EXODUS
Kurdistan, November 2014

Padre Ghazwan Baho non è un prete qualunque. In settembre, dopo un incontro con papa Francesco, avrebbe potuto restare a Roma a insegnare all’Università pontificia. Invece ha deciso di tornare tra la sua gente in Iraq, nella parrocchia di una borgata affacciata sulla piana di Ninive, a soli dieci chilometri dagli avamposti del Califfato islamico.

Alqosh, un paese di chiese e di casupole di pietra aggrappato ai primi contrafforti del Kurdistan, è la Fortezza Bastiani dei cristiani d’oriente. Dall’eremo di Sant’Hormizd, scavato nella viva roccia dai monaci ascetici del settimo secolo, si scorgono i minareti e i campanili di Mosul. Per arrivarci bisogna superare i check point dei Peshmerga, i militari curdi, e percorrere le strade secondarie di una terra di nessuno alla portata degli obici jihadisti. “Il Santo Padre ci esorta a non rassegnarci a un Medio Oriente senza i cristiani” dice il parroco di Alqosh. “Ma ormai da qui tutti se ne vogliono andare”.

Negli ultimi sei mesi duecentomila cristiani sono fuggiti dai territori assoggettati all’orda fanatica e sanguinaria del “califfo” Abu Bakr al-Baghdadi. La prima ondata si è riversata in Kurdistan dopo la conquista di Mosul in giugno; la seconda in agosto, quando Daesh (acronimo arabo per Stato islamico dell’Iraq e del Levante) ha occupato i villaggi del tavoliere di Ninive e imposto ai residenti una scelta obbligata: convertirsi all’islam, pagare la jizya, il tributo sancito dal Corano per gli infedeli, o affrontare la morte. I 50 mila siriaci di Qaraqosh, una delle più antiche comunità cattoliche del mondo, sono fuggiti all’alba mentre le milizie islamiche entravano in città e devastavano le chiese. A Mosul, seconda metropoli dell’Iraq, per la prima volta in duemila anni i cristiani sono scomparsi.

“Il cristianesimo sta morendo nella culla dov’è nato” si sfoga Gabriel Tooma, superiore del monastero della Vergine Maria di Alqosh. “Siamo in via di estinzione: oggi è impossibile immaginare una convivenza con i musulmani. Sono secoli che ci perseguitano, ci cacciano, ci uccidono”. Quando i combattenti di Daesh sono giunti alle porte del villaggio padre Gabriel ha portato in salvo i bambini dell’orfanotrofio. Poi è tornato a prendere i preziosi manoscritti custoditi nel monastero. “Dopo la caduta di Saddam speravamo nella democrazia. Ma cosa hanno fatto gli Stati Uniti e l’Europa per proteggerci? La nostra colpa è avere il petrolio? Nessuno ci ha aiutati”.

Il declino della presenza cristiana in Medio Oriente, accentuato da un tasso di crescita demografica nettamente inferiore a quello dei musulmani, ha subito fin dai primi anni del Novecento una forte accelerazione, impressa dalle tumultuose vicende politiche che hanno interessato il mondo islamico.

In Turchia armeni, cattolici, protestanti, ortodossi, siriaci e caldei sono scesi dai due milioni all’epoca di Ataturk agli attuali 85 mila, lo 0,2 per cento della popolazione. A Istanbul, dove fino a 40 anni fa vivevano 300 mila cristiani, non ne restano più di cinquemila, minacciati da una crescente intolleranza religiosa: le chiese diventano moschee, i seminari chiudono i battenti e i sacerdoti perdono la vita, come è accaduto a don Andrea Santoro, ucciso nel 2006 a Trebisonda, e al vescovo Luigi Padovese, vicario apostolico dell’Anatolia, accoltellato a morte nel 2010 a Iskenderun. Nel multiconfessionale Libano i maroniti sono passati dal 55 per cento al 35. Percentuali inferiori all’1 per cento si registrano in Algeria, Marocco, Tunisia, Mauritania. In Palestina i cristiani sono scesi dal 20 allo 0,8 per cento e dei 30 mila che nel 1948 abitavano a Gerusalemme ne rimangono appena seimila.

Ma è nel decennio successivo agli attentati dell’11 settembre che l’esodo si è trasformato in una fuga disperata. La guerra dichiarata da George W. Bush al terrorismo internazionale, l’invasione dell’Afghanistan e dell’Iraq, le incursioni israeliane in Libano e a Gaza, l’intervento militare in Libia, la proliferazione dei movimenti qaedisti, le rivolte arabe in Tunisia, Yemen, Egitto e i massacri in Siria hanno innescato una spirale di violenza settaria le cui vittime sacrificali sono i civili e le minoranze religiose.

Sotto il trentennale regime di Hosni Mubarak i copti, il 10 per cento degli 85 milioni di egiziani, erano cittadini di seconda classe, discriminati nell’esercito e negli impieghi pubblici, soggetti a restrizioni legali, esclusi dall’intelligence e dai servizi di sicurezza. Tuttavia godevano, al pari dei confratelli dell’Iraq saddamita e della Siria alawita, della relativa protezione che alle dittature arabe conviene accordare ai gruppi minoritari, purché inoffensivi. Dopo la cacciata del rais del Cairo, nei mesi che hanno preceduto il golpe militare del generale Al-Sisi, i fanatici della Gama’a Islamiya e dei Fratellanza musulmana non hanno perso tempo: nell’agosto 2013 sessanta chiese, monasteri e istituti religiosi sono stati bruciati o attaccati a Suez, Giza, Assiut, Minya, nel Sinai, nel Delta, nell’Alta valle del Nilo. E centomila copti hanno preso la via dell’esilio.

In Siria mezzo milione di cattolici, melchiti, siriaci e greco-ortodossi, un terzo della popolazione cristiana, ha abbandonato il paese sconvolto dalla guerra. L’antica comunità armena di Aleppo si sta trasferendo in massa a Yerevan. A Maalula, dove si parla ancora l’aramaico, la lingua di Gesù, i bombardamenti dell’esercito e degli insorti hanno sventrato la chiesa e l’antico convento di Santa Tecla. A Homs il quartiere cristiano di Hamidiye è un cumulo di macerie. I villaggi del Wadi an-Nasara, la Valle dei cristiani, sono assediati. E i religiosi vivono nel terrore degli attentati e dei rapimenti: di padre Paolo Dall’Oglio non si ha notizia dal giorno del sequestro, il 29 luglio 2013.

In Iraq, dove ai tempi di Saddam la comunità caldea contava oltre un milione di adepti, ora ridotta a meno di 300 mila, l’esodo verso il Kurdistan, l’Europa e gli Stati Uniti è cominciato dopo gli attacchi alle chiese di Baghdad e Mosul nel 2004 e non si è mai interrotto. Nel decennio successivo i commando qaedisti hanno ripetutamente preso di mira i luoghi di culto dei kuffar, gli infedeli, accusati di simpatizzare con le forze di occupazione e di blasfemia, di spacciare alcolici e di non imporre il velo alle donne. Il bilancio provvisorio è di 50 chiese colpite, duemila fedeli e 20 sacerdoti assassinati, tra i quali l’arcivescovo caldeo Faraj Rahho e il pope ortodosso Adel Youssef. Ai cristiani della Mesopotamia non resta che fuggire o rintanarsi nelle catacombe.

Per contrastare l’offensiva di Daesh e difendere i villaggi alcuni nuclei di cristiani hanno imbracciato le armi: le milizie di autodifesa nella Valle dei cristiani, il gruppo Suttoro (“protezione” in siriaco) nella curda Qamishli, i para-militari assiri di Dwekh Nawsha (“votati al sacrificio”) nella piana di Ninive. Ma la popolazione civile si è messa in cammino verso le province del nord: a piedi, in auto, con mezzi di fortuna, centinaia di migliaia di profughi hanno attraversato i confini del Libano, della Giordania, della Turchia e della regione autonoma del Kurdistan iracheno che ospita ormai oltre 850 mila rifugiati.

A Erbil i cristiani si sono sistemati nelle tende dei campi di transito, nei cortili delle chiese del quartiere di Ankawa, nelle scuole, nei centri sportivi, negli edifici in costruzione. “I musulmani vogliono cancellare il cristianesimo dal Medio Oriente” afferma il patriarca siriaco cattolico Ignatius Joseph Yonnan in visita al campo profughi della Brazilian Sport Academy. “Ma noi non ci muoviamo. E un giorno torneremo alle nostre diocesi”. Padre Douglas Bazi della parrocchia di Mar Elia, che nel 2006 a Baghdad è stato rapito e torturato da un commando islamico, è meno ottimista: “Chi ha un passaporto cerca di andare all’estero, quasi tutti hanno amici e parenti altrove. A Mosul e a Qaraqosh i cristiani sono stati aggrediti dai loro vicini musulmani. Perché dovremmo tornare dove non ci vogliono? Noi preti dobbiamo avere cura della gente, non dei monumenti antichi e della storia”.

Ragheed Kamal Yousif, 39 anni, tre bambini, insegnante di inglese fuggito in agosto dal villaggio di Batnaya, la pensa allo stesso modo: “Il vescovo e il papa dicono che dobbiamo restare ma si devono rassegnare: qui il cristianesimo è finito. Bisogna essere realisti, il Medio Oriente è cambiato. Il cristiano Bush ha distrutto l’Iraq e noi non vogliamo diventare dei martiri. Io devo preoccuparmi del futuro dei miei figli”. Ragheed si è sistemato con la famiglia, 13 persone, in un anfratto delimitato da teli di plastica e pannelli di compensato al terzo piano dell’Ankawa Mall, un centro commerciale in costruzione occupato dagli sfollati. Non c’è luce, non c’è riscaldamento, i servizi igienici sono inservibili, l’acqua prelevata da un rubinetto in cortile è trasportata in taniche su per le scale, si cucina nei corridoi su minuscoli fornelli a gas. La pioggia invade gli scantinati e un vento gelido spazza gli androni privi di finestre.

Al piano di sopra vive Yohanna Kruo, 62 anni, di Qaraqosh: sulla nuda parete del container che gli fa da casa è appesa, sotto una rosa di plastica, la foto dell’unico figlio, Walid, soldato, ucciso a Tikrit il 2 agosto in uno scontro a fuoco. Ci sono anziani malati di diabete, donne incinte, disabili, torme di bambini e due neonati, Edmon e Stella, venuti al mondo da una settimana. E c’è Kamal, manovale di 28 anni, che racconta con le lacrime agli occhi la sua storia, una tra le tante: “Erano le 9 del mattino. Un colpo di mortaio è esploso in strada uccidendo due bambini di 10 e 12 anni, i figli del mio vicino. Il padre ha raccolto i pochi resti in un sacco. Poi siamo corsi via, abbandonando tutto”.

L’emergenza umanitaria, con l’arrivo dell’inverno, si è acuita. La sicurezza, anche in Kurdistan, è aleatoria: il 19 novembre un’autobomba ha mietuto sei vittime nel centro di Erbil, di fronte all’ufficio del governatore. E i cristiani, su cui si concentrano l’attenzione dei media, gli aiuti delle chiese e gli appelli del Vaticano,  non sono gli unici a patire l’esilio. I profughi sono in gran parte musulmani siriani, sunniti iracheni, turcmeni, curdi sciiti (gli Shabak) e superstiti dell’antichissima e pacifica comunità mesopotamica degli Yazidi: adoratori del sole e degli astri scampati all’ignobile eccidio del monte Sinjar, dove 5 mila uomini sono stati trucidati e migliaia di donne e ragazzine ridotte in schiavitù, stuprate e vendute come concubine ai tagliagole di Daesh.

Le agenzie dell’Onu e le ong fanno il possibile per alleviare le sofferenze degli sfollati. Nuovi campi e tendopoli stanno sorgendo ovunque in Kurdistan, lungo il confine iraniano e turco, attorno alle città di Sulaymaniyah, Kirkuk, Erbil, Zakho, Dohuk. Medici senza frontiere organizza cliniche mobili, distribuisce kit sanitari, costruisce latrine. Emergency sta installando consultori, reparti di maternità, servizi d’urgenza. Ma i bisogni sono immensi e le risorse limitate. “L’Occidente si è mosso con grave ritardo” sbotta l’arcivescovo caldeo di Mosul Amel Nona. “E solo quando hanno cominciato a rotolare le teste di cittadini inglesi e americani”.

La forza di Daesh, secondo il gesuita Jens Petzold, che con padre Dall’Oglio ha fondato il monastero della Vergine a Sulaymaniyah, è stata a lungo sottovalutata: “Non sono soltanto una banda di terroristi. Sono un esercito disciplinato, hanno armi, ufficiali addestrati e un fiume di soldi”. Pertrodollari, soprattutto, che sgorgano dai pozzi controllati dal Califfato: smerciato sottocosto (25-45 dollari il barile), il greggio scorre sulle consolidate rotte del contrabbando verso l’Iran, la Turchia, la Giordania e persino Damasco, contribuendo a rimpinguare le finanze dello stato islamico e a pagare il soldo (500 dollari) dei combattenti. In assenza di accordo strategico con Tehran sulla questione del programma nucleare iraniano e di garanzie sul futuro assetto istituzionale dell’Iraq è improbabile che Washington riesca a mobilitare contro Daesh le riluttanti tribù sunnite dell’Anbar, già pesantemente colpite dalle rappresaglie jihadiste.

Intanto, la pulizia etnico-religiosa può continuare. Halo, in una tenda del campo di Arbat: “Hanno ucciso mio marito e tutti i maschi. Sono qui con i miei 4 figli. Non abbiamo da mangiare”. Ahmed Ali, uno dei 65 mila del campo di Domiz: “Nel villaggio di Wardiya hanno rapito 170 persone. Anche donne e bambini. Non ci sono scuole, l’acqua è sporca e le latrine sono intasate”. Dakhil Elias, nel campo di Sharia: “Volevano costringerci a diventare musulmani e ad arruolare i nostri ragazzi. Alcuni si sono convertiti, ma li hanno uccisi lo stesso. Hanno preso mia moglie Hado, ma forse non è morta: una donna dice di averla vista a Tall Afar”.

In settemila sono accampati negli scheletri di cemento di cinque palazzi alla periferia di Zakho. Senz’acqua, senza luce, senza bagni. E ogni piano è un infernale girone di angoscia, di sordi rancori e di rassegnazione. Mi muovo a tentoni tra squallidi ricoveri di teli di plastica e fogli di cartone, donne che accendono fuochi nei sottoscala invasi dal fango e dall’immondizia, bambini che rischiano di precipitare dai balconi senza parapetto, vecchi che sputano e tossiscono sui materassi, pozzanghere e panni stesi, voragini che si spalancano nel vuoto. “Mi ascolti” sibila nel buio una voce rabbiosa. “L’unico musulmano buono è quello morto!”