Black hole
Gambia, June 2016

La matita di Hergé non avrebbe esitato: quale altro luogo sperduto nell’Africa sarebbe stato più adatto per immaginare un’avventura di Tin Tin e del capitano Haddock? Uno staterello fluviale non più grande dell’Abruzzo, una fortezza dove un tempo languivano gli schiavi, un’isola appartenuta al misterioso ducato di Curlandia, un porto che traffica merci sospette, un despota al potere da vent’anni che ha riempito le prigioni, millanta di curare l’aids con erbe magiche ed esorcizza gli “stregoni” che lo avversano con micidiali pozioni allucinogene.

Il Gambia è una minuscola repubblica anglofona affacciata sull’Atlantico: una spina nel fianco del Senegal, che lo circonda per tre lati ed è in pessimi rapporti con Yahya Jammeh, lo stravagante dittatore gambiano. Alla frontiera tra i due Paesi, appena riaperta dopo mesi di tensione e di reciproche accuse, è impossibile sottrarsi all’oliatissimo ingranaggio della corruzione, che scatta inesorabile al primo posto di blocco. È una piaga diffusa in quasi tutta l’Africa. Ai check point poliziotti e gendarmi sono in una posizione di potere e lo sfruttano fino in fondo per arrotondare i magri stipendi. Ogni pretesto è buono per chiedere denaro: un faro difettoso, la cintura slacciata, un’imperfezione nei documenti. Questa volta manca un timbro sul libretto dell’assicurazione ma Johnny, l’autista, se la cava con una mancia.

Attraversiamo piantagioni di manghi e di anacardi, villaggi rurali sovrastati da giganteschi baobab. Allungando qualche banconota superiamo indenni un paio di sbarramenti militari e arriviamo a Barra, l’attracco del ferry per Banjul, la capitale. La fila dei camion è impressionante. Per raggiungere le province meridionali del Casamance evitando un lunghissimo tragitto alternativo, i trasportatori senegalesi devono passare dal Gambia, che lucra sui traffici frontalieri, legali e illegali. In febbraio Yahya Jammeh ha aumentato di cento volte (da 4 mila a 400 mila franchi Cfa) il dazio doganale innescando una guerra commerciale che ha paralizzato le forniture di carburante e di derrate alimentari, riprese soltanto dopo il ripristino delle precedenti tariffe.

Approfitto dell’attesa per visitare Fort Bullen, l’avamposto strategico eretto nel 1826 dagli inglesi alla foce del fiume e abbandonato dopo la Seconda guerra mondiale: una fortezza di pietra grigia corrosa dal sale e dal tempo dove sugli spalti arrugginiscono gli affusti dei cannoni e al cui interno sono in mostra i ferri utilizzati per marchiare gli schiavi. Il forte fu costruito con una doppia funzione: mantenere il controllo della regione e contrastare la tratta degli schiavi, che affluivano a migliaia dalle profondità del continente, venivano imbarcati sulle navi negriere e finivano a tagliare canna da zucchero ai Caraibi o a raccogliere tabacco e cotone negli stati del sud americano.

Chi riusciva a fuggire si rifugiava a Fort Bullen. Ma per oltre due secoli, e fino all’abolizione della schiavitù nell’Impero britannico nel 1833, Londra – e prima ancora Lisbona – si era arricchita con il commercio di oro, avorio e schiavi esportati dalla colonia del Gambia. Un business su cui nel 1651 aveva messo gli occhi persino il principe Jacob Kettler, sovrano del ducato baltico di Curlandia, nell’odierna Lettonia, che riuscì a ottenere dai portoghesi la concessione dell’isolotto di Sant’Andrea: un fazzoletto di terra in mezzo al fiume dove sopravvivono i ruderi dell’antico insediamento.

Sul traghetto c’è posto per due camion e una decina di auto, qualche mucca, fusti di carburante, sacchi di riso e una folla di passeggeri assiepati sul ponte: mercanti, contadini, venditori di bibite e di noccioline, bambine di quattro anni con il velo islamico, ma anche ragazze in jeans e donne infagottate nelle coloratissime vesti africane. Il vetusto ferry avanza a fatica contro la corrente fino al porto, dove le piroghe scaricano il pesce e due navi ormeggiate alla banchina sbarcano i container.

È venerdì. I musulmani, 94 per cento dei due milioni di abitanti, si allineano nelle strade per la preghiera: le moschee non sono sufficienti. E da quando il presidente ha inaspettatamente annunciato in dicembre la trasformazione del Gambia in una repubblica islamica, pochi si azzardano a ignorare l’appello del muezzin. Cosa abbia spinto il leader supremo ad adottare l’arabo come lingua ufficiale in un Paese dove nessuno lo parla, a obbligare le impiegate degli uffici pubblici a indossare il velo e a imporre – caso unico in Africa con la Mauritania – la legge del Corano, ha a che fare con la storia e le precarie condizioni economiche del piccolo stato, dove un terzo della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà.

Dopo l’indipendenza nel 1965, il Gambia ha conosciuto due soli presidenti: Dawda Jawara, rimasto in sella per un quarto di secolo, e Yahya Jammeh, che nel 1994 lo ha destituito con un colpo di mano più simile a una congiura di palazzo che a un pronunciamento armato. Smessa la divisa di capo della polizia militare per sfoggiare il boubou della tradizione tribale, Jammeh, 51 anni, ex campione di wrestling, ha governato molto più col bastone che con la carota.

Il bilancio del suo regime, uno dei più oppressivi al mondo, annovera una mezza dozzina di tentativi di golpe soffocati nel sangue, la brutale repressione del dissenso, una surriscaldata retorica anti coloniale, la violazione sistematica dei diritti umani e una legge tra le più omofobe del pianeta, con pene fino al carcere a vita per lesbiche e gay. “Non c’è posto per loro in questo Paese” farnetica Jammeh. “Agli omosessuali taglieremo la testa e la gola”. La sua erratica politica estera, infine, ha finito per isolare il Gambia compromettendo le relazioni con i Paesi occidentali donatori di aiuti.

Dopo avere corteggiato il colonnello libico Gheddafi, che per anni aveva ripianato il deficit di Banjul, Jammeh, nel febbraio 2011, lo invitò a dimettersi, perdendo in un istante il sostegno e i petrodollari di Tripoli. Un anno prima aveva rotto con Tehran, gettando al vento i 2 miliardi di dollari di un contratto per la fornitura di veicoli. Con la Cina è corso ai ripari lo scorso marzo, dopo un ventennio di gelo diplomatico e di rapporti con Taiwan. Nel 2013 ha ritirato il Gambia dal Commonwealth. Nel 2015 ha espulso senza fornire spiegazioni l’incaricata d’affari dell’Unione europea, Agnès Guillaud. “La svolta islamista” afferma Jeffrey Smith, analista del Robert Kennedy Center for Justice and Human Rights di Washington, “ha il palese obiettivo di attirare capitali dall’Arabia Saudita e dai Paesi del Golfo in una fase di grave instabilità politica e di crisi economica”.

A Banjul non resta molto della Bathrust degli inglesi. Qualche edificio coloniale, i magazzini del porto, il vecchio liceo, un paio di chiese e di moschee, gli alloggiamenti della guarnigione militare e la “Casa bianca”, la State House del governatore britannico dove vive il presidente e dove ogni venerdì si replica, sul prato antistante, la rituale distribuzione di cibo e denaro agli indigenti. Le risorse del Paese sono esigue: esportazione di arachidi e pesce secco, diritti doganali sulle merci in transito, un’agricoltura di sussistenza, una conceria, una birreria, un saponificio.

Alle opere di regime, lo stadio di calcio, il parlamento, un arco trionfale, le tribune per le parate militari, fa da triste contrappeso la manifesta miseria in cui versa la popolazione. Lungo la strada che esce dalla capitale le donne setacciano le bucce delle arachidi e gli scarti dei forni di tostatura per ricavarne residui di olio. In una laguna i pescatori filtrano il fondale melmoso a caccia di conchiglie e di molluschi. Nella discarica di Serekunda, grossa borgata alle porte di Banjul, vecchi e bambini recuperano rifiuti riciclabili: si aggirano scalzi, tra i fumi tossici dei fuochi di plastica e immondizia, scacciando con i bastoni i cani e gli avvoltoi.

A pochi chilometri di distanza “Senegambia”, il quartiere dei resort, dei ristoranti e dei locali per stranieri, è semideserto. In alta stagione è una delle mete più ambite del turismo sessuale, frequentata soprattutto da attempate villeggianti nordeuropee in cerca di compagnia. Ma le prenotazioni alberghiere sono in calo. Al limite della capienza è solo la prigione di Mile 2, un lugubre compound circondato da rotoli di filo spinato e militari armati a due passi da una sorridente gigantografia del presidente che annuncia la “storica decisione” di perdonare alcuni detenuti.

Le celle sono piene di prigionieri politici. Nel dicembre 2014, pochi giorni dopo l’assassinio del direttore del quotidiano The Point Deyda Hydara, freddato dai sicari della polizia segreta, un manipolo di ex ufficiali dell’esercito e dissidenti della diaspora gambiana hanno tentato di impadronirsi della State House. Il tentativo di putsch, sventato dalla guardia presidenziale, ha scatenato una feroce repressione. E negli ultimi mesi le proteste contro la decisione di Jammeh di presentarsi per la quinta volta alle elezioni del prossimo dicembre hanno fatto scattare una nuova ondata di arresti ed esecuzioni sommarie.

In aprile i militari hanno attaccato due manifestazioni di attivisti che contestavano la nuova legge elettorale, in particolare le norme che limitano a 65 anni l’età dei candidati e che moltiplicano di cento volte il costo dell’iscrizione nelle liste: da 10 mila a un milione di dalasi, circa 20 mila dollari, in un Paese dove il reddito medio non supera i 400 dollari l’anno. Tra le persone arrestate c’erano tre donne che, trascinate in carcere e torturate, sono finite in coma. E c’era Solo Sandeng, 55 anni e padre di otto figli, segretario organizzativo dell’Udp, l’Unione democratica, il principale partito di opposizione: il suo cadavere non è mai stato trovato.

“Nessuno sa dove è stato sepolto” dice la signora Mymuna Darboe, che mi riceve con la dovuta discrezione (“la polizia ha occhi dappertutto”) nel salotto della sua casa di fronte all’ambasciata americana. Anche suo marito, il sessantottenne avvocato Ousainou Darboe, il leader dell’Unione democratica, è in carcere. “Dal 16 aprile” racconta. “Guidava una manifestazione per reclamare il corpo di Solo Sandeng. Lo hanno colpito alla testa col calcio del fucile e l’hanno rinchiuso a Mile 2. Viviamo in un clima di terrore: la gente ha paura, non parla. L’impunità delle forze di sicurezza è assoluta. I media sono minacciati e censurati”.

Amnesty International e Human Rights Watch hanno denunciato altri casi: la scomparsa dell’imam Sawaneh, arrestato nell’ottobre 2015; la morte in cella del sindacalista Sheriff Dibba in febbraio; le sevizie e gli abusi sessuali inflitti ai detenuti. Al segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon, che ha sollecitato un’indagine, Jammeh ha risposto con un secco “vada all’inferno”. Ma l’opposizione non si lascia intimorire. La signora Darboe mi mostra la copia della testimonianza, giurata di fronte alla Corte suprema del Gambia, di Njie Nogoi, un’attivista arrestata in aprile che ha assistito alla fine di Solo Sandeng. Nella sua deposizione Nogoi descrive le torture, gli insulti, le bastonate. “Solo era disteso a terra, gonfio e completamente nudo. Sanguinava profusamente dal corpo e dalla testa. Si lamentava e si muoveva appena: l’ho chiamato ma non mi ha risposto. Due uomini incappucciati l’hanno portato fuori, dietro l’edificio. Ho sentito ancora dei colpi e dei lamenti. Poi più niente”.

Nel ruolo del “Big Man” africano, il despota del Gambia sembra reincarnare nefasti personaggi d’altri tempi quali l’ugandese Idi Amin Dada, il congolese Mobutu Sese Seko o l’imperatore centrafricano da operetta Jean-Bedel Bokassa, fortunatamente archiviati dalla storia. “Sua Eccellenza lo Sceicco Professore Dottore Presidente”, come Jammeh ama farsi chiamare, non ha alcuna intenzione di rinunciare a una missione affidatagli “da Allah in persona”. Ed è deciso, come ha dichiarato tempo fa alla Bbc, a rimanere sul trono “per un miliardo di anni, se Dio vuole”.

A ogni buon conto alla protezione divina, piuttosto volatile e impalpabile, Sua Eccellenza ha sempre preferito metodi più convenzionali. Si sposta su una Hummer blindata in un convoglio di Suv e di pick-up equipaggiati con mitragliatrici pesanti e contraerea. Ossessionato dai complotti, rimpasta in continuazione la compagine di governo e i vertici delle forze armate per liberarsi dei potenziali cospiratori. Ha creato una temibile polizia segreta, la National Intelligence agency, e formazioni paramilitari – i Jungulars e i Green Berets – che fanno i lavori sporchi di cui rispondono solo al presidente.

E se le torture e le esecuzioni sommarie non bastano, lo Sceicco Professore Dottore può sempre contare sui poteri magici. Non ha forse scoperto una miracolosa formula a base di erbe in grado di guarire l’aids e di debellare il virus di Ebola? Si ignora che fine abbiano fatto i pazienti sieropositivi che invece di curarsi con i farmaci antiretrovirali forniti dall’Ue si sono lasciati convincere a tracannare l’intruglio presidenziale. Ma è certo che Jammeh ha grande fiducia nella medicina tradizionale. Nel 2009, convinto che una sua zia fosse deceduta in seguito a un maleficio, fece arrestare un migliaio di presunti “stregoni”: nelle celle di Mile 2 dozzine di sventurati furono costretti a trangugiare una pozione di erbe allucinogene “per verificare i loro poteri soprannaturali”. Almeno sei riposano oggi al cimitero. Di molti altri si è persa anche la memoria.