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Egypt, February 2015

“Khalàs!”, è finita. Dopo aver tentato l’ennesima carambola nel traffico Mustafa deve arrendersi: il suo taxi è irrimediabilmente imprigionato nel vicolo tra l’hotel Four Seasons e piazza Tahrir. Non resta che pagare la corsa e proseguire a piedi aprendosi un varco nella calca assiepata di fronte all’ingresso di un grigio edificio circondato da un cordone di agenti in divisa. Una manifestazione di protesta? Un comizio politico? Niente affatto. La folla assedia dalle prime luci dell’alba gli uffici della compagnia petrolifera nazionale. Si è sparsa la voce che ci saranno nuove assunzioni e una massa di aspiranti si è riversata in strada: grida, spintoni, sventolio di documenti e di domande d’impiego, poliziotti che smanacciano e mani che allungano bakshish. Scene di ordinaria tensione nella capitale di un Paese dove la disoccupazione giovanile sfiora il 25 per cento e il 45 per cento tra i laureati.

A quattro anni dalla “primavera” che nel gennaio 2011 travolse il trentennale regime di Hosni Mubarak, l’Egitto sta attraversando una tappa cruciale. Gli eventi si sono succeduti in modo rapido e convulso: la vittoria elettorale dei Fratelli musulmani, la disastrosa presidenza del loro candidato Mohammed Morsi, il cruento golpe – sostenuto dall’Arabia Saudita e dalle monarchie del Golfo – che ha catapultato al vertice dello stato il generale Abdel Fattah al-Sisi. La restaurazione imposta dall’esercito, che dai tempi di Nasser è l’arbitro della vita nazionale, non è stata indolore: si contano a centinaia le vittime della repressione, i giornalisti finiti in prigione, i dissidenti condannati a morte. Ma le forze armate appaiono oggi l’unica istituzione in grado di garantire la tenuta del Paese chiave per la stabilità di una regione minacciata dal terrorismo salafita e dall’espansione del Califfato islamico.

Il generale al-Sisi deve affrontare molteplici insidie: a est la guerra jihadista nel Sinai; a ovest il caos della Libia, consegnata alle milizie islamiche dallo sconsiderato intervento armato contro Gheddafi voluto da Parigi; sul fronte interno la bomba a orologeria della crescita demografica (gli egiziani sono ormai quasi 85 milioni) e di un’economia in crisi, appesantita dai sussidi statali, da una burocrazia inefficiente, da un’industria obsoleta, dal crollo del turismo e del prezzo del petrolio. Per placare il malcontento sociale e cementare la sua leadership il rais ha sfoderato una carta che in Egitto ha sempre funzionato: la Grande Opera Patriottica destinata a cambiare i destini della nazione creando prosperità e posti di lavoro.

Dall’epoca delle piramidi i sovrani d’Egitto sognano di passare alla storia come edificatori di opere immortali. Nasser scommise sulla diga di Assuan e sulla regolamentazione delle acque del Nilo. Il nuovo faraone del Cairo punta ancora più in alto: la costruzione di un secondo Canale di Suez. Il megaprogetto, annunciato in pompa magna lo scorso agosto e ormai in piena fase di realizzazione, prevede lo scavo di un canale di 72 chilometri parallelo al primo. Consentirà il doppio senso di navigazione tra il Mediterraneo e il Mar Rosso, riducendo drasticamente i tempi di percorrenza e di attesa e incrementando di riflesso gli introiti nelle casse dello stato: dagli attuali 5,3 miliardi di dollari a 13,2 miliardi nel 2023, con un aumento da 49 a 97 del numero giornaliero di navi in transito. E se il vecchio canale fu completato nel 1869 dopo 10 anni di sforzi costati migliaia di vite umane, la nuova impresa – assicura al-Sisi – sarà portata a termine nel giro di un solo anno sotto la stretta supervisione dell’esercito.

Anche se tempistiche e budget non saranno del tutto rispettati, il rais ha intanto messo a segno un formidabile colpo a suo favore. Il Canale, nazionalizzato nel 1956 da Nasser, teatro delle guerre con Israele del 1967 e del 1973, è il simbolo più forte dell’unità e della coscienza nazionale del popolo egiziano e in settembre, quando il governo ha lanciato la sottoscrizione pubblica per il finanziamento degli scavi, i risparmiatori – allettati da un tasso d’interesse sulle azioni del 12 per cento garantito dalla Banca centrale – si sono precipitati a comprare i certificati d’investimento per un totale di 8,5 miliardi di dollari.

A Ismailia, nell’area interessata dai lavori, le ruspe sono in funzione 24 ore su 24. È una zona di “massima sicurezza” e i cantieri sono presidiati da reparti dell’esercito in tenuta da combattimento, carri armati e nidi di mitragliatrici difesi da bunker di sacchetti di sabbia. Più a nord, a El Qantara, il futuristico ponte as-Salam che, scavalcando il Canale, collega l’Egitto africano al Sinai asiatico è chiuso al traffico a tempo indeterminato: la recrudescenza degli attentati jihadisti ha di fatto trasformato la penisola del Sinai in un campo di battaglia. Tuttavia a Port Said, all’imboccatura mediterranea del Canale, i controlli di sicurezza sono alquanto rilassati: i ferry vanno e vengono tra le due sponde trasportando auto, merci e passeggeri; i cargo attendono all’ancora il loro turno per fare rotta a Suez; e sulle banchine è un trambusto di gru, rimorchiatori, container e casse da imballaggio.

Qui, secondo i piani del governo, dovrebbero sorgere servizi logistici e infrastrutture d’avanguardia in grado di smaltire il previsto aumento dei traffici. Dal Canale, la via più breve tra l’Europa e l’Asia, passa oggi il 7 per cento del commercio marittimo mondiale. Il nuovo Canale, assicura l’ammiraglio Mohab Mamish, capo della Suez Canal Authority, “sancirà la rinascita dell’Egitto. Sarà il nostro lascito alle future generazioni e al mondo intero”.

Per adesso Port Said ha l’aspetto dimesso e trasandato di una qualsiasi città portuale del Medio Oriente, con le vecchie abitazioni dai balconi di legno, i magazzini e gli uffici delle compagnie di navigazione soffocati dall’avanzata inesorabile del cemento armato. La statua di Ferdinand de Lesseps, che assieme all’italiano Luigi Negrelli progettò il “taglio di Suez”, fu rimossa negli anni Cinquanta per ordine di Nasser e dell’epoca del primo grande scavo rimane solo l’edificio vittoriano dell’Autorità del Canale.

Che l’Egitto abbia un disperato bisogno di sviluppare la propria economia e di sanare le piaghe sociali della povertà e della disoccupazione è fuori discussione: il sistema sanitario è in condizioni pietose, così come la scuola e la ricerca; lo stato è pesantemente indebitato e oltre un terzo della produzione industriale è controllato dall’esercito; nelle campagne del Delta milioni di fellahin abitano in case di fango senza servizi igienici e acqua corrente e nelle sterminate periferie del Cairo altri milioni di egiziani vivono in alloggi malsani e sovraffollati, privi di luce e di riscaldamento. Resta però da dimostrare che la strada dello sviluppo passi proprio dal secondo Canale di Suez.

Alcuni analisti sollevano dubbi sui benefici a lungo termine dell’opera, che dipenderanno in ogni caso dalla crescita, tutt’altro che scontata, del volume degli scambi commerciali marittimi nei prossimi anni. Altri si chiedono se non sarebbe stato più opportuno investire le risorse disponibili nei moribondi settori dell’industria, dei trasporti e dell’edilizia sociale. Il megaprogetto, inoltre, non è esente dagli inevitabili danni collaterali all’ambiente umano e all’ecosistema. Secondo l’avvocato Sherin el-Haddad le ruspe hanno già costretto duemila contadini ad abbandonare le loro terre e altri 50 mila rischiano la stessa sorte in una decina di villaggi lungo il percorso dei cantieri.

I biologi marini, poi, temono una perniciosa invasione di specie ittiche dal Mar Rosso con gravi conseguenze per la fauna del Mediterraneo, già compromessa dalle oltre 350 specie tropicali penetrate attraverso il Canale dalla sua apertura alla fine del XIX° secolo. Tra queste, la deleteria Rhopilema nomadica, una medusa che forma colonie lunghe decine di chilometri e che, come spiega Stefano Piraino dell’Università del Salento, “crea danni ingenti al turismo, all’agricoltura e alla pesca commerciale”.

Ma ancora più rilevanti sono i pericoli insiti nel volatile contesto geopolitico della regione. L’eventualità di attacchi terroristici nella zona del Canale, benché massicciamente presidiata dall’esercito, non si può certo escludere dopo l’ondata di attentati che negli ultimi mesi ha insanguinato il Sinai, dove da ottobre è stato decretato lo stato di emergenza. Nella penisola desertica e da tempo fuori controllo, con il più alto tasso di disoccupazione del Paese, il gruppo Ansar Beit al-Maqdis, che ha giurato fedeltà al Califfato di Abu Bakr al-Baghdadi, è in guerra aperta con le forze armate del Cairo. Il bilancio delle vittime è allarmante: militari, poliziotti e civili falciati a dozzine dalle autobombe, dai kamikaze, dai proiettili dei mortai e dei lanciarazzi, mentre centinaia di militanti salafiti attraversano il Canale per unirsi alle milizie islamiche che in Libia hanno conquistato, una dopo l’altra, le città di Derna, Bengasi, Sirte. E che invocando il nome di Allah hanno decapitato col consueto barbaro rito 21 lavoratori egiziani rei di professare la religione copta.