui 8 giornalisti e la suora italiana Luisa Dell’Orto, assassinata nella baraccopoli dove si prendeva cura dei restavek, i bambini-schiavi venduti dai contadini poveri a famiglie benestanti che li impiegano in lavori pesanti non remunerati.

Ai piedi della collina di Pétionville, il distretto dei bianchi e dei ricchi mulatti, dei centri commerciali e delle ville-bunker dei politici e dei narcos, si spalanca una metropoli di tre milioni di abitanti, ostaggi della paura e della mizé, la miseria : un inferno che si cela in ammassi di baracche dai nomi celestiali, Village de Dieu, Cité L’Eternel, Cité Soleil; quartieri che al tramonto sprofondano nel buio; chabolas, bidonville, dove la polizia non mette piede. Una città trasformata in un campo di battaglia, brutalizzata e assediata dalle gang.

La zona sud è il feudo di “Izo”, leader del gruppo “5 Segonn” (cinque secondi), gangster-rapper che spopola su YouTube con titoli come Mafia Love. A nord imperversano i “400 Mawozo” (gli Storpi) capitanati da “Lanmò San Jou” (“la morte non dà appuntamento”), che gestiscono il contrabbando e i traffici illeciti con la confinante Repubblica Dominicana. Ma il boss più potente, il capo di una federazione di una ventina di gang chiamata “G9 an Fanmi e Alye” (“famiglia e alleati”) è oggi Jimmy Chérizier, detto “Barbecue” o BBQ.

Ex poliziotto per molti anni sul libro paga del partito al potere Tèt Kale e dell’oligarchia haitiana, Barbecue è stato sanzionato con voto unanime dal Consiglio di sicurezza dell’Onu per il suo coinvolgimento in alcuni dei più efferati crimini degli ultimi anni: il massacro del 2018 a La Saline, quando ancora vestiva la divisa e pianificò un raid conclusosi con l’assassinio di 71 civili e la distruzione di 400 abitazioni; l’incendio del 2019 nel quartiere di Bel Air in cui morirono 24 persone; la battaglia in corso contro i rivali della gang G-PEP a Cité Soleil, che ha finora un bilancio di oltre 400 morti, almeno 50 donne stuprate, una ventina di miliziani bruciati vivi e tremila residenti costretti alla fuga.

Lo incontro nel suo covo a Delmas 6, un intrico di vicoli sorvegliati da uomini armati. Maglia giallo canarino, al collo un simbolo massonico, il boss riceve all’aperto seduto su una branda, attorniato dalle guardie del corpo e da due cani lupo incatenati che ringhiano agli sconosciuti. Da buon mafioso Barbecue si atteggia a protettore della povera gente e respinge ogni addebito: “Le accuse contro di me sono tutte menzogne. Io me ne fotto delle sanzioni. I veri criminali sono i politici corrotti che consentono al 5 per cento degli haitiani di possedere il 90 per cento della ricchezza del Paese. Noi non siamo banditi, lottiamo perché tutti possano avere il cibo, l’acqua potabile, una casa decente”.

Da criminale a leader politico il salto è breve ad Haiti. BBQ controlla gran parte dell’elettorato della capitale e le infrastrutture chiave della città. Per due volte, nel 2021 e lo scorso settembre, ha bloccato il terminal petrolifero di Port-au-Prince paralizzando l’intera economia: per riaprirlo, dice, ha imposto “condizioni che il governo non poteva rifiutare”.

A Cité Soleil si entra solo a piedi o in moto. Le auto non passano perché gran parte dello slum è sommerso da montagne di spazzatura e inondato da fetidi liquami, fiumi di putrida melma che scendono dai quartieri alti e si accumulano nella più grande e miserabile bidonville di Port-au-Prince: l’ultimo girone, il più disperato. Non c’è corrente elettrica, non c’è acqua potabile, non ci sono fognature. Nei cortili spuntano le croci di Baron Samedi, la divinità vudu dei morti: l’iwa, lo spirito, che può impedire all’anima dei defunti di tramutarsi in zombi. Davanti alle baracche di lamiera allagate le donne scaldano minestre di foglie e radici su fuochi di carbone e lavano i panni nei canali di scolo: il colera fa strage di bambini.

La “var”, la linea che separa i territori delle due gang in lotta, è una fila di catapecchie vuote e crivellate di colpi nel settore Brooklyn, dove padre David Fontaine si affanna a trasportare i feriti, a confortare le vedove, a sfamare gli indigenti e i figli di nessuno. “Avvengono episodi di una crudeltà demoniaca” racconta. “I banditi sequestrano una famiglia, tengono fermo il padre mentre stuprano la madre e violentano i bambini. Poi uccidono uno dopo l’altro i bambini, la madre e il padre, li fanno a pezzi e li gettano tra i rifiuti”. I carnefici godono di un’impunità assoluta.

Lo stupro è un’arma largamente impiegata dalle milizie per traumatizzare la popolazione, riducendola all’obbedienza e al silenzio: Msf assiste ogni mese oltre cento vittime di violenza sessuale. Come Nathalie, stuprata mentre andava in cerca di un po’ d’acqua potabile, che ha deciso di affidare tre dei suoi quattro figli a un orfanotrofio: “Almeno lì sono al sicuro” dice. “Non rischiano di finire in una gang”.

I sopravvissuti sono senza speranza. Maria è incinta del settimo figlio: “Ho perso tutto. La mia casa è bruciata, mio marito è stato ammazzato, uno dei miei bambini è morto di colera. Non ho un lavoro, non ho nemmeno un posto per dormire”. Adeline, che a 20 anni ha avuto 4 figli da 4 uomini diversi, è malata di tubercolosi, anemica e denutrita come il suo bambino che a due anni non riesce ancora a camminare: “Sono sola. Dormo per terra. I miei genitori sono morti. Chiedo l’elemosina. Non ho niente da mangiare”. Jessica è troppo debole per allattare Taisha, 4 mesi: “Le mie mammelle sono vuote. Mio marito è stato ucciso sei mesi fa, non ha mai visto Taisha. Sono sola con tre bambini da nutrire. Guadagno qualche gourde come sguattera, ma non è mai abbastanza”.

L’intero sistema socio-economico del Paese è in rovina. La mortalità materno infantile è tra le più elevate al mondo. La disoccupazione e l’analfabetismo sfiorano l’80 per cento. Mentre ministri, deputati, alti ufficiali, giudici e magistrati collusi con le gang si arricchiscono truccando gli appalti, rubando e trafficando cocaina negli Stati Uniti, metà degli haitiani patisce la fame, gli ospedali pubblici sono senza medici e medicine, le carceri sono stracolme di detenuti che attendono per anni di essere processati e molti poliziotti, con salari esigui e saltuari, finiscono per accettare il soldo garantito dei gruppi armati.

Le organizzazioni umanitarie fronteggiano l’emergenza superando gravi rischi e immense difficoltà logistiche: in marzo il numero dei pazienti con ferite d’arma da fuoco nel centro d’emergenza di Msf a Turgeau è decuplicato e la clinica, investita dai violenti scontri, è stata evacuata.

“La situazione sanitaria è sempre più deteriorata” afferma la dottoressa Pascale Gassant, direttrice dell’ospedale pediatrico Saint Damien, finanziato per il 37 per cento dalla Fondazione Francesca Rava. “Mancano ossigeno, farmaci, carburante. Abbiamo l’unico reparto oncologico del Paese con più di 800 bambini in cura, ma ci sono solo due medici: quasi tutto il personale è fuggito all’estero”.

A Wharf Jérémie, feudo di “roi Mikanò”, il boss locale alleato di BBQ che controlla i moli del porto vecchio, l’ong italiana Cesvi riesce ancora a tenere aperta la Casa del Sorriso, scuola e centro ricreativo per 430 alunni dai 3 ai 20 anni. “Siamo arrivati dopo il terremoto del 2010” racconta Hondy, che gestisce la struttura. “Qui intorno c’era una discarica nota come “il mattatoio”: era il posto dove ammazzavano la gente. In classe ci sono ragazzini di 14 anni affiliati alle gang. È la speranza di poter cambiare qualcosa che ci fa resistere. Tre dei nostri studenti sono oggi all’università”.

Nessuno sembra in grado di ristabilire un livello accettabile di sicurezza. Stati Uniti ed Europa sono risucchiati nel conflitto ucraino. I Paesi donatori hanno mobilitato mezzi e risorse per soccorrere le vittime del terremoto in Turchia. E la missione dei caschi blu dell’Onu (2004-2019) è ricordata soprattutto per gli abusi sessuali e per il vibrione del colera importato dalle truppe nepalesi. Eppure un intervento militare, invocato finora senza successo da Ariel Henry e dal segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres, è per molti haitiani l’unica soluzione possibile.

Ne è convinto anche Rick Frechette, medico e missionario passionista che da quarant’anni si occupa dei bambini di strada e degli orfani di Port-au-Prince, dove ha aperto 34 scuole: “In pochi mesi un contingente internazionale di forze speciali anti terrorismo può neutralizzare i leader dei gruppi criminali. Ma ai membri delle gang è indispensabile offrire un’alternativa di vita: istruzione e incentivi economici in cambio della consegna delle armi”.

Padre Rick non si dà per vinto: produce e distribuisce ossigeno per gli ospedali, pane, caffè, uova, cioccolata, pasta di arachidi per i denutriti; ha un’officina meccanica, una falegnameria, un magazzino pieno di farmaci e attrezzature sanitarie. Ma non può più andare, come faceva ogni giovedì, a raccogliere i cadaveri senza nome negli obitori e nelle discariche della città per dare loro una degna sepoltura. Ne caricava camion interi, in bare di cartone, e li deponeva in tombe comuni in un campo sulla strada per Gonaive, mentre la fanfa, una fanfara di ottoni, intonava un coro verdiano. Ora quel campo è nel territorio di una gang.