Giovanni Porzio – da Ciudad Juárez (april 2011)
Colonia Mexico 68, un agglomerato di baracche attraversato dalla ferrovia. José Emilio Martínez García aveva vent’anni. Sapeva che lo stavano cercando. Quando li ha sentiti arrivare nel cuore della notte si è lanciato a rotta di collo sulla pietraia dei binari, ma non aveva scampo: l’hanno abbattuto con 11 proiettili calibro 9. Lo chiamavano “El Pequeño”, il piccolo. E’ la vittima numero dodici di una giornata qualunque a Ciudad Juárez, la “città dei morti” messicana sul confine del Texas dove il tasso di omicidi è superiore a quello di Mogadiscio e di Baghadad.
La ronda dei morti era cominciata presto, alle 9 del mattino, con un uomo falciato da una raffica di mitra, ed era proseguita con cinque carbonizzati in un caffè del barrio Waterfill. La radio dice che nei primi sei mesi del 2011 gli ammazzati in città sono più di mille, diecimila dal 2006, 35 nelle ultime 78 ore. E’ il bilancio spaventoso, e provvisorio, della guerra tra i cartelli della droga per il controllo della frontiera del Rio Grande, la piazza più ambita: i 7 milioni di consumatori americani di cocaina assorbono il 45 per cento della produzione mondiale; gli Stati Uniti importano il 25 per cento di tutte le droghe illegali: eroina, marijuana, sostanze sintetiche; e il 65 per cento del denaro sporco viene riciclato nelle banche dello zio Sam. E’ un business da 80 miliardi di dollari l’anno.
A Juárez i cadaveri emergono a dozzine dalle sabbie grige del deserto, dalle discariche di rifiuti, dalle macerie delle case abbandonate, dai canali di scolo. E finiscono nelle fosse comuni del cimitero municipale. I killer hanno licenza di uccidere. Meno del tre per cento degli omicidi viene investigato. La polizia è corrotta. I magistrati non indagano. I testimoni tacciono. L’impunità è assoluta.
Da quando, nel dicembre 2006, il presidente Felipe Calderón ha dichiarato la sua “offensiva totale” contro i cartelli, mettendo in campo cinquantamila soldati e i gruppi Delta delle forze speciali, i morti sono saliti a 43 mila, in gran parte civili. Ma la mafia della droga, seppure indebolita da numerosi arresti eccellenti, non è stata sconfitta. E ha reagito con una violenza e una potenza di fuoco senza precedenti.
Nel 2010 nello stato di Chihuahua il numero delle vittime è aumentato del 1.800 per cento rispetto al 2007. In un solo mese, aprile 2011, le narcofosas, i cimiteri clandestini, hanno restituito dieci cadaveri a Sinaloa, trenta a Durango e 177 a San Fernando, sulla “ruta de la muerte” del Tamaulipas, a pochi chilometri dal rancho dove nell’agosto 2009 la polizia aveva scoperto i corpi di 72 immigrati centroamericani. Perché anche i migranti sono un affare per i mercanti di droga e per i coyotes, i trafficanti di esseri umani: le espaldas mojadas, le “schiene bagnate” che attraversano il Rio Grande, guadano il fiume – poco più di un rigagnolo – al ritmo di tre milioni l’anno, alimentando un business di quasi 7 miliardi di dollari solo per il racket messicano.
Dopo la disarticolazione dei cartelli colombiani di Cali e Medellín sono i boss messicani a gestire la principale rotta della droga destinata al Nordamerica: 196 tonnellate di cocaina, il 90 per cento del fabbisogno americano, transitano dai valichi di frontiera. E Juárez è il principale corridoio. Il cartello locale, guidato da Vicente Carrillo Fuentes “El Viceroy”, è impegnato in un conflitto mortale con il potente capo del cartello di Sinaloa, Joaquín Guzmán Lorea.
Guzmán, 54 anni, un metro e 55 di statura, detto “El Chapo”, il Corto, arrestato nel 1993 in Guatemala e “misteriosamente” evaso dal supercarcere di Puente Grande a Jalisco il 19 gennaio 2001, è al vertice di quella che la Dea definisce “la maggiore organizzazione di narcotrafficanti oggi attiva in Messico”. Sulla testa del druglord più ricercato del mondo, che figura stabilmente nella lista di Forbes degli uomini più ricchi e influenti del pianeta, pende una taglia di cinque milioni di dollari.
I Mexicles e gli Assassini Artisti, i sicari del Chapo Guzmán, sono il lotta con gli Aztecas, il braccio militare della Línea, il sindacato del crimine di Juárez. E’ un massacro. I corpi decapitati e selvaggiamente torturati finiscono nei buchi sotto il pavimento delle “case della morte” e le teste mozzate sono esposte agli svincoli delle autostrade. Molte vittime scompaiono, sciolte nella lechada, un miscuglio di acidi e calce. E molte, più di 400, forse più di mille, sono giovani ragazze, bambine e adolescenti: rapite, stuprate, mutilate, assassinate.
Di fronte al Puente Internacional Paso del Norte, il principale valico di frontiera, c’è una grande croce di legno trafitta da centinaia di chiodi: ogni chiodo una donna uccisa. Sopra i nomi delle vittime un cartello con la scritta “Ni una más!” (Non una di più!). Altre croci, dipinte di rosa, sono state piantate nei luoghi dei ritrovamenti: sui marciapiedi delle vie del centro, sui tralicci della luce, nella polvere dei barrios di periferia.
E’ una mattanza che non sembra impensierire il sindaco di Juárez Héctor Murguía Lardizábal, del Partito Revolucionario Institucional. L’alcalde, che riceve Panorama nel suo studio foderato di ritratti degli eroi dell’indipendenza messicana, respinge seccato l’accusa di essere stato eletto con i soldi dei narcos, presa sul serio anche dalla Dea, e si scaglia contro la stampa che “proietta un’immagine distorta” della città. “Stiamo facendo passi avanti nella sicurezza” dice. “Dobbiamo investire nei servizi sociali e nell’impiego. Troppi giovani sono senza lavoro”.
Il sindaco sorvola sul fatto che più di 60 giornalisti sono stati uccisi o sono scomparsi nell’ultimo decennio. Ma ha ragione sulla crisi economica che ha investito la città. Quattromila 280 negozi su 5.480 hanno cessato l’attività. Cliniche e studi dentistici, che fornivano cure a prezzi stracciati a migliaia di americani alimentando un fiorente business, hanno abbassato le saracinesche: i medici che non pagavano il pizzo sono stati ammazzati. Centinaia di maquiladoras, gli impianti di assemblaggio industriale spuntati come funghi lungo la frontiera dopo l’entrata in vigore nel 1994 del Nafta, il Trattato di libero scambio tra Messico, Stati Uniti e Canada, hanno chiuso i battenti. La disoccupazione è alle stelle e spinge i giovani delle pandillas, le bande di quartiere, ad arruolarsi come sicari negli eserciti dei narcos.
Il Messico vanta il tycoon più ricco del mondo, Carlos Slim, che nel 2011 è accreditato di una fortuna di 74 miliardi di dollari. Ma quasi la metà dei 113 milioni di messicani è indigente e il 10 per cento vive al di sotto della linea della povertà estrema. Nelle bidonville di Juárez non sono in molti a potersi permettere due pasti al giorno. E almeno 17 dei 31 stati della federazione messicana sono di fatto diventate delle narco-repubbliche.
Washington ha reagito con una duplice strategia: lo stanziamento di fondi per l’addestramento della polizia messicana (un miliardo e mezzo di dollari in tre anni) e il rafforzamento dei controlli di frontiera. Ma il piano antidroga varato da George Bush nel 2007 non ha funzionato.
La produzione e l’esportazione di eroina, cocaina, marijuana, ecstasy, metanfetamine e droghe farmaceutiche sono cresciute – spiega nel suo libro Narcostati in America Latina l’ex questore di Piacenza Piero Innocenti, che ha personalmente partecipato a numerose attività di intelligence antinarcotici. E il trasporto si è diversificato: ai sistemi tradizionali, contrabbando spicciolo, aerei, veicoli privati e commerciali, si sono aggiunti i pescherecci, le navi portacontainer, i motoscafi veloci e i minisommergibli gestiti dalle mafie del Golfo e del Pacifico.
Il Muro voluto da Bush non rappresenta un ostacolo. La barriera di oltre mille chilometri, costata più di 4 miliardi di dollari, presidiata dalle pattuglie armate dell’Fbi, è costituita da palizzate metalliche, muri d’acciaio e recinzioni alte cinque metri sormontate da rotoli di filo spinato, telecamere e fari notturni. I restanti duemila chilometri sono sorvegliati da una barriera virtuale di di sensori elettronici, apparati a raggi infrarossi e radar. Ma i narcos hanno scavato tunnel e aperto varchi delle dimensioni di un camion nelle recinzioni e continuano ad avvalersi della complicità dei poliziotti corrotti sulle due sponde del Rio Grande. I commerci illeciti al confine non sono mai stati così floridi: dal Norte scendono armi e munizioni per i cartelli dei narcos, dal Sur salgono i migranti e la droga per il mercato dei gringos.
A Barack Obama, appena giunto alla Casa Bianca, non restava che un’opzione: il ricorso alle operazioni clandestine per colpire al cuore i principali cartelli. Nella guerra segreta ai narcos Washington ha schierato negli ultimi mesi 130 aerei ed elicotteri di vigilanza, ha installato altri 300 apparati di sorveglianza elettronica e ha esteso al territorio messicano le missioni di ricognizione dei droni, i velivoli senza pilota. Ma è una guerra che crea molti imbarazzi.
Negli anni Novanta Los Zetas, la più feroce e militarizzata organizzazione criminale messicana, erano un gruppo selezionato di operativi del GAFE (Grupo Aeromóvil Fuerzas Especiales) addestrato in tecniche anti-insurrezionali e anti-narcotici nella famigerata “Scuola americana” di Fort Benning, in Georgia. Oggi gli Zetas controllano vaste regioni del Guatemala e dell’America Centrale, operano in numerose città degli Stati Uniti e dispongono di un sofisticato arsenale: elicotteri, aerei, esplosivi, granate, bombe a frammentazione, missili anticarro.
Lo scorso marzo, inoltre, un’operazione clandestina denominata “Rápido y Furioso”, imbastita dal Bureau of Alcohol, Tobacco, Firearms and Explosives (ATF) all’insaputa del dipartimento di Stato e del governo di Città del Messico, è miseramente fallita. Consisteva nel permettere ai sicari dei cartelli l’acquisto illecito di armi negli Usa, con l’obiettivo di seguirne le tracce e di assicurare alla giustizia i destinatari. Che invece se ne sono impadroniti impunemente e le hanno probabilmente usate anche per assassinare tre cittadini americani: l’agente di frontiera Jaime Zapata, il funzionario della prigione di El Paso Arthur Redelfs e sua moglie Lesley Enriquez, che lavorava al consolato di Ciudad Juárez.