Ethnic cleansing
C’è una sola cosa da fare a Bangui allo spuntare del giorno: il giro degli obitori. Non c’è altro modo di verificare le voci che si rincorrono nella notte sulle onde gracchianti delle radio locali e nelle invettive gonfie d’odio e di propaganda delle fazioni in lotta. Voci che parlano di massacri, stupri, esecuzioni sommarie.
Alla morgue dell’Ospedale generale e in quella dell’Hôpital communautaire i gruppi elettrogeni cedono alla vampa opprimente del sole africano. L’odore dei cadaveri in decomposizione è un pugno nello stomaco. Le mosche si posano sulle ferite inferte dai machete, sul sangue rappreso, sugli arti mutilati. Sul pavimento, addossati a un fetido muro di cemento, sono distesi due ragazzi con il cranio spaccato. In una bara aperta c’è il corpo irrigidito di Bruno Somba, 33 anni, colpito da un proiettile alla testa. Sul tavolaccio di piastrelle stanno lavando i resti di Peggy Deondo, 34 anni, incinta del quinto figlio, uccisa da una granata insieme a due delle sue bambine.
Sui registri macchiati di sangue i nomi riempiono decine di pagine. Cristiani e musulmani, civili e militari, vecchi e neonati: torturati, assassinati, linciati, bruciati vivi. L’orrore di una guerra che, a vent’anni dall’olocausto rwandese, fa balenare lo spettro di un altro genocidio.
La Repubblica Centro Africana, uno degli stati più poveri e arretrati del pianeta (la speranza di vita non supera i 48 anni, il 15 per cento dei bambini muore entro i 5 anni e meno di un terzo della popolazione ha accesso all’acqua potabile), ha di fatto cessato di esistere nel marzo 2013, quando i gruppi armati a predominanza islamica riuniti nella Séléka (“alleanza” in lingua sango), appoggiati da mercenari ciadiani e sudanesi, rovesciarono il presidente François Bozizé insediando Michel Djotodia, primo musulmano a guidare il Paese. Conquistata la capitale, la Séléka scatenò i suoi killer contro la maggioranza cristiana (l’80 per cento dei 5 milioni di abitanti): chiese incendiate, villaggi rasi al suolo, arresti arbitrari, stragi di civili, stupri di massa.
Etichettato come guerra di religione, il conflitto ha radici che affondano nell’antico antagonismo tra allevatori nomadi (musulmani) e contadini sedentari (cristiani e animisti): un risentimento esacerbato da rivalità etniche, lotte di potere e recriminazioni economiche nei confronti della minoranza islamica che controlla le leve del commercio. Non era difficile immaginare cosa sarebbe successo quando, lo scorso gennaio, le pressioni internazionali costrinsero Djotodia all’esilio nel Benin.
Mentre gli scherani della Séléka ripiegavano verso il confine ciadiano seminando morte e terrore, la vendetta dei cristiani si abbatteva con spietata violenza sui musulmani: a Bangui, nei villaggi dell’ovest e in tutte le città del Centrafrica miliziani anti-balaka (“anti-machete”) armati di coltelli, Kalashnikov e granate, inebriati dall’alcol e dalle droghe, resi “invincibili” dagli amuleti e dai gris-gris di pelle di vacca, si sono abbandonati a un’orgia di sistematiche rappresaglie. I duemila militari francesi dispiegati in settembre con l’operazione Sangaris, che si limitano a controllare l’aeroporto, a pattugliare le strade principali e a scortare i convogli di aiuti umanitari provenienti dal Camerun, e i 6 mila soldati africani della Misca (Missione internazionale di sostegno al Centrafrica), non hanno saputo impedire i pogrom, gli eccidi, i saccheggi, la distruzione delle moschee e di interi quartieri.
La pulizia etnico-religiosa è ormai un fatto compiuto. A Bangui non resta che un migliaio dei 150 mila musulmani che vivevano nella capitale. Nella città aurifera di Yaloké la totalità dei 10 mila residenti musulmani è scomparsa e sette delle otto moschee sono ridotte in macerie. A Zawa, Bekadili, Boganangone, Boguera e Bossangoa non rimane un solo musulmano. A Mbaiki, Boda, Bozoum, Bouar i musulmani accerchiati dagli anti-balaka possono sperare di sopravvivere solo se saranno evacuati sotto scorta militare.
Bangui è come Mogadiscio all’apice della guerra civile: la capitale in putrefazione di uno stato fallito. L’esercito, l’amministrazione, le istituzioni si sono dissolte: la nuova presidente, l’ex sindaco di Bangui Catherine Samba-Panza, soprannominata Madre Coraggio, conta come il due di picche. Le bande armate controllano i quartieri. Banditi e rapinatori camuffati da vigilantes taglieggiano la popolazione. I ragazzi di strada rovistano nei rifiuti tra le case demolite e trangugiano bustine di “whisky camerunese”. Nei mercati è in vendita il bottino dei saccheggi, dai rubinetti ai televisori. Negli ospedali mancano i medicinali. Gli sfollati (800 mila di cui 300 mila in città) si accampano sotto tende di stracci. E i “peacekeepers” burundesi e congolesi assistono impotenti ai quotidiani massacri, quando non ne sono la causa.
Tutti sembrano rimpiangere i bei tempi di Jean-Bédel Bokassa, il generale antropofago che nel 1976 si fece incoronare imperatore in una fastosa cerimonia costata un terzo del budget nazionale, quando le strade asfaltate non erano un colabrodo, quando i battelli che ora marciscono al porto risalivano l’Oubangui carichi di merci e passaggeri, quando i libanesi compravano oro e diamanti, i portoghesi trafficavano legname e i presidenti francesi venivano a caccia di ippopotami e leoni.
Oggi Bangui è una città in disfacimento. Muri che si sgretolano, intonaci che si sfaldano, insegne che sbiadiscono, fogne che straripano nel fiume, elettricità a singhiozzo, trasporti inesistenti, tetti che crollano, alberghi abbandonati, carcasse di veicoli che cadono a pezzi sobbalzando sugli sterrati dentro nuvole di polvere rossa. Mancano anche i beni essenziali: cibo, carburante e contanti. Gli allevatori Peul, nel mirino degli anti-balaka, non si fanno più vedere: macellano il bestiame in brousse, a una quarantina di chilometri dalla città, e il prezzo della carne è quadruplicato in due mesi. Di giorno, quando non si spara, si formano lunghe file alle due pompe di benzina ancora funzionanti e agli sportelli dell’unica banca.
E al tramonto è “ville morte”: buio pesto, non un’anima per strada, un silenzio sinistro in cui risuonano raffiche di mitra e colpi di Rpg. C’è in giro solo Toni, il tassista che lavora con le prostitute delle boîtes al PK0, il “punto kilometro zero” che segna il centro da cui si diramano le strade della capitale e del Paese. È impasticcato e ha un’auto decrepita senza sospensioni con il parabrezza frantumato, ma se lo chiami arriva subito, a qualsiasi ora. Sa dove si può mangiare durante il coprifuoco – da Rami, il libanese del ristorante Ali Baba – e dove trovare una birra “33” gelata – al New Songo, con i militari francesi in tuta mimetica e pistola alla cintura che forse bevono per dimenticare.
Perché al mattino, alla morgue, si contano altri morti. Al Complexe pédiatrique i chirurghi di Emergency si preparano a operare Suré Kegbanda, 12 anni, ferito da schegge di granata ai testicoli e alla mandibola. Al Centre de santé St. Joseph di Ouango suor Marie-Michelle comincia a pesare i bambini denutriti e a cambiare le flebo ai malati di aids. Gli ospedali di Medici senza frontiere, che in quattro mesi hanno curato quattromila feriti, si apprestano a ricevere la quotidiana marea di pazienti affetti da malaria, tubercolosi, malnutrizione. E nei quartieri caldi, a Boeing, Combattant, Miskine, PK5, le ambulanze della Croce rossa riprendono la ronda per raccogliere i cadaveri.
M’poko, 60 mila senzatetto ammassati in una baraccopoli cresciuta attorno all’aeroporto, è sull’orlo di una catastrofe umanitaria. Le condizioni sanitarie sono spaventose. Ai lati della pista di atterraggio, in tuguri di plastica, cartone e arbusti, gli sfollati cucinano zuppe di foglie di manioca e ossa di animali. I più fortunati hanno occupato gli hangar; altri hanno trovato riparo nella fusoliera e sotto le ali sbrindellate di fatiscenti aerei a elica, dismessi da tempo immemorabile. La maggior parte ha solo un telo per difendersi dalle intemperie. E i loro morti li seppelliscono sotto una croce di rami incrociati, dietro il filo spinato, nella polvere di uno spiazzo arroventato dal sole: non c’è neppure il prete al mesto funerale di Marie Nam, 40 anni, che lascia tre figli nel formicaio di M’poko.
Il centro sanitario di Msf, 60 letti sotto i tendoni, smaltisce settimanalmente 5 mila visite. Ma lo staff è in allarme: con l’inizio della stagione delle piogge si prevede un’impennata delle patologie respiratorie e una recrudescenza delle epidemie, colera incluso. E la prima pioggia, in un pomeriggio afoso, è arrivata all’improvviso come arriva ai Tropici: con il cielo che rabbuia, il vento che schianta gli alberi, un muro d’acqua che cancella i contorni lividi delle colline e rovescia fiumi di fango rosso nelle strade.
Alla Cave Bon Lieu, quartiere di Boy-Rabe, non c’è corrente e la birra è calda. Sotto la tettoia di lamiera, al riparo dal nubifragio, ci sono venditori di noci di cola e di malafu, il vino di palma, ubriachi che maneggiano Kalashnikov, miliziani con pelli di serpente e corna di gazzella legate al petto. E c’è Emotion Brice Namsio, 33 anni, uno dei capi degli anti-balaka. “Vedi quell’altura?” dice indicando la collina delle Pantere. “Lì in dicembre abbiamo trovato una fossa con trenta cadaveri. Abbiamo combattuto i Séléka perché hanno massacrato il nostro popolo. Non vogliamo sterminare i musulmani, vogliamo cacciare i mercenari ciadiani e sudanesi che la Misca e i francesi non si decidono a disarmare. Lo faremo noi. Abbiamo 10 mila uomini a Bangui e 40 mila nelle province”.
Vado a cercarli, i miliziani della Séléka rimasti a Bangui. Sono confinati in cinque siti, intrappolati da quattro mesi in ex caserme protette dai militari congolesi. A Camp Rdot sono 623, scalzi e affamati, con le divise stracciate. Dormono sotto gli alberi e tagliano legna per cuocere il riso con le erbe dei campi. Hanno armi leggere per respingere gli attacchi degli anti-balaka. “Siamo assediati” dice il loro comandante, il generale Harun. “Ci sparano se usciamo a cercare un po’ d’acqua e di cibo: il bilancio è finora di 198 morti. Non riceviamo aiuti né cure sanitarie. Chiediamo il rispetto della Convenzione di Ginevra”.
I più giovani, i bambini soldato, sono presi in carico dall’Unicef e dall’ong italiana Coopi: più di 350 ragazzi dagli 8 ai 18 anni seguono corsi di formazione e programmi di reinserimento. Come Princia, 17 anni, che aveva il “potere notturno” del suo capo e feticci invincibili. Princia ha ucciso, ha partecipato a esecuzioni e mutilazioni. “Ero la compagna e la guardia del corpo del comandante” racconta. “Facevo sesso solo con lui. Lo seguivo in battaglia, avevo un AK-47 e una mitragliatrice. Ora sto imparando a cucire e vorrei tornare da mia madre, a Sibut”.
I civili musulmani di Bangui, quelli che non sono ancora riusciti a fuggire in Ciad, in Camerun o in Congo, sopravvivono negli ultimi ghetti islamici della capitale. Fino alla scorsa settimana duemila dei 25 mila abitanti del quartiere PK12 resistevano tra i ruderi delle case e delle moschee incendiate: gli anti-balaka li attendevano al varco con i machete sguainati, dietro il cordone dei militari francesi, e di notte tiravano granate dalle colline. “Non possiamo neppure evacuare gli infermi e i feriti” diceva Ibrahim al-Awad, avvocato e militante comunista sudanese profugo a Bangui dal 1993. “Siamo circondati. Un mese fa hanno bloccato un camion di sfollati: venti uomini sono stati sgozzati”. Domenica 27 aprile gli ultimi musulmani del PK12 se ne sono andati, sotto scorta militare.
Il PK5, ex polmone commerciale della città, è un quartiere fantasma. Le saracinesche del mercato sono abbassate. La strada principale è deserta, sbarrata da barricate di ferraglia e auto carbonizzate. Una raffica di mitra, una pattuglia burundese che sale di corsa verso la collina. In un vicolo trasportano i corpi di due giovani avvolti in lenzuoli bianchi, colpiti da pallottole vaganti. Si cammina rasentando i muri: qui non entrano neppure le ambulanze della Croce rossa.
I musulmani superstiti, non più di un migliaio, sono in gran parte stipati nel cortile della Grande moschea. I defunti sono allineati nella vicina moschea Ali Baboro, trasformata in obitorio. “Oggi sono sette” dice l’anziano imam Yahya Waziri. “Qui li laviamo e li prepariamo per la sepoltura. Ma li dobbiamo interrare nei cortili delle case: rischiamo il linciaggio se cerchiamo di raggiungere il cimitero”. Un musulmano che si allontana dal ghetto è un musulmano morto. Ma neppure i cristiani sono al sicuro.
La notte del 28 marzo, nel quartiere di Fatima, le granate lanciate da un commando armato contro una famiglia riunita per una veglia funebre hanno fatto a pezzi una dozzina di uomini, donne e bambini. “Stamattina c’erano ancora sei cadaveri sulla strada, orrendamente mutilati” racconta il padre comboniano Gabriele Perobelli, che nel compound della chiesa di Nostra Signora di Fatima ha accolto 5 mila sfollati. “Nessuno sa chi ha compiuto la strage: miliziani della Séléka, militari ubriachie dal grilletto facile, banditi, provocatori anti-balaka? Ogni giorno scendiamo un gradino che ci porta all’inferno”.
La comunità internazionale, finora riluttante a intervenire con decisione per fermare i massacri, sembra avere cambiato il passo. Il 10 aprile il Consiglio di sicurezza dell’Onu ha approvato l’invio di 12 mila caschi blu e negli stessi giorni l’Ue ha annunciato la partenza per Bangui di 800 militari, tra i quali una cinquantina di genieri italiani. A premere sul Palazzo di vetro e su Bruxelles è stata soprattutto la Francia, preoccupata per le sorti dei giacimenti di uranio di Bakouma, gestiti dal gruppo Areva. E la crisi in Centrafrica non mette a repentaglio soltanto gli interessi economici dell’ex potenza coloniale: uno stato fallito nel cuore del continente, a ridosso del Darfur, del Congo, del Ciad e della fascia di instabiltà che si estende dalla Nigeria al Sudan meridionale, potrebbe aprire nuovi territori alle organizzazioni jihadiste già attive nella regione.
Ma il dispiegamento del contingente Onu rischia di essere tardivo. La forza multinazionale arriverà solo in settembre e sarà in buona parte formata dai soldati della Misca, malvisti dai musulmani come dai cristiani, che si limiteranno a cambiare uniforme e indossare l’elmetto blu. Lunedì scorso le milizie Séléka hanno attaccato l’ospedale di Nanga Boguila, al confine ciadiano, uccidendo 22 civili, fra i quali tre operatori locali dello staff di Msf. Il tempo dei killer, in Centrafrica, non è ancora finito.