Giovanni Porzio - da Kimbau (luglio 2005)
Anche con le marce ridotte la jeep arranca. L’unica strada del Congo è lo specchio del paese che attraversa: distrutta dall’incuria e dalle piogge, divorata dalla foresta, devastata dalle guerre. Sulla terra rossa, scavata da solchi e profonde buche, restano pochi brandelli di asfalto. I ponti sono ferraglia contorta, fatti saltare dai soldati di Mobutu nel tentativo di fermare l’avanzata dei miliziani di Laurent Kabila, il padre – poi assassinato – dell’attuale presidente: bisogna guadare i fiumi o traghettare l’auto sui decrepiti ferry abbandonati dai coloni belgi.
I rari, macilenti camion avanzano a passo d’uomo, oscillando nelle voragini della pista con il loro carico di legname, carbone, bidoni di carburante, capre, passeggeri. Impiegano settimane, o mesi, per giungere a destinazione. Quando il motore è in panne si prosegue a piedi per decine di chilometri, con i bambini e i fagotti sulla schiena. E ai posti di blocco ci si deve guardare dai militari affamati, dal grilletto facile: ubriachi di birra Primus e di malafu, l’acquavite di palma, pretendono soldi, esigono balzelli, violentano le donne.
E’ in fondo a questa strada maledetta, a due giorni di viaggio da Kinshasa, nell’arida savana del Bandundu, che vive e lavora Chiara Castellani, ginecologa e chirurgo di guerra, appena insignita dal presidente Ciampi dell’Ordine al merito della repubblica italiana: unico munganga, medico, per i centocinquantamila abitanti della regione e unica luce che da 14 anni rischiara le tenebre nei più remoti recessi del continente africano.
La incontro a Kenge, ospite del vescovo Gaspard Mudiso. E’ sfibrata dai postumi di una malaria: uno dei tanti, ricorrenti attacchi. Questa volta più violento. Gli occhi lucidi sono febbricitanti. Ma freme dalla voglia di partire per il suo ospedale di Kimbau, altre sei ore di jeep verso l’Angola. Chiara è in ansia per i malati: “Da più di un mese non li vedo” dice con una vena di tristezza nello sguardo. E subito ti accorgi che la donna fragile e minuta che hai di fronte è un vulcano ribollente di energia, alimentata da un’incrollabile fede e da un amore incondizionato per i più deboli della Terra, per gli ultimi, per i dimenticati.
Senza il fuoco che le brucia dentro non avrebbe potuto resistere ai colpi del destino. Nata a Parma nel 1956, laureata all’Università cattolica di Roma, Chiara parte come volontaria per il Nicaragua con il marito Piero, anch’egli medico. Sono gli anni della guerra tra il Frente sandinista e i contras: è lì che impara ad amputare braccia e gambe dilaniate dalle mine, a ricomporre i corpi sfigurati dalle granate. E a non cedere mai di fronte ai soprusi, alla paura, all’odio. Trova il coraggio di continuare anche quando il marito l’abbandona. E quando, nel 1992, diventa “un passero con un’ala sola”.
Tutto avviene in un attimo. Chiara, che si è trasferita nell’ex Congo belga, gestisce l’ospedale di Kimbau per conto dell’Aifo (Associazione italiana di Raoul Follereau, gli “amici dei lebbrosi”). E’ il 6 dicembre e la jeep corre su quella maledetta strada. L’autista perde il controllo della Land Rover, che si rovescia. Chiara alza il braccio destro per proteggersi: lo sente stritolato, maciullato sotto il peso dell’auto. “Sollevo appena la testa” scrive Chiara nel suo ultimo libro, Una lampadina per Kimbau (Mondadori), “e riesco a vedere una massa informe di muscoli, di tendini, di frammenti di ossa. Capisco che è perduto e, nella stessa frazione di secondo, ne accetto la perdita. Mi pongo subito un obiettivo più elevato: vivere”.
Chiara stringe i denti e non si perde d’animo. “Da chirurgo che amputava” scherza “sono diventata un’amputata!” Rientra in Italia, viene operata, si procura una protesi di ultima generazione, si sottopone alla rieducazione, impara a scrivere con la sinistra. E 18 mesi dopo è di nuovo in Zaire, tra i suoi malati.
Partiamo per Kimbau e non incrociamo neppure una bicicletta: siamo alla fine del mondo. Sulle colline si vedono i tralicci della linea ad alta tensione che parte dalla foce del Congo raggiunge Lubumbashi, duemila chilometri più a est. Un progetto faraonico voluto da Mobutu per vendere energia ai paesi confinanti. Ma migliaia di villaggi congolesi sono ancora senza luce e senz’acqua potabile.
Chiara è furibonda: “Niente! Qui non c’è niente! E’ tutto come ai tempi della dittatura: nepotismo, violenza, corruzione. Non ci sono strade, scuole, medicine. Sai qual è la principale risorsa economica? Tsiata, bruchi di farfalle. Ce ne sono a milioni nella boscaglia: la gente li raccoglie per nutrirsi o per venderli a Kinshasa. Eppure questo è uno dei paesi più ricchi del mondo: oro, diamanti, uranio, cobalto, minerali strategici. Le multinazionali saccheggiano il Congo e i bambini muoiono di fame”.
I fuochi della brousse incendiano la notte. “Bruciano la savana per procurarsi un po’ di cibo” continua Chiara. “Cacciano piccoli roditori, con archi e frecce. E coltivano la manioca con cui preparano il fufu, la polenta base della loro dieta”. Ma la manioca cela un pericolo mortale: il cianuro. Prima di consumarla bisogna lasciarla tre giorni nell’acqua. Ma i bambini non sanno aspettare e la conseguenza è il konzo, una paralisi acuta e irreversibile degli arti inferiori, spesso fatale, provocata dai cianidi del tubero. In dialetto kikongo, konzo è il nome di un ndoki, uno spirito maligno. “Perché qui la morte” spiega Chiara “è sempre il frutto avvelenato di un sortilegio”.
Chiara parla con entusiasmo dei suoi impegni. Oltre all’ospedale c’è l’Istituto superiore di medicina di Kenge, di cui è direttrice; ci sono le due scuole infermieri; la farmacia diocesana; le 16 unità sanitarie locali; le borse di studio per le donne della Fondazione Rita Levi Montalcini; il progetto infanzia e quello sui diritti umani. E c’è, soprattutto, il sogno di portare acqua e luce a Kimbau e nei villaggi della zona: l’impianto idroelettrico (diga sul fiume Nzasi, turbina in grado di produrre 10 mila kilovatt, condotte, linea elettrica) è ormai quasi ultimato. Chiara si occupa di tutto: raccolta dei fondi, contabilità, trasporto dei materiali, formazione del personale. Combattendo un’impari battaglia con i corrotti amministratori del territorio. Ha ricevuto minacce. Un suo autista è stato arrestato. Un amico medico è stato assassinato. Lei non ha mai ceduto.
Ecco l’ospedale, una vecchia struttura costruita dai belgi. Al chiarore delle lampade a petrolio Chiara entra in azione. Una donna è in gravi condizioni per un’emorragia interna: il bambino nato prematuro da un cesareo è morto. Serve plasma per la trasfusione, gruppo 0 positivo. Chiara offre il suo sangue, ma l’infermiere è categorico: “Sei troppo debole, hai appena avuto la malaria”. Per fortuna si trova un altro donatore. L’emoglobina risale, la donna è fuori pericolo.
Per la bimba nel padiglione pediatrico non c’è speranza. E’ in coma epatico, forse causato da leptospirosi, e ha il fegato spappolato. Chiara s’arrabbia con l’infermiera: “Perché non ha la flebo? Dove sono le siringhe da insulina? Cercatele in sala parto!” In un angolo buio la madre resta impassibile. Alle 5 del mattino Marie è spirata. Lo sguardo di Chiara vola lontano, assorto in un’intima preghiera. “Ogni morte è una sconfitta” sussurra. “Ogni vita salvata è una ragione per lottare”. Chiara riesce ancora a operare i casi urgenti, con la sua protesi e l’aiuto di un infermiere chirurgo, papà André. Due mesi fa ha salvato un uomo asportandogli un metro di intestino. “E’ stato Nzambi, Dio, a guidare le mie mani”.
In una stanza della missione dove alloggia Chiara ha installato il computer e un generatore. Può comunicare e ricevere la posta elettronica (www.kimbau.org) utilizzando il sistema via etere del packet radio: è il suo ancoraggio notturno con gli amici, con i genitori a Roma, con il pianeta Terra. Ma all’alba è in ospedale, dove le visite si susseguono senza sosta. Tutte le patologie conosciute sembrano concentrarsi nel piccolo ambulatorio: malaria cerebrale, meningite, tripanosomiasi (malattia del sonno), lebbra, tubercolosi, morbillo, filariosi, poliomielite, malnutrizione, onchocercosi (cecità dei fiumi), dissenteria, bilharzia, parassitosi, colera. Per l’aids non è ovviamente disponibile alcuna terapia antiretrovirale.
Nel pomeriggio, mentre Chiara esamina il cadavere di un giovane annegato nel fiume Inzia (“Un incidente” dice. “Forse era ubriaco. Forse cercava diamanti”), la radio lancia l’allarme: tre morti a Mumvuala, verso l’Angola. Si teme un’epidemia di febbre emorragica di Marburg, parente stretta del virus di Ebola. Partenza immediata, dopo aver caricato la jeep di antibiotici, materiale protettivo, siringhe, provette. Al calar del sole ci fermiamo a Lukuni Wamba dove Chiara passa la notte visitando l’intero villaggio: al lume di una lanterna, su giacigli improvvisati, bevendo ogni tanto un sorso d’acqua. “Un altro caso di konzo” sospira. “E ha anche la tubercolosi!”
A Mumvuala, un misero villaggio di capanne di paglia, i morti sono già cinque e una decina i malati gravi. Itterici, anemici, con tosse e scompensi cardiaci. Chiara, preoccupata, somministra massicce dosi di penicillina e di chinino, preleva campioni di sangue e di orina. “E’ febbre gialla. O leptospirosi. Ma non posso escludere Marburg: una donna ha del sangue nelle feci. Te la senti di portare i campioni a Kinshasa? Qui non siamo in grado di analizzarli e potrebbe essere necessario mandarli al Center for Desease Control di Atlanta”.
Dopo trentasei ore di quella maledetta strada ho consegnato la borsa isotermica con le provette al dottor Yogolelo, direttore del laboratorio di virologia dell’Istituto di ricerche biomediche di Kinshasa.
Pochi giorni fa ho ricevuto una mail da Kimbau: “L’epidemia è debellata. I malati sono tutti guariti!” Ancora una volta Chiara, il passero con un’ala sola, è riuscita a spiccare il volo.