Exodus
Venezuela, March 2021

Sulla ruta de los migrantes, la strada dei migranti che dal confine venezuelano sale fino ai 3.500 metri del Paramo de Berlín e poi, per centinaia di chilometri, attraversa le foreste e le sierras colombiane, un intero popolo è in cammino. Donne con i neonati al collo. Bambini che si tengono per mano. Uomini che spingono carrelli con il cibo di sussistenza, acqua, latte in polvere, scatole di sardine, e nello zaino si portano dietro quel che resta delle loro vite: una foto di famiglia, l’indirizzo di un parente a Lima o a Buenos Aires, un maglione, un paio di scarpe.

Sono contadini, operai, infermieri, disoccupati, musicisti, studenti, insegnanti, avvocati, ex militari, bottegai, autisti, ingegneri, imprenditori, manovali: in sette anni sei milioni di venezuelani hanno abbandonato il loro Paese e quasi due milioni si sono riversati in Colombia. È un flusso infinito, il più grande esodo nella storia recente dell’America Latina.

“Ho 25 anni” dice Eduardo “e facevo il parrucchiere. Ma a Caracas non c’è più lavoro, ci hanno portato via tutto. Vado in cerca del mio futuro”. “Io vado in Perù” spiega Manuel. “All’ospedale di Maracaibo mi pagavano meno di due dollari al mese. Al mese! Non riuscivo a nutrire i miei figli”.

A Pamplona la strada si fa ripida e a piedi ci vuole una settimana per raggiungere Bogotà. Eylyn e Marta Duque hanno trasformato la loro casa in un rifugio: cucinano riso e lenticchie, regalano bibite e vestiti usati. “Su al Paramo si muore di freddo, piove spesso e non ci sono ricoveri” dice Eylyn. “Non so come faranno”. Accucciati sotto un ponte i caminantes si preparano a passare la notte avvolti in coperte e fogli di plastica. Una donna, per scaldarsi, sta bruciando fasci di banconote venezuelane. “Sono carta straccia” racconta. “Con i bolivares è impossibile mandare i bambini a scuola, comprare le medicine, trovare da mangiare. Tutto ormai si paga in dollari da noi”.

È il paradosso del Venezuela di Nicolás Maduro. A più di vent’anni dalla Rivoluzione che avrebbe dovuto liberare il Paese dai tentacoli dell’Occidente e dalla schiavitù del mercato, la valuta americana si è presa una clamorosa rivincita. Le minacce di Donald Trump, la rivolta capeggiata da Juan Guaidó, i tentativi di golpe, le dure sanzioni imposte dalla Casa Bianca non sono riuscite a piegare il regime. Ma di fronte a un’iperinflazione che ha ridotto la popolazione alla fame e a una contrazione del Pil di oltre l’80 per cento, il successore di Hugo Chávez ha dovuto arrendersi al biglietto verde promulgando una serie di norme che sanciscono la dollarizzazione dell’economia: un capitalismo selvaggio sembra avere rimpiazzato l’agonizzante socialismo bolivariano.

Due terzi di tutte le transazioni finanziarie sono ormai contabilizzate in valute estere e quasi tutte in dollari, la “moneta criminale” che la propaganda chavista incolpava del naufragio economico del Paese e che ora viene ritenuta una necessaria “valvola di sfogo” per stimolare il commercio e attirare capitali stranieri. “Non c’è contraddizione tra dollarizzazione e rivoluzione” sostiene Maduro.

I tempi sono decisamente cambiati dall’epoca d’oro di Chávez, quando la manna petrolifera consentiva allo stato di espandere la spesa pubblica mantenendo il controllo dei prezzi e regolando il tasso di cambio del bolivar, allora una delle monete più forti del continente. Dopo il 2013 le quotazioni del barile di greggio sono scese fino a dimezzarsi, innescando una crisi irreversibile. Oggi, nel Paese con le più grandi riserve d’idrocarburi al mondo, molti beni di largo consumo sono spariti dagli scaffali, i generi di prima necessità sono spesso reperibili solo alla borsa nera e a costi esorbitanti, le scorte valutarie sono ridotte al lumicino e la rovinosa svalutazione del bolivar ha azzerato il potere d’acquisto dei lavoratori. Solo nell’ultimo anno l’inflazione accumulata ha toccato il 6.640 per cento: un dollaro vale 1.889.000 bolivares, poco più di un caffè al bar, e il salario minimo non supera i 2.400.000 bolivares, un dollaro e 27 centesimi, di cui la metà in buoni alimentari.

I dollari, che molte famiglie venezuelane nascondevano sotto il materasso per gli imprevisti o per procurarsi medicinali sottobanco, sono diventati d’uso corrente quando i numerosi blackout provocati dal collasso delle forniture elettriche hanno reso impossibili i pagamenti con carte di credito. Negozi, imprese private e persino i venditori ambulanti hanno cominciato ad accettare le banconote illegali, costringendo il governo a correre ai ripari.

Dopo avere legittimato la circolazione della valuta americana e l’apertura di conti correnti in dollari, Maduro ha poi annunciato un ambizioso piano di digitalizzazione: tutti i pagamenti, compresi i trasporti pubblici, dovranno essere effettuati con sistemi elettronici. Ma il passo più significativo è stato un altro.

Lo scorso novembre il governo ha per la prima volta autorizzato un’impresa privata a emettere obbligazioni in dollari sul mercato venezuelano. Santa Teresa, la principale industria produttrice di rum, potrà in questo modo raccogliere i capitali per realizzare nuove distillerie al di fuori del controllo dello stato ed evitando la scure dell’inflazione galoppante.

In assenza di una politica economica coerente e condivisa, tuttavia, le misure adottate da Maduro rischiano di alimentare un capitalismo anarchico e clientelare che finisce per favorire gli speculatori e i fiancheggiatori del regime, mentre il 96 per cento dei venezuelani è condannato a vivere al di sotto della soglia di povertà: di sicuro, i caminantes che attraversano illegalmente le frontiere del Paese non dispongono di dollari da investire.

Al valico di La Parada la polizia colombiana mi accompagna nelle trochas, i tortuosi sentieri del contrabbando che i profughi devono percorrere da quando, all’inizio della pandemia di Covid, il confine è stato sigillato. In questa terra di nessuno sono in agguato gruppi armati e bande criminali che impongono il pedaggio, derubano i migranti e stuprano le donne. Chi non ha l’energia e i mezzi per proseguire si riduce a elemosinare o si rifugia nella droga: bastano pochi pesos per una pipa di bazuco, un micidiale miscuglio di pasta di coca, solventi, metanolo, acido solforico e benzina. Per sopravvivere, migliaia di giovani venezuelani sono costretti a vendere sesso sui marciapiedi e nei bordelli delle città di frontiera.

Mariangel, arrivata nel 2019 da Maracay, un’ora d’auto da Caracas, si prostituisce per 30.000 pesos (8 dollari) in una calle di Cúcuta. “Ho 26 anni” dice. “Ma ci sono anche ragazzine di 12-13 anni. È un brutto mestiere, ci sono clienti ubriachi, sudici, violenti, però è l’unico che posso fare. Devo crescere le mie due bambine e mandare un po’ di soldi a casa”.

Le rimesse degli emigranti sono un’ancora di salvezza per chi ha molte bocche da sfamare. E sono soprattutto le donne a sopportare il peso dell’indigenza. Il disastrato servizio sanitario, che ha già perso la metà dei suoi 30 mila medici, non è più in grado di distribuire gratuitamente i contraccettivi, reperibili al mercato nero a prezzi proibitivi: un profilattico costa quanto il salario minimo, le pillole anticoncezionali tre volte tanto. Milioni di donne devono così affrontare gravidanze indesiderate e aborti clandestini ad alto rischio.

“È un Paese distrutto, ostaggio di una dittatura corrotta. L’opposizione è divisa. La gente è stanca, disperata: pensa solo a scappare”. Non si fa illusioni Omar Lares, ex sindaco di Ejido, nello stato di Mérida, da quattro anni esiliato a Cúcuta. Mi mostra i segni dei proiettili sul petto e sulle gambe. “Nel 2006” racconta “hanno cercato di uccidermi. Nel 2010 i colectivos, le bande chaviste, hanno saccheggiato e incendiato la mia casa. Nel 2017 sono sfuggito all’arresto ma per rappresaglia i militari hanno rinchiuso per 11 mesi mio figlio Juan Pedro in una cella dell’Helicoide”.

Costruito negli anni Cinquanta sull’onda del boom petrolifero, l’edificio elicoidale su una collina nel centro di Caracas era destinato a centro commerciale di lusso, con avveniristiche spirali di rampe per accedere in auto alle boutique. Ma non è mai stato finito: oggi la sinistra struttura di cemento è la sede dei servizi segreti e una prigione per detenuti politici dove gli oppositori del regime, denuncia Amnesty International, patiscono violenze e sistematiche torture.

Le Faes, le Forze speciali d’intervento della polizia bolivariana create nel 2016 per combattere la dilagante criminalità, soffocano con durezza ogni forma di dissenso. Secondo il governo, un terzo dei 12 mila venezuelani assassinati nel 2020 è morto perché “resisteva all’autorità”, un eufemismo per giustificare le esecuzioni sommarie e le palesi violazioni dei diritti umani.

La repressione, la crisi economica e la pandemia hanno fiaccato l’impeto delle manifestazioni che negli anni scorsi avevano paralizzato le città del Venezuela. Le forze armate sono rimaste fedeli a Maduro, che controlla tutte le leve del potere, compresa la corte suprema, e in dicembre si è aggiudicato le elezioni parlamentari boicottate dall’opposizione.

La strategia di Juan Guaidó, autoproclamatosi presidente ad interim nel gennaio 2019 al culmine delle proteste popolari, non ha sortito i risultati sperati. Anche per una serie di cantonate, come l’appoggio al goffo tentativo di spodestare Maduro con un colpo di mano stile Baia dei Porci organizzato lo scorso maggio da un manipolo di mercenari ed ex membri delle Special Forces degli Stati Uniti, subito arrestati e condannati a vent’anni di galera.

Tomás Guanipa, ex deputato all’Assemblea nazionale, ora ambasciatore di Guaidó a Bogotà, riconosce che la prova di forza non ha funzionato: “Dobbiamo puntare su una soluzione diplomatica. Ci vorrà tempo, Maduro non sembra disposto a negoziare. Ma forse con la nuova amministrazione Biden potremo iniziare un nuovo ciclo. Lavoriamo per unificare il fronte democratico e mantenere la pressione all’interno del Paese, anche se la popolazione è impaurita e sfiduciata”.

Intanto i profughi si accalcano alla frontiera. “Quando tra qualche mese riaprirà il confine ci aspettiamo un nuovo esodo” spiega Roberto Mignone, che coordina i programmi d’emergenza dell’Unhcr nella regione. “Stiamo approntando un piano per l’assistenza e il trasporto umanitario, in particolare per i gruppi più vulnerabili e i richiedenti asilo”. Il presidente colombiano Iván Duque ha concesso ai migranti uno statuto di protezione valido dieci anni: potranno richiedere il permesso di soggiorno e cercarsi un impiego. Ma non è facile, con la disoccupazione in aumento a causa del Covid e le periferie urbane che si riempiono di catapecchie di lamiera.

E allora i migranti continueranno a camminare, oltre i fiumi e le selve amazzoniche, verso l’Ecuador, il Brasile, il Perù, l’Argentina: si fermeranno solo quando non avranno più il coraggio di sperare.