Deadly powder
Afghanistan, May 2018

 

Sono fantasmi. Nessuno li vede, nessuno ci fa caso. Ma a Kabul sono migliaia, decine di migliaia. E sono dappertutto: sui marciapiedi e nelle aiuole spartitraffico, nei giardini e nelle discariche di rifiuti, nei magazzini abbandonati e nei ruderi delle case distrutte dalla guerra. Al calar del sole si trascinano barcollando lungo i muri di cemento armato a prova di autobomba e vanno a rintanarsi nelle viscere della città: sotto i ponti, nelle condutture dell’acqua, nei canali di scolo. Poder, la “polvere”, costa poco in Afghanistan, un dollaro per due dosi di eroina. E i ranghi del disperato popolo dei tossici continuano a ingrossarsi.

Di notte l’argine del fiume, un fetido rigagnolo intasato di spazzatura e di liquami, si accende di fiammelle azzurre: i fornelli a gas per modellare le pipe di vetro, arroventando sul fuoco tubi di luci al neon e fiale recuperate negli ospedali e nelle farmacie. Intorno, una calca di volti ossuti e affamati, occhi febbrili illuminati dai bagliori delle fiamme, mani che arrotolano cannucce di stagnola. E il frenetico clic degli accendini sotto i dastmal, le sudicie sciarpe che scendono a tenda dal capo per raccogliere ogni sbuffo del fumo da inalare.

Sono centinaia sotto il ponte dello zoo. Vagano nel buio in cerca di una bustina per farsi o di una sigaretta. Alcuni vendono per pochi spiccioli accendini, ricariche di gas, pipette. Altri scavano buche nel fango per passarci la notte, raggomitolati in stracci, pezzi di cartone, fogli di plastica.

“Mi chiamo Amin” dice uno. “Ho 26 anni ed ero nelle forze speciali dell’esercito. Rischiavo la pelle per un salario miserabile. Quando mi sono sposato ho cercato un altro lavoro, ma sono finito qui”.

“Anch’io ero militare” interviene Khalil, 23 anni. “Nei servizi segreti, a Taghab, nel Badakshan. Il mio comandante fumava eroina, è così che ho cominciato. Sono qui da due settimane”.

Si forma un capannello. Hanno voglia di parlare. Mahdi ha 15 anni e si droga da quando ne aveva sette. È un hazara di Daikundi, provincia di Bamyan. Guadagna qualche soldo gridando i nomi delle destinazioni alle fermate dei minibus, per radunare i passeggeri. “È stato mio padre” racconta “a farmi fumare. Adesso è in giro, da qualche parte, a cercare la roba. Siamo qui da cinque anni, il resto della famiglia è rifugiato in Iran”.

Najibullah è arrivato quattro anni fa dal sud: Maidan, provincia di Wardak. “Ero nella polizia” dice. “Ma se torno i taliban mi ammazzano. Mio fratello Mu’min è venuto per riportarmi a casa: ha provato l’eroina e non se n’è più andato”. Naim, 44 anni, si droga per disperazione: suo fratello e uno dei suoi otto figli sono morti nell’Helmand in un attentato. Hassan, deportato dall’Iran, fuma per soffocare l’angoscia: da due anni non ha notizie della sua famiglia.

Kubad, invece, resta a lungo in silenzio. Aspira una dose di shisha, i micidiali cristalli di eroina. Sputa e tossisce a lungo, poi mi fa cenno di seguirlo in un recesso oscuro, sotto un riparo di lamiera e lacere pezze di stoffa. “Ho combattuto per otto anni nel Wardak con i taliban” sibila d’un fiato, a bassa voce. “Ho detto ai miei genitori che andavo in Iran a cercare lavoro, invece mi sono unito agli insorti. Ogni mese mi davano la paga”. Si slaccia il kamiz e mostra la cicatrice che gli attraversa il torace. “Sono stato ferito. E ho ucciso molte persone, non so quante. Sono stato arrestato a un posto di blocco, ma sono riuscito a fuggire. Questa fogna è la mia casa, il mio nascondiglio. So che morirò qui”.

Ogni tanto, per le feste islamiche o durante il Ramadhan, le ong locali organizzano una distribuzione di viveri: bottiglie d’acqua e una scodella di palau, riso condito con grasso di montone e legumi. Salma Yusufszai, che vive negli Stati Uniti, ha creato SHE (Support-Health-Education), una piccola associazione umanitaria. “Ho comprato 700 dollari di cibo” dice mentre i volontari scaricano il camion e i tossici si mettono in fila. “È poco, quasi niente lo so, ma di più non possiamo fare”.

Il capo della squadra antinarcotici della polizia, che tutti chiamano Mudir Sahib, “Signor Direttore”, scende dalla sua Toyota blindata e sorveglia la distribuzione, coadiuvato da una dozzina di agenti dei servizi di sicurezza in assetto di guerra. “Precauzioni necessarie” afferma. “Oggi abbiamo già avuto due allarmi-autobomba e una sparatoria in strada”. Sfila di tasca un pacchetto e illustra la merce: oppio dell’Helmand, hashish del Badakshan (“il migliore, si serva pure..”), marijuana, bustine di eroina. Da un’altra tasca estrae una confezione di “Tablet K”, una potente droga sintetica: “Queste pastiglie sono per i ricchi” spiega l’affabile Mudir Sahib. “Non costano meno di 20 dollari l’una”.

Il prezzo dell’eroina, invece, è ai minimi storici grazie al raccolto record di oppio del 2017: 9.000 tonnellate contro le 4.800 del 2016. L’ultimo rapporto dell’Unodc, l’agenzia antidroga delle Nazioni Unite, pubblica dati allarmanti. In un solo anno la superficie coltivata a taryak, l’oppio, è cresciuta del 63 per cento, con punte del 79 per cento nell’Helmand, mentre solo 10 delle 34 province afghane sono classificate “poppy free”. L’aumento della produzione, sottolinea il rapporto, è dovuto a un insieme di fattori: l’instabilità politica, l’assenza di controlli, la corruzione, il disimpegno della comunità internazionale, l’uso intensivo di fertilizzanti e di pesticidi, lo sviluppo delle tecniche agricole e dei sistemi d’irrigazione.

Se la maggior parte degli oppiacei afghani – più del 90 per cento del totale mondiale – viene contrabbandata all’estero generando profitti illeciti per 65 miliardi di dollari (e “danni collaterali” stimati in centomila decessi l’anno per overdose), l’impatto sull’economia e la società locale non è meno devastante. Il numero dei tossicodipendenti da droghe varie, sintetiche e naturali, oscilla tra i due e i tre milioni, quasi il 10 per cento dell’intera popolazione; mentre i consumatori abituali di eroina sono aumentati del 140 per cento in dieci anni.

La monocoltura del papaver somniferum, utilizzato fin dai tempi dei Sumeri per le sue proprietà analgesiche, è ormai la principale industria del Paese: vale sul mercato afghano un miliardo e mezzo di dollari l’anno, il 7 per cento del Pil, occupa più della metà delle terre irrigate ed è l’unica fonte di sostentamento per milioni di contadini. Dalla commercializzazione dei suoi derivati, eroina e morfina, scaturisce il fiume di denaro che consente ai taliban e ai gruppi terroristici di assoldare le milizie, di procurarsi armi, esplosivi, mezzi di trasporto e di comunicazione. È un business in cui tutti ci guadagnano: agricoltori e trafficanti, politici e uomini d’affari, jiahdisti e militari, poliziotti e capitribù.

La filiera è perfettamente oliata. I contadini vendono l’oppio ai commercianti, che riscuotono gli interessi sui prestiti concessi per l’acquisto dei semi e dei fertilizzanti (è il salaam, crediti ottenuti come pagamento anticipato sul raccolto); le milizie che presidiano i campi, i depositi e i laboratori per la raffinazione incassano l’ushr, un’imposta del 10 per cento sui coltivatori, e la zakat, il 20 per cento sulle transazioni; i poliziotti, i comandanti militari e i funzionari del governo intascano adeguati bakshish; i trafficanti importano i precursori chimici necessari per trasformare l’oppio in morfina-base, eroina-base ed eroina pura, che confezionata in sacchetti da un chilo con tanto di cartiglio augurale (“Paradise”, “Diamond Sky”) e certificato di qualità (grado di purezza e zona di produzione) viene trasferita all’estero.

Le vie del contrabbando sono note. Attraverso il Pakistan e l’Iran l’eroina raggiunge il Medio Oriente e l’Africa; la rotta settentrionale percorre l’Asia centrale e sfocia in Europa dal Caucaso e dalla Russia o, più a sud, passando per la Turchia e i Balcani; a est la droga entra in Cina dal Xinjiang per finire sui mercati di Pechino, Shanghai e Hong Kong. Il trasporto si effettua con tutti i mezzi disponibili: camion, auto private, pacchi postali, facchini appiedati. Nel Wakhan il taryak, come la seta all’epoca di Marco Polo, viaggia sulle carovane di yak e di cammelli che i nomadi kirghizi conducono oltre i passi innevati del Pamir. Nel deserto del Beluchistan la polvere bianca transita in convogli scortati da bande armate di lanciarazzi e dotate di telefoni satellitari.

A Kabul intanto, mentre i narcodollari finanziano i cantieri degli alberghi e dei centri commerciali, eroina e sostanze sintetiche si diffondono in tutti i segmenti della società: uomini, donne, anziani, ragazzini, studenti, disoccupati. E la tossicodipendenza è in preoccupante ascesa tra i militari e le forze di sicurezza.

“L’80 per cento dei poliziotti fa uso di droghe” sostiene Mohammed Nassim Alizada, responsabile della comunità di recupero Mother Camp. Forse esagera. Ma in assenza di statistiche è difficile non dargli credito: per metà della sua vita ha indossato la divisa, per 36 anni ha fatto uso di oppio, eroina e shisha, nel 2010 ha perso le gambe saltando su una mina e ha passato quattro anni sotto i ponti della città. “Il governo non fa alcun tipo di prevenzione” dice. “Se si conta anche chi fuma hashish, metà della popolazione afghana è intossicata”.

La comunità, che non ha fini di lucro ed è finanziata dalla sua fondatrice, Leila Haidari, può ospitare fino a 60 pazienti. Il trattamento è duro: nessun farmaco, cinque giorni di astinenza totale e docce fredde, due o tre mesi di esercizi fisici e di assistenza psicologica. “Non c’è altro modo” spiega Alizada. “Gli ospedali sono pieni di drogati imbottiti di sedativi: non servono a niente. Col nostro metodo qualche risultato lo otteniamo: mille dei seimila pazienti avuti in cura dal 2010 ce l’hanno fatta”.

Abdel Khaleq, 37 anni, è alla fine di un difficile percorso: “Ho sgobbato per quasi dieci anni a Tehran come manovale. Per farci lavorare di più ci davano eroina e shisha. Adesso sto bene, mi sento pronto a ritornare a Ghazni da mia moglie e dai miei figli”. I legami di sangue sono l’ultima speranza, l’ancora a cui aggrapparsi. Ma Reza, 26 anni e uno sguardo d’infinita tristezza, dovrà provare a farcela con le proprie forze: di lui, genitori e fratelli non vogliono più saperne. “Non so neppure dove siano. Ho paura” dice. “Paura di tornare sotto quel ponte. E di morire da solo”.