Baghdad Olympic Dreams
Iraq, May 2012

Giovanni Porzio – da Baghdad per SportWeek

 

Per allenarsi ha dovuto sfidare le pallottole dei cecchini, i colpi di mortaio, le autobombe. Ma Dana Hussein Abdul Razzaq, 25 anni, sprinter nei 100 e 200 metri, non ha mai mollato. E oggi si prepara a coronare il sogno di una vita: in luglio sarà l’unica atleta irachena a competere per una medaglia alle Olimpiadi di Londra.

La sua avventura sportiva è cominciata presto. “Quand’ero piccola e la mamma mi mandava a fare la spesa” racconta “si raccomandava di fare presto: io ci andavo di corsa. Presi l’abitudine di correre dovunque andassi. A scuola ero sempre prima nelle gare studentesche e a 15 anni un’insegnante, la signora Nahla, mi spinse ad assecondare la mia passione. Mi esercitavo in cortile e nella palestra del liceo, anche se non era ancora un training agonistico”.

Quarta figlia di un ex campione nazionale di ciclismo che ora commercia in abbigliamento e sorella di un bodybuilder professionista, Dana è cresciuta nutrendosi dei valori dello sport. La famiglia l’ha sempre incoraggiata. Ma a quell’epoca, era il 2002, il presidente del Comitato olimpico iracheno era Uday, il famigerato primogenito di Saddam Hussein. Gli atleti vivevano nel terrore di essere puniti per una performance scadente o una medaglia non conquistata, gli abusi e le minacce erano all’ordine del giorno e il padre di Dana le proibiva spesso di uscire di casa per partecipare alle sessioni di allenamento. Poi George W. Bush decise di invadere l’Iraq.

“Durante la guerra” ricorda Dana “non ho potuto correre per più di otto mesi. Ero ingrassata, avevo perso il peso forma e la speranza di poter continuare”. Ma quando nell’aprile 2003 le truppe americane occuparono Baghdad ponendo fine alla dittatura di Saddam, capì che era giunto il momento di tornare in pista e di tentare il tutto per tutto. Trovò un vero coach, Yusuf Abdul-Rahman, membro della Federazione atletica; si rimise in sesto a Kobe, in Giappone, dove venne ospitata per quattro settimane di allenamenti intensivi (“Era fantastico: il cibo, gli stadi, le attrezzature…”); e cominciò a gareggiare: bronzo nei 200 metri e nella staffetta 4x100 ai Giochi di Algeri nel 2003, argento nei 100 e bronzo nei 200 ai Giochi di Doha nel 2005, stessi risultati ai Giochi del Cairo nel 2007.

Ma a Baghdad le difficoltà aumentavano. La città era un campo di battaglia tra le fazioni sunnite e sciite, il rischio rapimenti era sempre più elevato, gli attentati suicidi e le autobombe mietevano ogni giorno decine di vittime. “Dovevo indossare l’hijab per andare da casa allo stadio” racconta Dana. “C’erano sparatorie e check point a tutti gli incroci, mi toccava cambiare percorso se i militari chiudevano le strade o se c’era un’esplosione. Ho visto tanti morti…Ma non sono mai tornata indietro: sono ambiziosa, determinata, e voglio fare qualcosa di buono per il mio Paese”.

La guerra civile e le sanguinose faide religiose hanno complicato non poco l’esistenza e la carriera di Dana: lei è sciita, il suo allenatore sunnita; vivono in zone diverse della capitale, in quartieri divisi da barriere sociali e confessionali che è pericoloso valicare. E anche raggiungere il campo sportivo è un azzardo. Dana si allenava allo Shaab Stadium, quasi al margine del popoloso distretto sciita di Sadr City. Ma gli scontri tra le milizie fedeli al leader islamico Muqtada al-Sadr e l’esercito (prima quello americano, ora le forze regolari irachene) l’hanno costretta a desistere e a calcare le piste più protette anche se meno attrezzate della Baghdad University, nel quartiere residenziale di Jadriyah.

Neppure il compound universitario, tuttavia, è sicuro: “Un giorno, mentre stavo correndo, un cecchino ha esploso una raffica di mitra dal tetto di un edificio. I proiettili mi hanno sfiorato e hanno colpito il tronco di un albero. Io e Yusuf ci siamo buttati a terra e il cecchino ha tirato una seconda raffica sulla pista”.

I Kalashnikov non sono gli unici ostacoli nella corsa verso Londra di Dana Hussein. Il Comitato olimpico è corrotto e politicizzato come tutte le istituzioni del “nuovo Iraq”, con funzionari che sponsorizzano parenti e amici, intascano mazzette, distribuiscono il budget secondo criteri che poco o nulla hanno a che vedere con lo sport. I permessi di espatrio – spesso utilizzati anche dagli atleti per chiedere asilo politico – sono oggetto di lucrosi affari. Non è un caso se alcuni dei massimi dirigenti sportivi iracheni hanno fatto una brutta fine: nel 2006 l’allora presidente del Comitato olimpico, Ahmed al-Samarrai, è stato rapito con altri 30 colleghi e nel 2008 il vice-presidente Raad Jaber è stato assassinato in pieno giorno nel centro di Baghdad.

Proprio nel 2008, in Cina, Dana fece la sua prima esperienza nell’agone olimpico: “Mi ero allenata per un mese ad Arbil, nel Kurdistan, su un pessimo campo e senza altri atleti con cui confrontarmi. A Pechino ero molto emozionata, sentivo un’enorme pressione e nelle batterie correvo contro una cinese. Tutto lo stadio l’applaudiva e io non mi sono riuscita a qualificarmi. Ma è stata un’esperienza incredibile, gli impianti erano prodigiosi. E mi resi conto che per progredire era indispensabile partecipare alle competizioni internazionali”.

Ai Mondiali di atletica del 2009 a Berlino Dana resta a bocca asciutta. Ma da quel momento i risultati cominciano ad arrivare: quattro medaglie (100, 200, 4x100 e 4x400) a Damasco, due ori nelle staffette e due argenti nei 100 e nei 200 alle West Asia Games di Aleppo nel 2010. E nel 2011 il governo assegna finalmente dei fondi al ministero dello Sport. Il lavoro si riorganizza, Dana può allenarsi su buoni campi in Turchia e in Libano, i suoi tempi migliorano e fioccano le medaglie: bronzo nella staffetta 4x400 ai Giochi asiatici di Tokyo; oro, argento e bronzo nelle varie specialità agli Internazionali di Ayn (Emirati); oro e record iracheno (11’88”) nei 100 e argento nei 200 agli Internazionali di atletica a Doha.

La preparazione atletica le impone una vita di sacrifici. Per motivi di sicurezza è andata ad abitare a casa della sorella. Ha pochi amici, non esce mai la sera e gli unici svaghi sono il venerdì in famiglia e qualche incursione su Facebook. La dieta la fa dannare: ha la pressione bassa, non le piace mangiare. Si ciba di frutta e beve 5 litri d’acqua la giorno. Non ha nemmeno una massaggiatrice.

“A Londra sarà difficile arrivare in finale” dice aggrottando la fronte. “Ci sto mettendo l’anima, nonostante le difficoltà e la rabbia che ho dentro: so che se potessi allenarmi in Europa potrei fare molto di più. Qui tutto è un problema. Non mi hanno ancora dato il visto e il supporto del governo è irrisorio: con gli 800 dollari al mese che passa il ministero devo pagarmi tutto, dalle scarpe ai mezzi di trasporto, persino le trasferte. Ma questo sport è la mia vita. E io sono convinta che ormai solo lo sport possa unire il popolo iracheno”.

Sul malconcio tracciato dell’università comincia il quotidiano allenamento sotto gli occhi vigili e paterni di coach Yusuf. Il caldo è soffocante, dall’asfalto crepato della pista spuntano erbacce e qualche stento fiore. Dana, concentratissima, si distende sull’asciugamano e fa un po’ di stretching. Poi stringe i lacci delle scarpe, aggiusta la fila di orecchini sul lobo destro, regola l’audio delle cuffie con la musica di Eminem e balza in piedi: uno scatto dopo l’altro, senza una sosta, finché le ombre del crepuscolo si allungano sul sogno olimpico della sprinter di Baghdad.