Giovanni Porzio – da Karachi (15.11.10)
La casa di fango e di mattoni crudi è stata spazzata via dalla piena del fiume Kabul alla fine di agosto e da allora Anjuman, vedova di 50 anni, vive con i nove figli in una tenda ai margini del villaggio di Pashtun Ghari, a pochi chilometri da Peshawar e dal confine afghano. “Non abbiamo niente” racconta. “Ho perso la carta d’identità e non posso avere il cibo ai centri di distribuzione. Abbiamo bisogno di coperte e abiti pesanti: l’inverno si avvicina”.
A più di tre mesi dalle inondazioni della scorsa estate, quando le torrenziali piogge monsoniche hanno provocato lo straripamento dell’Indo e dei suoi affluenti, l’allagamento di 3,6 milioni di ettari di coltivazioni, la distruzione dei raccolti, l’esodo di 20 milioni di sfollati, la morte per annegamento di duemila contadini e di 1,2 milioni di capi di bestiame, sono ancora 7 milioni i pachistani che come Anjuman vivono ammassati nelle tendopoli allestite dall’esercito e dalle organizzazioni umanitarie. Ma nessuno ne parla. E la comunità internazionale, che si è mobilitata per le vittime del terremoto ad Haiti, ha reagito con lentezza.
Le ragioni sono molteplici: la scarsità dei fondi disponibili, la riluttanza dei donatori nei confronti di un paese ritenuto un santuario telebano, lo scetticismo sulla gestione degli aiuti affidati a un governo corrotto e incompetente, la sottovalutazione del disastro, l’indifferenza dei mezzi di comunicazione. “Non si è trattato di un evento cataclismico come uno tsunami o un terremoto, con migliaia di vittime e una massiccia esposizione mediatica” spiega Marie Lall, analista del Royal Institute of International Affairs di Londra. “Ma un quarto del paese è sommerso, le infrastrutture sono a pezzi e la carestia incombe. Con l’inverno sarà peggio: i contadini soffriranno la fame”.
A Pashtun Ghari il livello dell’acqua è sceso di un metro, ma i campi che riaffiorano sono coperti da uno strato di 30 centimetri di fango argilloso, duro come la pietra, che impedisce di seminare. “E comunque” sottolinea Diana Bassani del Cesvi, una delle ong italiane intervenute con progetti sanitari fin dai primi giorni dell’emergenza, “solo il 30 per cento dei coltivatori ha ricevuto le sementi. E intanto i prezzi sono saliti alle stelle”. Il costo del grano e dei fertilizzanti è raddoppiato. “Un sacco da 40 chili di foraggio per animali” conferma Anayat Ali, un allevatore che ha perso 100 capi di bufali e di vacche, “è balzato da 3 mila a 7 mila rupie”.
Scendendo lungo il corso dell’Indo in direzione del delta il paesaggio è ancora più desolato. Gli argini dei canali d’irrigazione, un complesso sistema costruito dagli inglesi nel secolo XIX°, che all’epoca era il più esteso al mondo, sono crollati trasformando immense distese coltivate in laghi e sterili paludi. Strade, villaggi, linee elettriche e ferroviarie, cimiteri, scuole, moschee, impianti industriali sono stati cancellati o sinistrati, con un danno economico stimato di oltre 10 miliardi di dollari. Le alture, le superfici asciutte e le periferie urbane sono invase dalle tende degli sfollati, che in molte zone possono spostarsi solo a mezzo di rudimentali piroghe e ricevere i soccorsi solo con gli elicotteri.
I profughi chiedono “pani”, acqua. Perché paradossalmente, in questo oceano paludoso e salmastro, è questa la necessità primaria di sopravvivenza. A Jamshoro, nella disastrata provincia meridionale del Sindh, il pool d’urgenza di Medici senza frontiere è impegnato senza sosta a distribuire acqua potabile, scavare pozzi, installare pompe a mano e latrine, depurare le riserve idriche. “La disponibilità e la qualità dell’acqua” spiega Elisabetta Faga, che coordina i programmi di emergenza, “sono in rapporto diretto con le condizioni igieniche e sanitarie e con l’alimentazione. I casi di colera, dengue e febbri emorragiche sono per ora sotto controllo. Ma il numero dei bambini malnutriti e gravemente denutriti è in continuo aumento”.
L’intervento di Msf in Pakistan è massiccio: a ottobre i 135 operatori dello staff internazionale e i 1.198 collaboratori locali avevano effettuato 50 mila visite mediche, distribuito 13.755 tende e un milione e 250 mila litri d’acqua al giorno, per una spesa complessiva d’emergenza di quasi 6 milioni di euro.
Nella tendopoli di Shahbaz Msf ha aperto un centro nutrizionale terapeutico e un altro per il trattamento della diarrea. Sotto un sole cocente centinaia di donne con i figli al collo attendono il loro turno alle transenne. I piccoli strillano, medici e infermieri lavorano dall’alba al tramonto: pesano, misurano, registrano, somministrano farmaci, consegnano buste di “plumpy nut” (un impasto proteico e vitaminico a base di noccioline, simile alla Nutella) e biscotti energetici “B-5”. “Visitiamo fino a duemila bambini al giorno” dice Elisabetta. “I più gravi, circa 300 negli ultimi due mesi, li smistiamo negli ospedali”.
Molte famiglie si sono rifugiate nei palazzi in costruzione del quartiere di New Labour, tra capannoni e fabbriche abbandonate: ruderi di un progetto di industrializzazione mai decollato. Davanti alla clinica mobile di Msf si è già formata una lunga fila. Anna Nava, etnopsicologa, spiega che il trauma della perdita della casa provoca ansia e depressione, ma che i problemi sono più profondi: “Riscontriamo un’altissima incidenza di patologie neurologiche e mentali dovute ai matrimoni consanguinei. E le donne subiscono violenze sessuali e psichiche inaudite: promesse in matrimonio all’età di 6-8 anni, costrette a sposarsi ancora bambine con uomini della stessa famiglia allargata, sono destinate alla riproduzione in serie e ai più faticosi lavori domestici. Il potere del capofamiglia è assoluto: se si ribellano vengono picchiate, ripudiate, uccise. La percentuale dei suicidi in Pakistan è la più elevata in Asia”.
Un’altra italiana, Ilaria Porta, coordina gli interventi sanitari di Msf nell’area di Dadu e di Johi, una cittadina completamente isolata: “Possiamo raggiungerla solo in barca” racconta. “E questo complica la logistica dei nostri interventi nei villaggi della zona, dove ancora oggi, a tre mesi dalla piena, siamo spesso i primi ad arrivare”. La strade di Johi sono pantani dove transitano carri trainati da asini e dromedari, qualche trattore e jeep cariche di sacchi di farina e di bidoni d’acqua. Le tendopoli sono infestate da mosche e zanzare. Ma la minaccia più insidiosa, perché invisibile, sta affiorando dal lento ritiro delle acque: le terre emerse, salinizzate e refrattarie alla semina di riso e cereali, risultano pesantemente inquinate dai reflui tossici drenati dalle zone industriali.
Il bacino dell’Indo era sotto stress anche prima dell’alluvione, e per i motivi opposti: la scarsità di acqua, deviata da dighe e canali irrigui che hanno arricchito i proprietari dei latifondi e impoverito la popolazione rivierasca. Nel delta la portata di acqua dolce ha subito una drastica riduzione, il flusso annuale del limo è precipitato da 440 milioni di tonnellate a meno di 50 e l’intero ecosistema, complici la deforestazione, il riscaldamento del clima e l’innalzamento del livello del mare, appare compromesso. Le inondazioni hanno rovesciato il precario equilibrio del sistema idrico concedendo ai pescatori un sollievo che, quando i fiumi rientreranno negli alvei, è destinato a rivelarsi effimero.
La crisi umanitaria non è la sola conseguenza del diluvio estivo. Le forze armate hanno dovuto distaccare per i soccorsi ingenti mezzi e più di 70 mila uomini, sottraendoli alle operazioni in corso contro i talebani al confine afghano e rinviando la prevista offensiva nel Nord Waziristan, roccaforte di al-Qaeda. L’amministrazione del presidente Asif Zardari non ha ancora approvato un piano credibile di ricostruzione. E non ha colto l’occasione per varare le urgenti riforme economiche, prime fra tutte quella fiscale (le imposte ammontano a un misero 9 per cento del Pil) e del commercio, auspicate anche dal ministro degli Esteri Franco Frattini durante la visita a Islamabad dello scorso 12 novembre, quando ha confermato gli 80 milioni di euro in contributi straordinari stanziati dal governo italiano.
La catastrofe, in un paese che si sveglia ogni mattina con un bollettino di guerra (kamikaze, autobombe, carneficine nelle moschee, scontri a fuoco, raid dell’esercito e della polizia), rischia di esasperare le tensioni politiche, sociali e religiose.
A Sehwan, qualche decina di chilometri a sud di Johi, pellegrini e dervisci affollano il mausoleo del venerato mistico sufi Hazrat Lal Shahbaz Qalandar, che nel XII° secolo predicava la tolleranza e la pace tra i popoli. Ma anche nel Sindh agricolo e feudale le madrase wahhabite si stanno diffondendo, con l’ormai consueto corollario di attentati alle moschee sciite e alle caserme della polizia. E la propaganda fondamentalista trova fertile terreno tra i diseredati e i contadini analfabeti che languono nei campi profughi. Molti dei quali non sembrano ansiosi di tornare ai villaggi d’origine, dove li attende un’esistenza da schiavi nelle piantagioni dei latifondisti.
Il grande lago Manchar è straripato. I villaggi e i casolari risparmiati dall’alluvione sono isole sull’infinita distesa azzurra che gli uomini attraversano a nuoto o in piroga, alla disperata ricerca di cibo e di aiuti. “Beviamo l’acqua del lago ma i bambini hanno la diarrea e la pelle che si squama” dice Rafiq del villaggio di Issakhan Burdi, 15 case e una trentina di famiglie. “La terra è salata, non possiamo piantare il riso” si lamenta Ajaz del villaggio di Kachi. “E noi siamo affittuari: dobbiamo dare due terzi del raccolto al padrone e siamo già indebitati fino al collo.
A Kachi, 400 abitanti, i contadini sono indebitati da generazioni. Le bambine non possono giocare con i maschi e non vanno a scuola: a cinque anni cominciano a lavorare ed escono di casa solo per lavare i panni. A Kachi tutta la terra appartiene a un solo proprietario: si chiama Murad Ali Shah. E’ il ministro dell’Irrigazione e dell’Energia della provincia del Sindh.