Collateral damage
Dopo cinque anni ci si abitua a tutto. Alle interminabili code ai check point dove i militari controllano i documenti e ispezionano il baule dell’auto, ai cani sniffatori e ai metal detector, alle barriere di cemento che intasano il traffico, ai blackout, ai colpi di mortaio, al frastuono dei Mig, al rombo delle esplosioni. Nessuno ci fa caso. La guerra è a due passi, a Jobar, a Daraya, alla periferia di Damasco; ma chi abita nei quartieri fortificati del centro finge di credere che sia lontana: nei distretti sciiti tormentati dai kamikaze, nei villaggi della Ghuta dove i caccia russi e siriani bersagliano i covi jihadisti.
Per sopravvivere ci si appiglia alla fragile tregua negoziata al Cremlino e alla Casa Bianca: l’unico spiraglio di luce nelle tenebre di un conflitto che ha già mietuto 300 mila vittime e disperso più di dieci milioni di profughi e di sfollati, oltre un terzo della popolazione siriana.
Chi può permetterselo, e non son pochi a Damasco, cerca di inventarsi un mondo normale. Nei fine settimana si fatica a trovare un tavolo libero nei caffè affumicati dai narghile di Bab Touma, l’antico quartiere cristiano. Nei saloni orientali dei grandi alberghi scorrono fiumi di whisky e di vodka. I sushi bar e i ristoranti in voga, zeppi di megaschermi sintonizzati sulla televisione russa, sono stipati di giovanotti incollati all’iPhone e di ragazze ipertruccate in uniforme da discoteca.
Il vento è cambiato. La scorsa estate, quando gli insorti avanzavano a Idlib, nella Siria centrale e nei sobborghi della capitale, nessuno avrebbe scommesso un soldo sulla tenuta regime di Bashar al-Assad. Ma l’intervento militare deciso da Vladimir Putin il 30 settembre ha modificato i rapporti di forza. L’appoggio determinante dell’aviazione di Mosca (oltre 9 mila missioni aeree) e la fornitura a Damasco di nuovi cacciabombardieri, mezzi blindati, tank T-90 e sistemi d’armamento hanno consentito all’esercito siriano di passare all’offensiva.
In pochi mesi, coadiuvate dall’Hezbollah libanese e da una nutrita schiera di consiglieri russi e iraniani, le forze regolari hanno riconquistato ampie fasce di territorio nel nord e nel centro del Paese, ripreso il controllo di 400 “zone popolate” nelle province di Aleppo, Homs, Hama e nella roccaforte alawita di Latakia, tagliato le principali rotte del contrabbando di petrolio e armi con la Turchia e liberato Palmyra. Nel sud l’esercito è riuscito a strappare a Jabhat al-Nusra il nodo strategico di Sheikh Maskin, all’incrocio delle strade che collegano la capitale alle alture del Golan e alle province di Suwaida e Daraa. La cittadina, distrutta dai bombardamenti e ora quasi del tutto disabitata, è di cruciale importanza per consolidare il dispositivo di difesa lungo i confini della Giordania.
La tregua ha congelato le forze in campo delineando uno scenario che per la prima volta dall’inizio del conflitto vede Assad in vantaggio sui suoi avversari, non solo sul piano militare. Mentre le frontiere del Califfato si vanno restringendo, lasciando prevedere un progressivo arroccamento in Iraq sull’asse Raqqa-Anbar-Mosul, dove lo Stato islamico mantiene basi logistiche, arsenali, leadership e consistenti nuclei organizzati, Assad sembra avere allontanato – almeno per l’immediato futuro – la prospettiva di un’umiliante resa dei conti. Le sue dimissioni non sono più all’ordine del giorno. La confusa e frammentata galassia degli insorti, compresa la fantomatica “opposizione moderata”, è sulla difensiva e i suoi sponsor, Turchia e Arabia Saudita in testa, non sono riusciti nell’intento di rovesciare il regime. Mentre la Russia e l’Iran, e di riflesso Bashar al-Assad, possono alzare la posta al tavolo dei negoziati di Ginevra.
Putin ha per due volte giocato d’anticipo: la prima volta spedendo le sue armate in Siria, la seconda ordinando il 14 marzo il loro inaspettato e parziale ritiro. Col doppio contropiede assestato a un’America assorbita dalla campagna per le nomination alle presidenziali di novembre e a un’Europa obnubilata dalla crisi dei migranti al punto di scendere a scellerati patti con Ankara (3 miliardi di dollari elargiti alla Turchia per tenersi 2,5 milioni di profughi), la Russia è rientrata in Medio Oriente da protagonista, come non accadeva dai tempi dell’Unione Sovietica.
Con la campagna militare ha dimostrato l’efficienza del proprio potenziale bellico e ha messo in chiaro che qualsiasi soluzione politica del conflitto dovrà passare anche per Mosca. Con l’annunciato disimpegno invita Washington a stemperare le tensioni accumulate in Ucraina (una nuova guerra fredda non giova al Cremlino, alle prese con il crollo dei prezzi petroliferi e la svalutazione del rublo), evita di impantanarsi in una guerra civile di lunga durata e manda un ambiguo segnale a Damasco: il sostegno al presidente siriano non è un assegno in bianco. Mosca sarebbe disposta a sacrificarlo se nel futuro assetto regionale i suoi interessi strategici – in primo luogo la base aerea di Hmeymim e quella navale di Tartous – venissero salvaguardati.
Il rientro di gran parte dei cacciabombardieri in patria e la riduzione del personale di terra non alterano del resto le capacità operative del contingente russo: restano i sistemi di difesa aerea S-400 e i droni a garantire la supremazia nei cieli; rimangono i consiglieri e i reparti speciali; e proseguono i raid sulle posizioni dei ribelli in molte zone del Paese. La tregua non implica infatti la fine delle ostilità. Il cessate il fuoco concordato in febbraio a Monaco non riguarda le formazioni definite “terroristiche” come Daesh e Jabhat al-Nusra, i due principali gruppi dell’opposizione armata, e le innumerevoli fazioni che si richiamano ad al-Qaeda e allo Stato islamico.
La parziale sospensione dei combattimenti e lo pseudo-ritiro russo hanno innescato alcuni incoraggianti sviluppi politici e diplomatici. A Ginevra sono ripresi i contatti tra le parti in conflitto, tenacemente coordinati dall’inviato speciale dell’Onu Staffan de Mistura con l’obiettivo di promuovere un governo di transizione a Damasco. E a soli quattro giorni dal comunicato di Putin sul ripiegamento russo ha fatto seguito, il 18 marzo, una dichiarazione-fotocopia del ministero della Difesa di Riyadh: in Yemen la coalizione a guida saudita che da un anno tenta di contrastare l’avanzata dei ribelli sciiti Houthi e di reinsediare a Sanaa il deposto presidente Mansour Hadi, ha deciso di “ridimensionare” l’intervento. I bombardamenti aerei indiscriminati su scuole, mercati e ospedali, che negli ultimi mesi hanno falciato migliaia di civili, saranno forse finalmente sospesi. Anche se è prematuro ipotizzare un raffreddamento delle guerre per procura che Ankara e le petromonarchie sunnite del Golfo stanno alimentando, in Siria come in Yemen, allo scopo di contenere la crescente influenza degli ayatollah di Tehran.
La spartizione di fatto della Siria in tre zone militari – l’esercito di Assad a Latakia e nel corridoio Damasco-Homs-Aleppo, i curdi nel nordest, i sunniti nel resto del Paese – sembra prefigurare una possibile soluzione federale. Tanto che i curdi hanno proclamato il 17 marzo la nascita della regione autonoma del Rojava (Kurdistan occidentale) nelle enclave di Afrin, Kobane, Jazira e nei territori liberati dai peshmerga siriani con il concorso attivo delle forze speciali americane. Ma è una prospettiva osteggiata non soltanto dal governo turco, che dai tempi di Ataturk conduce una spietata guerra all’irredentismo curdo. “A Mosca come a Washington” sottolinea De Mistura “la balcanizzazione della Siria è ritenuta il secondo peggiore scenario possibile dopo quello di una guerra totale. Sarebbe economicamente insostenibile e aprirebbe un’ulteriore fase di conflittualità permanente”.
A Damasco intanto Bashar al-Assad ostenta sicurezza. Ha indetto per il 13 aprile le elezioni per il rinnovo del parlamento. Mentre si cominciano a percepire i primi effetti tangibili della tregua: un accordo stipulato tra l’esercito e le milizie “moderate” consente alle agenzie dell’Onu e alle organizzazioni umanitarie di assistere i civili in ostaggio dei gruppi armati nella cintura della capitale. “Ieri abbiamo portato cibo e medicinali a Yalda” conferma il responsabile dell’Unrwa Michael Kingsley. “Il convoglio è transitato senza difficoltà dai check point dei due schieramenti”. Ma i bisogni sono immensi.
Secondo l’Onu 4,5 milioni di siriani vivono nei campi profughi in Turchia, Libano e Giordania; 7 milioni sono sfollati interni; più di 13 milioni hanno bisogno di assistenza. Le cifre sui bambini diffuse dall’Unicef sono drammatiche: 3,7 milioni (uno su tre) sono nati dopo l’inizio del conflitto; 8,4 milioni (l’80 per cento dell’intera popolazione infantile) subiscono le conseguenze della guerra; 3 milioni non vanno a scuola. E migliaia di minori arruolati nelle milizie sono addestrati all’uso delle armi e prendono parte ai combattimenti.
Distribuire gli aiuti è spesso una missione impossibile. Ci sono città assediate da Daesh o dall’esercito dove centinaia di migliaia di civili sono intrappolati da mesi: dopo essersi cibati di topi e gatti randagi sono ora costretti a nutrirsi di foglie e di erbe selvatiche. A Daraya, un sobborgo di Damasco dove il World food program non è autorizzato a entrare, il pane costa 30 volte più del prezzo di mercato. A Deir ez-Zour, occupata dallo Stato islamico e circondata dalle forze siriane, i 200 mila abitanti sono alla fame. “Daesh controlla tutta la zona dal confine iracheno a Raqqa” spiega il direttore regionale del Wfp Matthew Hollingworth. “L’unico mezzo per far giungere gli aiuti è lanciarli dal cielo. Il primo tentativo è fallito per le avverse condizioni atmosferiche. Ma abbiamo in programma altri lanci nelle prossime settimane”.
Le operazioni di soccorso sono rese più difficili dall’estrema frammentazione e volatilità dei fronti. “Non c’è un nemico e un esercito che lo combatte” afferma Hollingworth. “I gruppi armati sono numerosi e divisi in fazioni spesso in lotta tra loro: stringono alleanze di convenienza, magari per difendere interessi economici e politici locali, e poi disattendono gli accordi pattuiti. I voltafaccia improvvisi sono un rischio che non possiamo sottovalutare”.
I costi umani e materiali del conflitto sono impressionanti. Basta allontanarsi dal centro di Damasco per camminare sulle macerie della Siria. E per scontrarsi con una dura realtà: quella degli ospedali a corto di medicinali, di personale e di attrezzature sanitarie, quella dei senzatetto accampati negli stadi e nelle scuole, quella dei giovani senza lavoro e delle famiglie che tirano a campare con stipendi sempre più irrisori. Alla borsa nera il dollaro, che all’inizio della guerra valeva 40 lire siriane, è schizzato a più di 420, e il costo della vita è cresciuto a dismisura. L’economia è paralizzata, mentre lo sforzo bellico assorbe la quasi totalità del bilancio dello stato, che rischierebbe di fallire senza gli aiuti della Russia e dell’Iran. Gli impianti tessili e meccanici sono al collasso. Un siriano su due ha perso la casa. Tre su quattro vivono in povertà. E a imboccare la via dell’esilio non sono soltanto i contadini in fuga dalle campagne spopolate: sono anche medici, ingegneri, tecnici specializzati, insegnanti e professionisti la cui assenza si fa sentire.
A ridosso delle infinite e mutevoli linee del fronte, nelle zone sotto controllo militare alla periferia di Damasco, il paesaggio è quello lugubre e depresso di tutte le guerre: la puzza di gasolio e di bruciato, le barricate e le postazioni di sacchetti di sabbia, i tortuosi percorsi su strade secondarie, le case sventrate, gli edifici abbandonati crivellati di proiettili e quelli ancora abitati ma privi di finestre, di luce e di fognature, i vecchi con la kefiah seduti a guardare nel vuoto tra le carcasse delle auto e i mucchi dei rifiuti assaliti dalle mosche. A Jaramana un’anziana donna avanza a fatica su una sedia a rotelle osservando i bambini che giocano tra pecore e rottami, mentre un camion pieno di uomini con il Kalashnikov barcolla sulle buche dell’asfalto. “Eravamo un popolo fiero e dignitoso” dice la donna. “Ora non siamo che dei mendicanti”.
In un campo profughi di Jdaydat, a sudovest di Damasco, ogni sfollato ha una storia da raccontare. Sabah Said al-Helwani, 60 anni, vedova con sette figli, è scappata da Daraya di notte con tutta la famiglia quando le milizie hanno attaccato. “Pensavamo di tornare presto a casa” dice. “Invece siamo ancora qui”. Abeer, sua nuora, aveva solo 13 anni quando ha sposato Sliman: ha avuto un aborto ed è in attesa di un altro bambino. Nessuno nella famiglia di Sabah ha un lavoro. Awad Ahmad, sfollato con due figlie piccole e una giovane moglie, è più fortunato: guadagna 24 mila lire siriane al mese, 50 dollari al mercato parallelo, in una fabbrica di carni insaccate. “Qui almeno siamo al sicuro” dice. “Nel condominio dove abitavamo era impossibile restare: raffiche di mitra, colpi di mortaio, miliziani armati che entravano in casa. Le bambine erano terrorizzate”.
Si calcola che per ricostruire le infrastrutture e le città rase al suolo – un business su cui Mosca ha già allungato le mani – siano necessari tra i 160 e i 200 miliardi di dollari: il triplo del Pil d’anteguerra. Ma nessuno può calcolare il prezzo che le prossime generazioni dovranno pagare per ricucire il tessuto sociale frantumato dai lutti, dall’astio religioso, dalle pulizie etniche e settarie.
Il campo palestinese di Yarmouk, a due passi dal centro di Damasco, è un microcosmo dell’infernale conflitto siriano: un quartiere che il dottor Jamal Hammad, responsabile della Mezzaluna rossa, conosce bene: “Ci vivevano 200 mila persone: ne sono rimaste meno di 12 mila. Io sono uscito da pochi mesi, quando i miliziani che ci minacciavano di morte hanno ucciso due membri del nostro staff: un farmacista, Yahya Horani, un mio caro amico, e un infermiere, Diab Mahanna. Adesso a Yarmouk, dove non ci sono ospedali, non c’è più un solo medico”. Hammad racconta di bambini denutriti, di malati e di partorienti che muoiono per mancanza di farmaci, di abitazione confiscate, di esecuzioni sommarie, di civili usati come scudi umani, di ragazzine stuprate o date in spose ai jihadisti. Un terzo del campo è controllato dai combattenti palestinesi del Fronte popolare di liberazione-Comando generale di Ahmed Jibril. Il resto è nelle mani di Daesh, di Jabhat al-Nusra e di raggruppamenti minori d’incerta emanazione e di dubbia ascendenza ideologica.
Al margine del campo, in un ambulatorio con tre brande e due infermiere ricavato in un sottoscala, il dottor Ghassan al-Zeinati prodiga le prime cure ai feriti d’arma da fuoco e da schegge di mortaio. “Yarmouk” dice “non è incluso nella tregua. Siamo l’unico centro per le urgenze in tutto il distretto ma non siamo attrezzati: i casi più gravi li mandiamo con l’ambulanza nell’ospedale più vicino”. L’Unicef e l’Unrwa fanno il possibile per alleviare le sofferenze della popolazione civile. Da alcune settimane riescono a far pervenire dai quartieri limitrofi gli aiuti di base: coperte termiche, abiti, medicinali, biscotti energetici, kit per la diarrea e la malnutrizione. Ma non basta: l’acqua scarseggia ed è contaminata, l’elettricità funziona a singhiozzo.
È già buio quando un comandante che si fa chiamare Abu Ali mi accompagna all’interno del quartiere. “Cammina lungo i muri” avverte. “Daesh è a meno di 500 metri da qui”. Le strade sono deserte. I combattenti palestinesi, che presidiano una delle prime linee di difesa della capitale, hanno steso nei vicoli grandi tende di stoffa per chiudere la visuale ai qannas, i cecchini, e si spostano utilizzando gallerie scavate tra i caseggiati in rovina. Passiamo accanto a ruderi calcinati, montagne di detriti, crateri di bombe, auto carbonizzate, scheletri di edifici da cui penzolano blocchi di cemento e tubi di metallo. Saliamo a tentoni una rampa di scale senza parapetto fino al terzo piano di una palazzina fatiscente ed entriamo in casa di Rimal.
Ha 30 anni e uno sguardo dolce che s’intenerisce mentre allatta la figlia nella stanza del minuscolo appartamento dove è rifugiata con il padre, la madre, due sorelle e Mustafa, il marito di cui è di nuovo incinta. In un angolo, accanto al fornello a gas, c’è il secchio dell’acqua potabile e dal soffitto scrostato tremola la tenue luce di una lampadina. Il fronte è vicino: le spoglie pareti, investite da un colpo di mortaio, sono scheggiate e annerite. L’unica finestra è schermata da un foglio di plastica. Mustafa è steso su un materasso e non può alzarsi: un ordigno improvvisato gli ha strappato le gambe mentre combatteva contro le milizie di Daesh.
Rimal insiste per offrirmi un caffè. Poi mi saluta con una domanda alla quale non ho saputo rispondere: “Quando finirà questa guerra maledetta?”