Ethiopia Hunger, Oromiya, October 2008

Giovanni Porzio – da Addis Abeba (10.11.08)

Fa paura il viso di Kamar. Ha solo due anni ma ha le rughe di un vecchio, il ventre gonfio, la pelle cascante e i capelli scoloriti. Non piange, non si muove: guarda fisso nel vuoto. Gli infermieri dell’ambulatorio di Medici senza frontiere del villaggio di Fajigole, 300 chilometri a sud di Addis Abeba, nello stato di Oromya, dicono che Kamar è affetto da marasma, lo stadio acuto della denutrizione. Forse riusciranno a salvarlo. Forse il suo fragile organismo non resisterà alla tubercolosi e alla malaria.

La chiamano “fame verde”, perché la carestia flagella una regione fertile e lussureggiante, ricca di fiumi e di laghi. Eppure anche quest’anno milioni di contadini rischiano la vita. Le “piccole piogge” di primavera sono state scarse e gli insetti hanno divorato il mais. Per dare da mangiare ai dodici figli il padre di Kamar ha venduto le mucche e si è indebitato con gli usurai del mercato. Poi, finite le scorte, ha cominciato a cuocere erbe dei campi e radici. Ora, accovacciato sull’uscio di una capanna di fango, scruta il cielo: le “grandi piogge” del chellema, il tempo delle tenebre, sono arrivate, ma ci vorranno mesi per avere un nuovo raccolto.

La cronica insicurezza alimentare sembra incomprensibile in un paese che dal 1985, quando la carestia uccise quasi un milione di persone e il concerto Live Aid organizzato da Bob Geldof innescò un movimento di solidarietà internazionale, è tra i maggiori beneficiari al mondo di aiuti e assistenza umanitaria: in media 2 miliardi di dollari all’anno. Nel 2008 solo gli Stati Uniti, principale donatore, hanno erogato 800 milioni di dollari. La Banca Mondiale, che in luglio ha offerto 1,2 miliardi in sussidi finanziari, ne ha promessi altri due nel 2009. E le tremila Ong presenti in Etiopia hanno un budget complessivo di oltre un miliardo di dollari l’anno.

La tragica realtà è che in Etiopia la povertà è un business: un’industria che cresce a ogni carestia e che coinvolge le istituzioni internazionali, i paesi donatori, le organizzazioni umanitarie e le amministrazioni locali. Gli aiuti sono una fonte di valuta pregiata per Addis Abeba, che applica un tariffario sui generi importati: il 5 per cento sulle zanzariere, il 33 per cento sui medicinali, il 51 per cento sui prodotti alimentari. Su un impianto per il controllo della potabilità dell’acqua che nell’Ue costa 2.440 euro, il prelievo è di 1.800. E a fine missione le Ong devono lasciare al governo tutte le loro attrezzature, veicoli compresi.

E’ un meccanismo di dipendenza che si autoalimenta. Dal 1985 la popolazione è raddoppiata e sfiora oggi gli 80 milioni, in gran parte contadini. E la produttività agricola pro capite si è ridotta di un terzo: 14 milioni di etiopici, il 18 per cento del totale, sopravvivono grazie agli aiuti internazionali. “Qui non ci sono industrie” dice padre Gianfranco Magalini, della parrocchia di Gighessa. “La terra è parcellizzata, non ci sono canali irrigui e la densità antropica è elevatissima. Gli attrezzi agricoli sono rudimentali, il raccolto del teff, il cereale con cui si impasta la ‘ngera, l’alimento base della dieta, è alla mercè delle piogge, sempre più rare, e gli agricoltori non sono abituati a prevedere il peggio: il lingua amarica i verbi non hanno il futuro”.

Dopo la carestia del 2003 il governo e i donatori hanno varato un piano di prevenzione e di assistenza, il Productive Safety Net, grazie al quale 7 milioni di contadini a rischio di malnutrizione ricevono denaro o cibo in cambio di lavoro nel settore pubblico. Ma questo non ha impedito il ripetersi delle emergenze, oggi amplificate dall’aumento dei costi del trasporto, dei fertilizzanti e delle derrate alimentari (secondo il World Food Programme in un anno il prezzo del mais è cresciuto del 100 per cento e quello del frumento del 40 per cento). La maggior parte degli aiuti viene di conseguenza utilizzata per tamponare le crisi, utili ai produttori occidentali per disfarsi del surplus agricolo, a detrimento degli investimenti strutturali. I donatori spendono meno del 5 per cento del totale in progetti a lungo termine: degli 800 milioni di dollari elargiti da Washington, solo lo 0,7 per cento è destinato al miglioramento del settore agricolo.

Bashir, 28 anni e padre di 8 figli, vive in un kebele (comune) nei pressi di Shashamene, il centro del culto rastafariano. Sua moglie Zahra deve camminare tre ore per riempire al fiume una tanica di 25 litri d’acqua. “Per usare il pozzo dobbiamo pagare una tassa” spiega Bashir. “E non abbiamo silos per conservare il raccolto: dobbiamo svenderlo prima che marcisca ai commercianti del mercato. Gli stessi che poi ci prestano il denaro per i fertilizzanti a interessi astronomici”.

Il circolo vizioso è assecondato dalle contradditorie politiche del governo di Meles Zenawi, ex marxista parzialmente convertito alle leggi del mercato. L’Etiopia, che con un reddito medio pro capite di 160 dollari è uno dei paesi più poveri del mondo, investe nell’agricoltura un ragguardevole 17 per cento del budget dello stato. Ma la mano pubblica resta pesante. Il governo controlla le principali industrie e, soprattutto, ha nazionalizzato nel 1995 la proprietà terriera con deleterie conseguenze sulla produttività e l’organizzazione delle campagne, dove gli investimenti sono orientati verso le più redditizie colture da esportazione.

Lungo la strada da Addis Abeba a Shashamene, accanto ai villaggi senza pozzi e senza luce, si sono moltiplicate le serre per la coltivazione industriale di rose (l’olandese Sher Holland, società leader nel mondo per la produzione di fiori) e di fragole (Ilan Tot, controllata dall’imprenditore israeliano Ilan Eliyaho), che pompano l’acqua dei vicini laghi con potenti idrovore galleggianti.

Il business degli aiuti muove enormi interessi economici. E almeno una parte del fiume di denaro si disperde nei rivoli della corruzione, nella speculazione edilizia, nel mastodontico apparato delle agenzie dell’Onu, nelle ville con piscina della nomenklatura. E nel sostanzioso bilancio delle forze armate, impegnate sul fronte interno in Ogaden e, con quasi 10 mila uomini, in Somalia.

Il regime non tollera le critiche: i dissidenti finiscono in carcere, come la star del reggae etiopico Taddy Afro, arrestato lo scorso aprile. E ora nel mirino del governo sono entrate anche le Organizzazioni umanitarie. Una legge approvata dal parlamento proibisce alle Ong di occuparsi di diritti umani e di interferire negli affari interni dell’Etiopia.

Il giro di vite interviene a un anno dall’espulsione del Comitato internazionale della Croce Rossa, accusata di fornire assistenza ai ribelli somali dell’Ogaden, e a sei mesi dalla pubblicazione di un rapporto che stigmatizza i metodi brutali dell’esercito (torture, esecuzioni sommarie, distruzione di villaggi) nell’insanguinata regione del sudest. Georgette Gagnon, responsabile per l’Africa di Human Rights Watch, ha denunciato la “congiura del silenzio” dei paesi donatori di fronte agli abusi dei militari che in Ogaden impediscono la distribuzione degli aiuti, confiscano il bestiame e limitano l’accesso ai pozzi.

In ottobre il ministro inglese per lo Sviluppo internazionale Douglas Alexander ha annunciato che Londra intende sospendere l’erogazione del contributo britannico ad Addis Abeba (200 milioni di dollari all’anno). Il vento, forse, sta cambiando. Da George Bush l’Etiopia ha ottenuto la patente di alleato strategico nella lotta al terrorismo islamico e milioni di dollari in forniture militari, sul cui utilizzo Washington ha preferito chiudere gli occhi. Barack Obama potrebbe decidere di aprirli.