Dubai Docks, April 2008

Giovanni Porzio – da Dubai (04.04.08)

Chilometri di merci accatastate lungo il Creek sono in attesa di essere stivate nei dhow, i tradizionali sambuchi arabi: i più grandi, da mille tonnellate, andranno in Somalia circumnavigando la Penisola. Tutti gli altri si preparano a salpare per l’Iran.

“Embargo? Quale embargo?” ridacchia Nadhim, rais, capitano, di uno dei bastimenti ormeggiati in doppia e tripla fila alle banchine, mentre dal cassero dirige le operazioni con il cellulare in una mano e nell’altra il boccale del tè. “Qui si lavora giorno e notte: mish mushkila, nessun problema”.

Camalli indiani e marinai iraniani caricano prodotti d’ogni tipo: pick-up Toyota e quad bike, frigoriferi e televisori, computer e condizionatori, scendendo nella gamma merceologica fino alle stoffe acriliche e alla coperte sintetiche indiane, alle stoviglie cinesi, alle conserve di pomodoro, ai detergenti e ai prodotti chimici di base. Montagne di scatoloni, imballi, pallet, sacchi di juta, pacchi di riso basmati, cataste di legnami cileni, piramidi di pneumatici, balle di lana e di cotone.

I sambuchi, con i loro scafi di legno, l’alto dritto di prua, la forma rimasta immutata nei secoli (solo, al posto delle vele, hanno ora potenti motori Yanmar), sono una visione incongrua sullo sfondo dei fantasmagorici grattacieli e degli hotel a sette stelle di Dubai. Ma è anche per il suo prodigioso eclettismo che il ricchissimo Emirato di sabbia e di petrolio è riuscito a soppiantare in Oriente la piazza finanziaria e commerciale di Hong Kong. Un dinamismo che non si arresta nemmeno di fronte alle indagini della Cia e ai preoccupati richiami dell’amministrazione Bush, che denuncia il lassismo imperante nel sistema doganale di Dubai.

Gli ispettori del dipartimento al Commercio di Washington sostengono che dall’Emirato transitano verso la Repubblica islamica e l’Iraq materiali e pezzi di ricambio sottoposti a sanzioni: software, tecnologia a doppio uso civile e militare, prodotti chimici, maschere antigas, telecamere a infrarossi, macchine per produrre componenti dei sistemi missilistici, apparecchiature per l’industria aereospaziale. In almeno un caso è stato dimostrato che i circuiti computerizzati trovati in Iraq all’interno di alcuni ordigni inesplosi erano stati venduti dall’americana Amd di Sunnyvale, California, alla Mayrow General Trading di Dubai, che li aveva riesportati in Iran.

Yousef al-Otaiba, consigliere del principe ereditario degli Emirati, assicura che “il monitoreggio è stato rafforzato”. Il governo ha chiuso una dozzina di società sospettate di traffici illegali e la polizia ha arrestato un uomo d’affari giordano che cercava di importare un metallo utilizzato nei reattori nucleari. Ma Nasser Hashempour, vice presidente dell’Associazione degli imprenditori iraniani a Dubai, nutre seri dubbi sull’efficacia delle ispezioni: “Non servono a niente. Da qui si può esportare qualsiasi cosa, con estrema facilità”.

Solo nel 2007 e solo dagli Stati Uniti sono arrivati a Dubai 12 miliardi di dollari di prodotti che, se in transito, sono esentasse. La costa iraniana dista appena 70 miglia. E la Free Zone dell’isola persiana di Kish offre ai commercianti allettanti incentivi: agevolazioni fiscali e bancarie, garanzie legali, transazioni in valuta estera, nessuna restrizione all’import-export. I sambuchi fanno tutto l’anno la spola con l’Iran, primo paese importatore dagli Emirati. E anche in Iran basta pagare una mazzetta alla polizia per evitare fastidiosi controlli.

Spiega Ali Mohammed, responsabile di una società di navigazione con sede a Dubai: “I sambuchi, a differenza delle navi, possono sopportare tempi lunghi di attesa per il carico e lo scarico delle merci. E non pagano tasse portuali. Aggirare l’embargo è uno scherzo: le ditte iraniane con uffici a Dubai acquistano come Uae (United Arab Emirates) e riesportano. Anche le banche iraniane lavorano normalmente aggirando le sanzioni: la banca Saderat, sotto embargo americano, rilascia lettere di credito attraverso altre banche locali”.

Negli Emirati, dove gli imprenditori di Teheran hanno trasferito più di 300 miliardi di dollari e dove sono registrate più di 7 mila aziende riconducibili a società persiane, risiedono 400 mila iraniani, in gran parte commercianti che controllano il 90 per cento dell’import-export all’ingrosso e al dettaglio.

Di fronte alla banchina più affollata del Creek si erge il marmoreo palazzo della Bank Melli, la banca nazionale iraniana. E proprio il sistema bancario degli ayatollah è oggi nel mirino di Washington. Il vice segretario americano al Tesoro Robert Kimmit ha accusato la banca Saderat di avere stornato 50 milioni di dollari dalla sua filiale di Londra a quella di Beirut, tra il 2001 e il 2006, a beneficio dell’Hezbollah libanese. E ha rincarato la dose sostenendo che Bank Merkazi, la Banca centrale di Teheran, è impegnata a eludere le sanzioni accollandosi le transazioni degli istituti sotto embargo.

Accuse che il governatore della Banca Tahmasb Mazaheri respinge al mittente: “E’ nostro dovere” ha dichiarato “combattere il terrorismo finanziario americano”. E ha ringraziato due paesi che in questa battaglia sono al fianco degli ayatollah: il Bahrain e gli Emirati.