Copts in Cairo
December 5, 2011

Giovanni Porzio – Il Cairo, 5 dicembre 2011

 

Il 2011 sarà ricordato a lungo dai copti in terra d’Egitto. Era cominciato con il massacro della messa di capodanno ad Alessandria, quando l’esplosione di un ordigno artigianale di fronte alla chiesa dei Due Santi aveva spezzato 23 vite; era proseguito in marzo con l’uccisione di 13 cristiani nei sobborghi meridionali del Cairo e con altra ventina di morti tra aprile e agosto; è culminato con la carneficina di ottobre davanti alla tv di stato in Maspero square, dove l’esercito ha sparato contro i fedeli che protestavano per la distruzione di una chiesa ad Assuan (25 morti e 300 feriti); e si conclude l’annunciato trionfo degli islamisti – 65 per cento dei seggi – nella prima “storica” tornata delle elezioni parlamentari.

Alla messa domenicale, la prima dopo l’annuncio dei risultati, le chiese del Cairo erano stracolme di fedeli in cerca di conforto. A Saint Mary, nel quartiere densamente cristianizzato di Shubra, la funzione è durata più a lungo del solito. E al termine, dopo un profluvio d’acqua santa e di benedizioni, la gente sul sagrato si è sfogata: “Siamo preoccupati. Molti di noi sono emigrati in Europa e chi resta vive nel terrore. Speravamo in un successo dei partiti laici e centristi, anche se sapevamo che i Fratelli musulmani avrebbero fatto il pieno dei voti”.

A spaventare è soprattutto l’inaspettato consenso (24 per cento) ottenuto dai salafisti, i musulmani ultraconservatori che considerano i cristiani kafir, eretici, e alimentano con il loro fanatismo – non di rado ricambiato dai copti – il clima d’intolleranza e di crescente conflittualità.

I copti, circa il 10 per cento degli 85 milioni di egiziani, sono la più grande comunità cristiana del Medio Oriente: seguaci, in larga maggioranza, della Chiesa copta ortodossa di Alessandria retta dal papa Shenuda III°. Durante il trentennale regime di Mubarak, che aveva messo al bando la Fratellanza musulmana e duramente represso i gruppi fondamentalisti, avevano goduto, non diversamente dai confratelli dell’Iraq saddamita e della Siria alawita, della relativa protezione che alle dittature arabe conviene talvolta accordare alle minoranze religiose. Ma sul piano politico, giuridico e sociale, sono stati inesorabilmente emarginati.

“Siamo cittadini di seconda classe” scrive Yousef Sidhoum, direttore del settimanale copto Al-Watani. “Ci vengono imposte restrizioni legali per la costruzione delle chiese e l’acquisizione di terreni; discriminazioni negli impieghi amministrativi e nelle istituzioni pubbliche, dove la percentuale dei cristiani in ruoli dirigenti non supera il 3 per cento. Siamo sotto rappresentati nell’esercito, nella polizia, nel corpo diplomatico, nel settore giudiziario, nelle banche statali, nelle università, in parlamento. Non abbiamo accesso all’intelligence e ai servizi di sicurezza. E il sistema educativo è sempre più orientato in senso islamico”.

Dopo la rivoluzione di gennaio, secondo l’avvocato della Chiesa copta Naguib Gibrael, l’insicurezza è aumentata al punto da costringere quasi 100 mila cristiani ad abbandonare il Paese.

La Fratellanza sottolinea con forza le proprie credenziali di pragmatica moderazione: ha nominato un copto alla vicepresidenza del suo partito, Giustizia e libertà; si dichiara a favore della democrazia multipartitica e della libertà religiosa; sostiene di non volere imporre la sharia e i valori islamici alla società egiziana; ha preso le distanze dagli integralisti salafiti. Ma i cristiani non si fidano. E se fossero dichiarazioni confezionate al solo scopo di rassicurare le cancellerie (e gli investitori) occidentali? A queste parole seguiranno i fatti? E chi può garantilo? Il Consiglio supremo militare del maresciallo Tantawi, con cui i Fratelli stanno già trattando? Come mai il principio ispiratore del movimento fondato nel 1928 da Hassan al-Banna, “l’islam è la soluzione”, che implica la supremazia di Allah nell’organizzazione della società umana, non è mai stato messo in discussione? “C’è un’ambiguità di fondo nella strategia politica del movimento islamico” dice padre Filopater Gameel, che era presente al massacro di Maspero square. “Corriamo il rischio di avere sostituito la dittatura di Mubarak con un’altra dittatura, questa volta religiosa”.

Molti copti dei quartieri poveri non fanno distinzione tra i Fratelli musulmani e i salafiti che predicano il ritorno all’islam delle origini, l’imposizione delle legge coranica, il divieto delle bevande alcoliche e la sottomissione della donna. “Metteranno il velo alle nostre ragazze e bruceranno le nostre chiese” profetizza Emile, che vive in una casa degradata sulla Muqattam, la montagna del Cairo, ed è uno Zabbal, un raccoglitore e riciclatore di rifiuti, mestiere da cent’anni appaltato ai cristiani della capitale.

“Io non ho paura” afferma invece Mina Sabet, attivista della Maspero Youth Union. “Siamo in una fase di transizione, ma questo non è l’Afghanistan: gli egiziani hanno imparato ad alzare la voce e a prendere il destino nelle proprie mani. Sapremo difendere la nostra libertà”.