Cuba sin Fidel
Adesso l’urna con le ceneri riposa nel cimitero di Santa Ifigenia a Santiago sotto un grande blocco di granito su cui è inciso soltanto il nome, Fidel. Ed è difficile non pensare a quel masso come alla pietra tombale della Revolución, ispirata e impersonata dal guerrigliero barbuto sceso sessant’anni fa con un manipolo di compagni dalle selve della Sierra Maestra per restituire orgoglio e dignità al suo popolo.
La maggioranza dei 12 milioni di cubani, nata dopo il 1959, ha conosciuto un solo capo, un solo lider maximo, un solo credo da abbracciare o da combattere, un solo mito in cui identificarsi o consolarsi. Ora la rivoluzione è orfana. Anche se la malattia aveva da tempo costretto Fidel a ritirarsi dalla scena pubblica cedendo le redini del governo al fratello Raul, anche se i suoi interminabili discorsi sotto la gigantesca effigie del Che all’Avana erano già un lontano ricordo, la scomparsa fisica del Comandante en jefe lascia un vuoto: incolmabile per chi lo ha venerato, indelebile per chi lo ha criticato. Perché la sua presenza riempiva ogni interstizio della società e della vita dell’isola, che si scopre oggi sospesa tra le certezze del passato e le ansie di un futuro carico di insidie.
“Non sappiamo cosa potrà accadere, tutti gli scenari sono possibili” dice Senel Paz, autore di numerosi adattamenti cinematografici tra cui il soggetto del celebre Fragola e cioccolato, tratto da un suo racconto sul tema dell’omosessualità. “Con la morte di Fidel e le dimissioni di Raul, previste nel 2018, si sta chiudendo un ciclo. E il regime non è un monolite: ci sono tendenze contrapposte, nel partito come nella società. Cuba ha realizzato ambiziosi programmi nell’istruzione e nella sanità, ma non ha fatto progressi in campo economico e nei diritti civili. La censura, la repressione del dissenso e l’impossibilità di viaggiare liberamente sono ormai prive di senso”.
Paz, tra gli organizzatori del Festival del cinema latino-americano dell’Avana, non nasconde la propria irritazione nei confronti dei burocrati della cultura. “La produzione cubana, un tempo di primo livello, è scaduta. Si accettano solo film di contenuto politico e sociale, mentre i giovani cineasti vorrebbero rappresentare la realtà quotidiana, con le sue contraddizioni, le sue storie, i suoi amori. Qui la gente dice che Cuba ha solo due problemi: il pranzo e la cena. La propaganda è invece trincerata in una terminologia surreale, intrisa di eroismi, morti gloriose e fulgide vittorie: parole e concetti che appartengono a un’epoca tramontata e che comunque nessuno ascolta”.
Altra cosa era Fidel: uno straordinario comunicatore, geniale fino all’ultimo respiro. Vietando ogni forma di culto della personalità (per suo volere niente busti, epigrafi, strade o piazze dedicate) si è posto su un piedistallo ancora più alto: non ci saranno statue del Comandante da abbattere. Il suo impossibile sogno s’infrange piuttosto sulle difficoltà della vita di ogni giorno: i salari da fame, la crisi degli alloggi, l’economia che ristagna. “È morto Fidel” ha twittato la scrittrice dissidente Wendy Guerra. “Ma è come fosse morto da tanto tempo”. Eppure anche lei riconosce che “se n’è andato l’uomo da cui è passato il destino di tutti i cubani”.
A piangere sono soprattutto gli anziani come Carlos Fuente, pensionato di 70 anni, ex marinaio su navi da pesca. “Prima della rivoluzione” racconta “vivevamo nell’ignoranza e nella miseria. I miei genitori erano contadini: tagliavano la canna da zucchero nelle piantagioni di Cienfuegos e vivevano in una baracca senz’acqua e senza luce elettrica. Poi, con la riforma agraria, hanno avuto un pezzo di terra. E io ho potuto studiare. La nostra esistenza è cambiata. Ho una casa e i miei figli sono andati all’università”. I giovani, quelli che hanno conosciuto il lider maximo sui testi scolastici, sono più interessati a chattare su Facebook che a discutere di politica. Mariana, 19 anni, iscritta a ingegneria civile, aspetta solo l’occasione di partire: “Voglio poter scegliere come vivere, cosa leggere e come fare il mio lavoro” dice. “Ma rispetto Fidel per quello che ha fatto”.
Come spiega il ministro della Cultura Abel Prieto, “a Cuba il 100 per cento della popolazione infantile è scolarizzato, in ogni istituto c’è un computer, l’assistenza sanitaria è gratuita e la speranza di vita è di 77 anni”. I neonati non muoiono di malaria o di dissenteria come negli altri Paesi del terzo mondo. I bambini non si bruciano il cervello sniffando colla sui marciapiedi come nelle periferie di Rio e di Buenos Aires; e non rischiano una pallottola in testa come nei barrios di Caracas e di Città del Messico. “Qui la povertà non è indecente” afferma il romanziere uruguayano Daniel Chavarria, sbarcato all’Avana nel 1969 dopo avere dirottato – pistola alla mano – un bimotore Beechcraft diretto a Bogotà. “Io non mi faccio illusioni sul futuro dell’isola, ma penso che questa sia una delle società più degne del pianeta”.
Chavarria, che prima di diventare lo scrittore più venduto di Cuba è stato militante comunista, contrabbandiere, cercatore d’oro e fiancheggiatore della guerriglia colombiana, rivendica con orgoglio la patente di orfano della Revolución: tanto che intende proporre all’Unesco di dichiarare Fidel patrimonio dell’umanità. “Era un idealista” dice. “Un visionario che ha lottato per una società più giusta, più umana, senza classi e senza privilegi. Ed è stato per questo una fonte di ispirazione per i popoli oppressi del mondo. Certo, ha commesso molti errori: il romanticismo non funziona nell’economia. Servono pragmatismo e flessibilità, mentre Fidel non ha mai deviato dal suo progetto iniziale”.
Anche un irriducible come Chavarria è scettico sulle timide riforme dell’ultimo decennio: “La produzione agricola non è mai decollata, mentre sono cresciute le disuguaglianze tra chi è nel circuito dei dollari e del commercio privato e chi percepisce uno stipendio in pesos, pari a meno di 25 dollari al mese”. Persino il sistema sanitario comincia a deteriorarsi: negli ospedali mancano le medicine e molti specialisti se ne sono andati. “Ma quale altro Paese al mondo” incalza Chavarria “può vantarsi di avere mandato in Africa 15 mila medici volontari a combattere l’epidemia di Ebola?”
Tra i nostalgici ci sono i turisti. Quelli “di sinistra”, che vengono ad annusare l’aria ormai stantia e un po’ funerea della Revolución, si commuovono di fronte ai ritratti del Che e di Camilo Cienfuegos e decantano i traguardi raggiunti da un Paese dove non riuscirebbero a vivere più del tempo di una fugace vacanza. E gli americani che sbarcano dalle navi crociera alla scoperta dell’isola proibita del comunismo alle porte di casa, vanno in estasi per il mojito annacquato della Bodeguita del Medio, per le decrepite Pontiac degli anni Cinquanta e per le facciate cadenti dei palazzi dei quartieri popolari dove non salirebbero neppure a bere un caffè.
Evaporati i 2 miliardi di dollari l’anno in sussidi petroliferi venezuelani, resta solo il turismo a puntellare le magre finanze cubane. I paladares e le casas particulares, trattorie e pensioni private a conduzione famigliare, si stanno moltiplicando. Ma sono un’arma a doppio taglio. Per soddisfare la domanda di oltre tre milioni di visitatori stranieri, il settore privato fa incetta di generi alimentari. Le conseguenze sono l’aumento dei prezzi, l’esplosione del mercato nero e la progressiva scomparsa dei prodotti essenziali dalle bodegas statali. Con la libreta, la carta di razionamento, è sempre più difficile ottenere il pesce e lo zucchero. E frutta e verdura fresca arrivano a singhiozzo.
Sul banco della macelleria di Don Pedro, all’Habana Vieja, ci sono solo ali di pollo e grasso di maiale. E Sonia, che lavora nella vicina panetteria, lamenta la scarsa qualità della farina. “A casa” dice “mangiamo più che altro riso, fagioli e uova sode. Tutti vogliono el cambio, le riforme. Finché Fidel era vivo non era possibile. Ora, forse, comincia per Cuba una nuova Revolución”.