Baba Amr
Homs, September 2013

Baba Amr

 

Najm ad-Din Brejaoui, il farmacista, ha riaperto il suo negozio. Una buona notizia, che ha fatto in un baleno il giro di Baba Amr, il distretto di Homs assurto nel sangue a tragico simbolo della guerra civile e dell’indifferenza del mondo: “città dei martiri” per gli insorti, “Stalingrado siriana” per le forze armate di Damasco, che per strapparla all’Esercito libero siriano hanno dovuto impiegare a più riprese tutto l’arsenale di cui dispongono: artiglieria, aviazione, mezzi blindati.

Dallo scorso marzo Baba Amr è “liberato”. Ma due anni di accaniti combattimenti, di bombardamenti indiscriminati e di massacri l’hanno trasformato in un desolato cimitero di macerie, in un deserto di morte e distruzione. Il silenzio, dopo l’ultimo check point dell’esercito, è irreale. Non ci sono automobili a Baba Amr, non ci sono più botteghe, mercati, uffici, ospedali, scuole. Si sentono spari in lontananza, e il cigolio delle imposte che oscillano al vento nelle case abbandonate.

La famacia di Najm si trova a metà del “viale dei cecchini”, di fronte al minareto sbrecciato della moschea al-Gilani dov’erano acquartierate le Brigate Farouq di Abdul Razzaq Tlass, un parente dell’ex ministro della Difesa di Assad passato all’opposizione. Sessantaquattro anni, laureato a Damasco, Najm aprì la farmacia – la prima nel quartiere – nel 1979. “Gli affari” racconta “andavano a gonfie vele. Qui vicino passava il treno. E il Libano è a pochi chilometri: il contrabbando era il polmone dell’economia da queste parti. Sigarette, gasolio, elettrodomestici, beni di consumo. E naturalmente i farmaci. Poi è cominciata la guerra e tutto è andato in rovina. I miliziani sono venuti due volte a saccheggiare il negozio. Si combatteva giorno e notte: raffiche di mitra, colpi di mortaio. Sono dovuto fuggire, come quasi tutti gli abitanti di Baba Amr”.

Il locale è a malapena agibile: il pavimento, scheggiato da una granata, è un tappeto di bossoli e di vetri rotti, le pareti sono crivellate di proiettili, le vetrine in frantumi, i fili della luce penzolano inerti dal soffitto. E gli scaffali sono semivuoti, con i medicinali in parte scaduti. Ma i clienti arrivano, a piedi o in bicicletta: l’imam della moschea, febbricitante, cerca un’aspirina; una madre chiede del latte in polvere per il figlio; un anziano militare in pensione si apparta nel retrobottega per un’iniezione. “Nella città fantasma” è l’amaro commento di Najm “la vita ricomincia a germogliare”.

Tra le macerie si aggirano i sopravvissuti: bambini che giocano tra le lapidi del cimitero, donne che spingono carrelli con la bombola del gas, ragazzi che trasportano a spalla un materasso o un televisore “di recupero” sfilato da qualche appartamento incustodito. Le poche case abitabili, anche se pericolanti, prive di elettricità e di acqua, sono state occupate da sfollati che non hanno altro posto per accamparsi. “Dove potrei andare” si chiede Slaibi Sellum, seduto sullo stipite di una palazzina fatiscente. “Ho 70 anni e i figli sono via. Almeno qui posso morire sotto un tetto”. Il suo vicino è Abu Husain, operaio disoccupato che vive in due stanze con la moglie e otto figli: “La mia casa è crollata, colpita da un missile. Viviamo alla giornata. Di notte comincia a fare freddo e devo sfamare la famiglia!” Il cibo è scarso: una contadina vende uova, cipolle, pomodori e melograni. C’è un solo macellaio, ma la carne costa cara. E i prezzi continuano a salire.

Abu Haydar, sergente delle forze speciali, è stato ferito tre volte a Baba Amr. Vuole mostrarmi “i crimini compiti dai terroristi”: l’istituto d’informatica razziato dai ribelli, la clinica devastata e saccheggiata, la fossa comune dove sono sepolti i corpi di 12 studenti universitari trucidati il 13 marzo, il luogo dell’eccidio di altri 50 civili colpevoli di essere alawiti, la setta religiosa del presidente.

Inutile chiedergli conto delle atrocità attribuite dall’opposizione all’esercito lealista e agli Shabiha, le milizie paramilitari filo Assad: massacri, rappresaglie, esecuzioni sommarie, raid dell’aviazione. Ed è superfluo domandargli chi ha lanciato l’ordigno che il 22 febbraio 2012 ha ucciso Marie Colvin e Rémi Ochlik, coraggiosi amici e colleghi caduti in quella squallida palazzina di blocchi di cemento. Inoculando il veleno del sospetto, del settarismo e dell’odio religioso, il conflitto ha finito per demolire il fragile tessuto della società siriana.

“Assassini!” grida una donna ad Abu Haydar. “Avete preso mio figlio, l’avete torturato!” “Taci! L’assassino è tuo figlio” ribatte il militare. “Ha confessato di avere ammazzato 25 dei nostri!” Ricostruire Baba Amr non sarà facile. Risanare le ferite nelle coscienze del suo popolo sarà forse impossibile.