Darfur, Ciad, March 2004

Giovanni Porzio – da Musbet, Darfur

Il minareto si erge come una solitaria sentinella su un paesaggio di morte e distruzione. Gli elicotteri e gli Antonov hanno risparmiato solo la  moschea del villaggio di Musbet, crocevia di carovane nella desolata savana del Darfur settentrionale. Avanziamo con cautela tra le capanne incenerite, scavalcando le granate inesplose e i crateri aperti dalle bombe: la popolazione è fuggita, i granai sono bruciati, i cadaveri degli animali marciscono sotto un sole spietato.

Mentre il ventennale conflitto che ha mietuto 2 milioni di vittime in Sudan si avvia alla conclusione con la firma di un accordo tra il regime di Khartoum e i ribelli di John Garang (autonomia del sud cristiano-animista e spartizione delle riserve petrolifere valutate in 2 miliardi di barili), un’altra guerra di sterminio devasta l’arida regione limitrofa al Chad.

Lanciata lo scorso anno da due gruppi armati, il Sla (Sudan liberation army) e il Jem (Justice and equality movement), che accusano il governo di discriminare le tribù africane a vantaggio degli arabi, la rivolta – secondo il coordinatore delle Nazioni Unite per il Sudan, Mukesh Kapila – ha scatenato una selvaggia pulizia etnica e provocato “la più grave crisi umanitaria in corso nel mondo”. Un milione di sfollati vaga alla disperata ricerca di cibo tra i villaggi (più di duemila) rasi al suolo. I morti sono migliaia. Oltre centomila profughi si sono riversati in Chad, dove sopravvivono a stento sparpagliati lungo i 600 chilometri del confine. “Siamo di fronte” ha aggiunto Kapila “a un tentativo di genocidio paragonabile, nel metodo se non nelle proporzioni, a quello del 1994 in Rwanda”.

Un genocidio senza testimoni. Il governo di Khartoum ha dichiarato il Darfur zona militare e impedisce il libero accesso ai giornalisti e alle organizzazioni umanitarie. I volontari di Msf, che assistono i malati e i feriti alla frontiera, sono costretti a rimanere in territorio chadiano. “E fra pochi mesi, con la stagione delle piogge, le piste dell’interno saranno impraticabili” spiega il responsabile per l’emergenza dell’Unhcr Yvan Sturm. Le poche notizie che filtrano descrivono orrori senza fine: il villaggio di Tawilah è stato incendiato, 75 persone sono state massacrate, centinaia di donne e bambini sono stati rapiti, 41 ragazze di una scuola sono state stuprate davanti ai genitori.

E’ notte quando oltrepassiamo il wadi Howar ed entriamo clandestinamente nel Darfur. Un convoglio di quattro Toyota cariche di guerriglieri armati di Kalashnikov e lanciagranate ci attende, mimetizzato tra gli arbusti e gli alberi di gomma arabica. Alcuni sono giovanissimi, quasi tutti di etnia zaghawa, la bellicosa tribù maggioritaria nella zona. Appesi al collo e alla cintura portano collane di amuleti: tessere di cuoio che racchiudono i versetti del Corano e prolungano la vita.

Viaggiamo in direzione nordest, poi verso sud lungo il letto asciutto del wadi Sinin, tra l’ocra delle dune e i tavolati di roccia bruna sferzati dal vento infuocato. A mezzogiorno il cielo, offuscato dalle tempeste di sabbia, è di un bianco incandescente. Incontriamo capanne carbonizzate, villaggi abbandonati, carcasse di asini, montoni, cammelli. “Molti pozzi” avverte Abdel Rahim Arga, laureato in legge al Cairo, che ha lasciato il lavoro per arruolarsi nel Sla, “sono stati minati e avvelenati”. I ribelli si sfamano cacciando antilopi e gazzelle che cuociono sulle braci, dopo la preghiera del tramonto. All’alba smontano i fucili automatici e li lubrificano con il midollo degli animali. Le unità della guerriglia si spostano in continuazione per non essere individuate dagli elicotteri dell’esercito. Conoscono ogni anfratto del territorio, ogni increspatura del deserto, ogni sentiero che si snoda nella savana. Il Thuraya, il telefono satellitare portatile, consente ai comandanti di mantenere i contatti, scambiarsi informazioni sui movimenti del nemico, pianificare agguati e imboscate.

Dopo tre giorni raggiungiamo le alture del wadi Koro, a tre ore di jeep da Musbet: la base dove il capo militare del Sla, Minni Arcou, accampato con un centinaio di ribelli, ha fissato l’appuntamento. Parla un perfetto inglese, ha nella fondina una pistola Taurus brasiliana e ci accoglie seduto su una stuoia all’ombra avara di un’acacia spinosa: “Benvenuti nel territorio liberato” dice. “In questo momento siete gli unici giornalisti in Darfur”.

Arcou sostiene di non ricevere alcun sostegno dall’estero, anche se tra i massi sono accatastate casse di munizioni della Jamahiriya libica e alcuni “boys” indossano T-shirt con l’effigie del colonnello Gheddafi: “Sequestriamo armi, veicoli, carburante e sistemi di comunicazione ai soldati governativi. L’esercito controlla le città, come Al-Fasher e Nyala, e le strade principali. Ma è statico e poco motivato: la maggior parte dei malpagati coscritti è originaria del Darfur. Noi invece siamo in grado di colpire infliggendo pesanti perdite e di scomparire nel nulla”. Una strategia di lotta che punta a internazionalizzare il conflitto con l’obiettivo di ottenere, all’interno di un sistema federale, un’equa ripartizione delle risorse locali (agricoltura, allevamento, miniere di ferro) ora nelle mani degli arabi.

“Anche oggi” continua il comandante Arcou, che assicura di poter mettere in campo “migliaia” di guerriglieri addestrati, “abbiamo impegnato il nemico a ovest di Al-Fasher. Abbiamo perso 17 combattenti e ucciso 150 militari. Khartoum vuole fare terra bruciata: gli Antonov, i Mig e gli elicotteri sganciano missili e bombe a frammentazione contro i villaggi per costringere i pastori e i contadini ad abbandonare la terra e a rifugiarsi in Chad”. Giungono voci di altri combattimenti più a sud, nel fertile Darfur centrale e meridionale, e sul massiccio del Jebel Marra, inaccessibile roccaforte della resistenza e del suo leader politico, Abdelwahid Mohammed Ahmed Nur.

Alcuni sfollati si nascondono nelle caverne o tra i cespugli del wadi. Hawa, un’anziana donna con le gote scavate dalle rughe e dalla fame, è rimasta nella sua capanna di rami secchi: “Gli aerei hanno bombardato l’altro ieri” racconta. “Gli animali sono scappati. Due bambini sono spariti. E adesso possono arrivare i janjawid”.

Sono le milizie arabe irregolari a seminare il terrore tra i civili in questa regione senza scuole, senza luce elettrica, senza ospedali, da secoli teatro di scontri e conflitti culturali tra i “negri” sedentari e gli invasori nomadi venuti dal nord. I “janjawid” (cavalieri armati) piombano all’improvviso sulla popolazione inerme in bande di centinaia di uomini in sella a cavalli e dromedari o a bordo di veloci pick-up: uccidono, saccheggiano, stuprano le donne, razziano il bestiame, rapiscono i bambini e li vendono come “abid”, schiavi, nelle piantagioni sulle rive del Nilo.

Alle cisterne di Musbet un vecchio dagli occhi spaventati, Ali Isa Abdullahi, abbevera le sofferenti pecore scampate alle razzie. Ogni tanto si zittisce e guarda il cielo color rame: dove c’è acqua si raduna la gente, e dove c’è gente piovono le bombe degli Antonov. “Di cosa vivremo durante le piogge? I janjawid” dice “hanno dato fuoco alle scorte di cereali. E prima di andarsene hanno trucidato due ragazze incinte”.

I sopravvissuti si nascondono a un giorno di marcia, negli avvallamenti della boscaglia, in recinti di rovi dove bambini seminudi e denutriti aspettano muti, tra fagotti di stracci e taniche di plastica, l’unico pasto possibile: il “gowo”, una melma verdastra di erbe e farina di miglio che le donne macinano su rudimentali mole di pietra. Bahita, 34 anni, ha perso il marito e non sa come nutrire i quattro figli che, affetti da dissenteria, continuano a deperire. Il suo sguardo è buio come un pozzo inaridito e il suo volto sembra intagliato nell’ebano più duro: nel primo bombardamento di Musbet, il 5 luglio, una scheggia le ha strappato il braccio sinistro. Sul moncherino la ferita, ancora aperta, spurga sangue e siero purulento: Bahita non riesce più a raccogliere la legna per il fuoco.

Sotto un arbusto riarso alcuni uomini con turbante e tunica bianca leggono il Corano. Celebrano il rito funebre per Mukhtar Bush e i suoi due compagni, partiti in cammello alla volta del villaggio di Kutum in cerca di miglio: intercettati dai janjawid, sono stati rapinati e uccisi. I loro corpi insepolti saranno cibo per le iene e gli avvoltoi.