Asmara, Erythrea, January 2010

Giovanni Porzio - da Asmara (02.03.10)

Riceve negli uffici presidenziali della villa neoclassica nel centro di Asmara che fece costruire Ferdinando Martini, primo governatore civile (dal 1897 al 1907) della “colonia primogenita”. Isaias Afeworki, 64 anni, ex capo militare del Fronte di liberazione, al potere da quasi vent’anni, è nel mirino di Washington, delle Nazioni Unite e delle associazioni umanitarie che lo accusano di sostenere gli integralisti islamici in Somalia, di avere instaurato una feroce dittatura, di soffocare ogni forma di dissenso e di violare i fondamentali diritti dei 5 milioni di cittadini eritrei.

Per tre ore, nel corso di una rara intervista esclusiva, Afeworki ha risposto alle domande di Panorama. (testo completo dell’intervista sul web..)

Sono passati quasi 20 anni dalla liberazione e l’Eritrea attraversa una fase di estrema difficoltà…

Niente affatto. La nostra situazione migliora anno dopo anno. Chi viene da fuori ha una percezione distorta a causa della pubblicità molto negativa sull’Eritrea. Ma per noi questo è un periodo positivo: ogni anno ci sono miglioramenti.

Come vede il futuro del suo paese nei prossimi anni?

All’inizio abbiamo attraversato momenti difficili: l’economia era distrutta, non c’erano infrastrutture, non c’erano strade, l’economia dipendeva dagli aiuti esterni, la produzione agricola era sotto zero, non c’era niente, l’industria non esisteva. E’ stato difficile partire da zero: uscivamo dalla guerra di liberazione, che è stata facile mentre costruire una nazione è stata una grande sfida e senza risorse, senza un ambiente favorevole, è stato molto difficile. Ora vediamo che ogni anno le cose cambiano: ora possiamo almeno affermare che il paese ha solide fondamenta per sviluppare un’economia produttiva. Abbiamo realizzato un’infrastruttura relativamente buona, certamente non eccellente, ma abbiamo costruito strade, porti, aeroporti, reti elettriche, sistemi idrici, comunicazioni, trasporti… Prima l’energia elettrica era limitata ad Asmara, Massawa e alle principali città: ora abbiamo esteso la rete elettrica e la fornitura di acqua è migliorata in modo sensibile; ci sono scuole elementari e secondarie in quasi tutto il paese, e numerose università. Su queste realizzazioni potremo misurare nel tempo i nostri progressi.

È più facile essere il capo della guerriglia o il leader di una nazione?

Adattarsi alla nuova realtà richiede uno sforzo mentale molto maggiore. Anche se in teoria eravamo preparati ad affrontare la sfida della ricostruzione, metterla in pratica è molto difficile.

Ha perso qualche illusione nutrita ai tempi della guerriglia, quando era più giovane? Si aspettava che fosse così difficile?

Si. Quando sei giovane hai una sensibilità e una visione diversa delle cose, hai speranze, energie, motivazioni diverse. Col tempo e con l’esperienza si diventa sempre più concreti e realisti rispetto alle aspirazioni che puoi avere. Prima dell’indipendenza scuole, istituzioni, sanità, tutto era solo sulla carta. Ora che il sogno si è realizzato è tutto più entusiasmante e coinvolgente. Più aumentano le sfide, più aumenta l’impegno per realizzare gli obiettivi: in realtà più invecchi, più diventi giovane.

Parliamo delle sanzioni. Lei è stato accusato di spalleggiare, armare e addestrare gli Shabab in Somalia. Come risponde a queste accuse?

E’ una barzelletta. Basta guardare la storia e la cultura di questo paese. Noi non crediamo che la religione possa risolvere i problemi. Può essere un modo per esprimere la volontà di battersi contro l’ingiustizia, come è stato per i neri negli Stati Uniti. Quando gli uomini sono disperati si rifugiano in dio e nella religione. Succede anche in Africa, ma noi non pensiamo che l’islam radicale o la sharia siano una soluzione. La disintegrazione della Somalia minaccia la stabilità dell’intera regione e questo ci preoccupa: vogliamo che torni a essere un paese normale. Trovare una soluzione alla questione somala è responsabilità di tutti. Al contrario dell’Etiopia, del Kenya o di Gibuti non consideriamo la Somalia una minaccia per la nostra sicurezza nazione. Shabab è un’organizzazione somala: noi apprezziamo la sua ideologia? Assolutamente no. Non condividiamo in nessuna maniera la sua ideologia. Non condividiamo alcuna ideologia basata sulla religione.

Eppure le sanzioni sono state imposte proprio perché siete accusati di appoggiare Shabab.

A chi ci accusa diciamo: mostrateci le prove. Senza prove nessuno può essere accusato o condannato. Non c’è nessun elemento di prova a nostro carico. Quando abbiamo chiesto spiegazioni al Consiglio di sicurezza ci hanno risposto che avevamo organizzato un incontro con esponenti di Shabab. Non è vero: Shabab ha rifiutato il nostro invito a partecipare a una conferenza di riconciliazione affermando che si trattava di un raduno “laico”. Sarebbe questa la prova del nostro appoggio ai radicali islamici?

Ma allora perché sono state approvate le sanzioni?

Sono il risultato delle frustrazioni prodotte dal fallimento delle poltiche degli Stati Uniti nella regione negli ultimi 20 anni. Un fallimento che non è attribuibile solo all’amministrazione Bush. Dalla caduta di Siad Barre Washington non ha mai compreso la realtà della Somalia: prima hanno mandato le truppe per eliminare il generale Aidid e poi, dopo gli attentati in Kenya e in Tanzania, hanno appoggiato i warlord con il pretesto di combattere il terrorismo. Il governo etiopico, a causa della sua interna debolezza, usa la Somalia per comprarsi i favori degli Stati Uniti. In Etiopia il governo ha problemi nell’Ogaden, nell’Oromia e in altre parti del paese: può sopravvivere solo con il puntello di Washington. Per questo nel 2006 ha occupato Mogadiscio. Anche il Kenya e Gibuti, che ha concesso al Pentagono il proprio territorio come base per le operazioni militari, hanno interesse a trarre benefici dall’agenda degli Stati Uniti. Noi siamo il capro espiatorio di queste politiche fallimentari.

Il risultato, comunque, è l’isolamento politico e diplomatico dell’Eritrea.

Gli Usa hanno perseguito questa politica per molto tempo. Consideriamo il problema del confine con l’Etiopia. Non siamo stati noi a tracciare i confini: erano fissati così da almeno tre generazioni. Nel 2002 la commissione internazionale incaricata di dirimere la questione ha emesso un verdetto, ma gli Usa ne hanno bloccato l’applicazione nonostante gli accordi firmati già nel 2000 ad Algeri. Non è l’Eritrea ma gli Usa a essere isolati a causa delle loro politiche nella regione.

Ma non ci sono cambiamenti con l’amministrazione Obama?

Gli Stati Uniti sono in crisi dal punto di vista politico e soprattutto economico: non solo in Iraq o in Afghanistan ma al loro interno. Obama è stato eletto con una agenda che prometteva molte cose al popolo americano e ai popoli di tutto il mondo. Le aspettative erano elevate. Ma ora Obama è in crisi:  deve lottare per superare le difficoltà economiche, per le quali non ci sono facili soluzioni. Nonostante le buone intenzioni non vedo cambiamenti significativi. Le politiche americane in Medio Oriente, nonostante il dichiarato impegno sulla questione israelo-palestinese, non stanno portando a risultati. In Iraq non si intravedono sbocchi. L’Afghanistan sta diventando un altro grosso problema. L’Iran resta un problema. Per non parlare della questione del commercio con la Cina…Siamo realisti: cosa può fare Obama per risolvere tutti questi problemi? Noi eravamo determinati a impegnarci in modo costruttivo con Washington, perché gli Usa sono parte del problema nel Corno d’Africa. Ma l’attuale amministrazione è davvero intenzionata a cambiare rotta? Non dobbiamo farci illusioni, dobbiamo essere realisti. Dobbiamo prima di tutto cercare di risolvere i nostri problemi con le nostre forze. Non possiamo aspettarci che qualcuno venga da fuori a risolvere i nostri problemi.

Ci sono negoziati in corso con l’Etiopia sulla questione del confine?

La commissione internazionale ha risolto la disputa. Cosa resta da negoziare quando è stato firmato un accordo definitivo e vincolante? La questione in realtà non è giuridica ma politica.

Le sanzioni entreranno in vigore in giugno. E’ disposto a fare un gesto per scongiurare l’applicazione dell’embargo? Per esempio riconoscere la legittimità del governo di transizione somalo?

Sarebbe come ammettere di aver commesso un crimine. Perché dovremmo fare un regalo a chi vuole imporci un embargo ingiustificato? Quanto al cosiddetto governo di transizione somalo, la questione non riguarda né gli Usa né il Consiglio di sicurezza dell’Onu: riguarda il popolo somalo.

Ma lei riconosce la legittimità del governo somalo o no?

Nessuno l’ha riconosciuta. Noi riconosciamo lo stato di Israele anche se la maggioranza dei paesi arabi non lo riconosce. Sono state imposte sanzioni ai paesi arabi? Il governo somalo rappresenta il Puntland, rappresenta il Somaliland, rappresenta qualcuno fuori Mogadiscio? No. E’ assurdo sostenere che sia un governo legittimo e che chi non lo riconosce dev’essere punito. Ed è illogico chiedere all’Eritrea di fare un gesto per ottenere la riconoscenza degli Usa. Il punto è che dobbiamo trovare una soluzione durevole al problema somalo. La risoluzione che legittima il governo di Mogadiscio non ha valore ed è basata su premesse sbagliate. In ogni caso è irrilevante. Le sanzioni e il governo somalo di transizione sono due argomenti distinti. Su quali motivazioni il Consiglio di sicurezza basa l’adozione delle sanzioni contro l’Eritrea? Su quali premesse giuridiche? E poi: riconoscere il governo di Mogadiscio porterebbe a una soluzione della questione somala? Certamente no.

L’Eritrea viene spesso paragonata alla Corea del Nord. Che effetto le fa?

Dovrebbe chiederlo a chi fa questo paragone. Abbiamo forse armi atomiche? Abbiamo tecnologie nucleari? Quali sarebbero le similitudini?

L’isolamento internazionale, un regime monopartitico…

Il paragone con la Corea del Nord ha lo scopo di demonizzare il governo eritreo. Demonizzare governi, individui e gruppi politici era la norma durante guerra fredda, quando gli avversari venivano classificati come nemici e calunniati dalla propaganda. Lo abbiamo visto anche di recente, ma è servito solo ad acuire i problemi. A nessuno piaceva il regime di Saddam Hussein, ma tutti sapevano che non esistevano armi di distruzione di massa in Iraq. Quando non si hanno prove tangibili a sostegno di una tesi si ricorre alla demonizzazione dell’avversario. In ogni caso: come può una persona sensata paragonare l’Eritrea alla Corea del Nord? E chi fa questo paragone? I media condizionati da gruppi politici che li usano per raggiungere i loro scopi e nascondere la debolezza dei loro argomenti.

In Eritrea come in Corea del Nord ci sono violazioni dei diritti umani, non c’è libertà di stampa, gli oppositori politici finiscono in carcere…

Tutte queste accuse provengono da Washington. Ma qual è la posizione degli Usa rispetto alle monarchie? Cosa dicono a Washington dell’Arabia Saudita? Cosa dicono del Medio Oriente? E della stessa strategia americana nel mondo? Come possono accusare l’Eritrea di violare i diritti umani, religiosi e politici e la libertà di stampa? Siamo una nazione tollerante dove cristianesimo e islam hanno convissuto in armonia per secoli. Non ci sono sette o religioni dominanti. Se gli Usa vogliono combattere l’estremismo islamico non possono farlo imponendo il predominio della cristianità e condannando gli altri per la violazione dei diritti religiosi. Non possono interferire politicamente in un paese creando un’opposizione, o comprandola, e poi lamentarsi perché gli oppositori vengono interrogati.

E quali sono i vostri rapporti con l’Iran?

Dal 1991 non abbiamo relazioni diplomatiche. L’Iran ci ha chiesto di riallacciare i rapporti e noi abbiamo risposto positivamente. Noi non discriminiamo alcun governo o paese per le sue politiche. Abbiamo nominato un ambasciatore ma a Tehran non abbiamo neppure una sede diplomatica.

Ma aprirete un’ambasciata a Tehran?

Vogliamo avere relazioni come con tutti gli altri paesi. Però capisco dove vuole arrivare: l’Iran è diventato un “bad boy” che si sta cercando di associare a un altro “bad boy”. A noi non interessa indagare se siano valide le ragioni di chi sostiene che l’Iran sia uno stato canaglia. Non è affar nostro. Si cerca di collegare l’Eritrea all’Iran, ai suoi programmi nucleari o al conflitto arabo-israeliano: tutto ciò non ci riguarda, non siamo in vendita, per nessun motivo.

Che rapporti avete con l’Italia? La magistratura italiana accusa l’assessore al Turismo della Lombardia Pier Gianni Prosperini di avere intascato una tangente di 800 mila euro sulla vendita all’Eritrea di 8 pescherecci dei Cantieri Navali Vittoria…

Molto prima che la magistratura italiana si muovesse abbiamo capito che c’era qualcosa di strano nei comportamenti di Prosperini e negli affari che ci proponeva in Lombardia e altrove. Non è nostro compito stabilire se è corrotto o meno, ma sentivamo che c’era qualcosa di losco e abbiamo interrotto ogni rapporto di affari con lui. I nostri contatti non sono durati più di un anno.

Prosperini afferma di essere stato nominato Colonnello dell’esercito eritreo…

Guardi, l’esperienza ci ha insegnato a capire se una persona puzza…Sono lieto che anche la magistratura italiana se ne sia accorta, ma noi ce n’eravamo resi conto molto prima. Lui era un rappresentante eletto, un personaggio di spicco. Come mai nessuno si è accorto di ciò che faceva? Per ragioni di interesse? Per noi è un capitolo chiuso.

E in generale come sono oggi i rapporti politici e commerciali tra Eritrea e Italia?

I contatti con uomini d’affari e investitori italiani sono sempre stati ottimi, anche in virtù dell’eredità storica del passato coloniale. E’ un’eredità che esiste e che non si può cancellare: la politica può cambiare, i governi possono cambiare ma l’eredità del passato resta. Oggi la situazione non è favorevole agli investimenti e agli scambi commerciali, ma questo è soprattutto un problema dell’Italia. I mutevoli governi italiani non hanno mai avuto una politica chiara e definita rispetto al Corno d’Africa: vorremmo vedere l’Italia impegnata nella regione in modo più articolato e incisivo. Ma la posizione italiana non è forte.

E’ la posizione dell’Unione europea…

In ogni caso avremmo voluto vedere più investimenti, più rapporti commerciali con l’Italia, perché esiste un rapporto speciale tra i due paesi: piaccia o no quella italo-eritrea è una relazione unica, che non esiste con gli altri membri dell’Ue. Abbiamo piccoli programmi di cooperazione in diversi settori (investimenti, tessile, agricoltura, commercio, macchinari, materiali vari) e spero che ci saranno migliori opportunità per rafforzare questi legami. Dipenderà da due fattori: il consolidamento di un ambiente favorevole agli investimenti e da parte italiana una politica chiara in grado di incentivare e intensificare la cooperazione.

Prosperini è anche sospettato di avere trafficato in armi con l’Eritrea. Avete mai acquistato armi in Italia?

Nessun traffico. Avevamo un rapporto con la Beretta per l’acquisto di una o due armi. Ma non è stato per interessamento di Prosperini. Avevamo anche un’intesa per la nostra aviazione: all’inizio pensavamo che l’Italia potesse essere il nostro partner. C’erano trattative con Aermacchi per gli aerei e con Agusta per l’acquisto di elicotteri: c’era un’intesa bilaterale tra Italia ed Eritrea per la nostra aviazione e per la marina. Ma quell’epoca Prosperini non c’era, non c’era nessun mediatore. Era un’intesa reciproca e condivisa. Non abbiamo bisogno di nessun mediatore per comprare alcunché dall’Italia. Il caso che si è verificato (pescherecci, ndr) ci ha permesso di aprire gli occhi su quel signore: un imbroglione.

Dunque avete acquistato aerei Aermacchi ed elicotteri Agusta?

Si, abbiamo qui gli aerei. Ma vede, si compra una pistola o una mitragliatrice, magari solo per testare il mercato. In ogni caso non c’è bisogno di alcun mediatore. Quando si hanno rapporti con grosse società non si scende a livelli bassi. E’ la solita storia: il tentativo di associare l’Eritrea a un mascalzone in Italia. Noi non trattiamo con questi individui.

Dove acquistate le armi?

Non ne compriamo, quasi.

Non ne avete bisogno?

Per fare cosa? Avere un esercito è una necessità ma le migliori armi che abbiamo sono un’eredità della guerra: armi leggere e di medio calibro, vari tipi di carri armati, artiglieria. Qualcosa abbiamo comprato ma la nostra preoccupazione principale dopo la liberazione era l’aviazione, non avevamo mai avuto un’aviazione durante la guerra di liberazione. E anche in questo caso pensammo prima di tutto all’Italia. Comunque, è una questione di priorità: c’è bisogno di costruire l’economia o un esercito? Ovviamente la guerra di confine con l’Etiopia ci ha costretti a determinate scelte, ma anche in quel caso siamo stati parsimoniosi. Ci siamo detti: non dobbiamo cadere in ostaggio dell’insicurezza, non dobbiamo investire denaro in armi, dobbiamo piuttosto comprare più trattori, più macchine e materiali per la costruzione di strade, dobbiamo investire molto nelle infrastrutture per la nostra agricoltura. Ed è molto difficile se si confronta il costo delle armi a quello degli investimenti per lo sviluppo: è un rapporto da 1 a 20. Con il costo di un sistema d’arma si possono comprare più di 20 trattori o altri macchinari utili.

Però le statistiche dicono che l’Eritrea spende più del 6 per cento del suo budget per le forze armate…

E’ un’altra menzogna. Non spendiamo niente per le armi.

Ma in generale per la Difesa

Bisogna essere chiari. Quando hai un esercito in servizio e un esercito di riserva e devi pagare i salari e i rifornimenti. Spendere denaro per acquistare armi è un’altra cosa.

Dunque le statistiche si riferiscono a tutto il complesso delle spese.

Mettono tutto insieme pur di dimostrare che le armi rappresentano una grossa fetta del nostro budget. Non è così. Siamo costretti ad essere vigilanti e a mantenere un esercito di riserva: e non è un crimine avere un esercito di riserva, è un nostro diritto, per l’autodifesa. Ma non abbiamo le mani bucate. Spendere denaro per le armi è una follia quando ci sono altre esigenze e altre priorità. Se ci sono fondi disponibili devono essere spesi per qualcosa di utile: preferisco comprare cento trattori piuttosto che un singolo carro armato. Perché dovremmo comprare armi? Abbiamo conosciuto la guerra, sappiamo cosa significa per la società e stiamo ancora pagando il prezzo.

Lei ha partecipato attivamente ai negoziati che hanno portato alla firma dell’accordo di Doha tra il governo di Khrtoum e il principale gruppo ribelle del Darfur. Quale è stato il suo ruolo?

La nostra politica estera è basata su una priorità: vogliamo una regione stabile. E’ dal 1989 che a causa delle politiche adottate da Khartoum il Sudan ha problemi: nel sud Sudan, nell’est, nel Darfur e altrove. Pensiamo che ci dovrebbe essere una soluzione complessiva, ma non possiamo sostituirci al governo sudanese. E l’accordo firmato a Doha è una prima pietra per la costruzione della pace, un mattone al quale ne ossono seguire altri. L’importante è che prevalga la pace, perché con il Sudan e con gli altri paesi della regione vogliamo avere relazioni commerciali ed economiche. E’ questo che ci ha spinto a coinvolgerci nelle trattative.

Per quale motivo avete espulso dall’Eritrea quasi tutte le Ong e le agenzie dell’Onu?

Non le abbiamo espulse. Chiunque vuole aiutarci è benvenuto. Ma nessuno può dirci: abbandonate i vostri programmi e adottate i nostri. Non possono dirci: conosciamo noi i vostri bisogni, ci pensiamo noi. Non accetto che vengano a dirci: facciamo noi i progetti che riteniamo utili.

E’ questo che fanno?

Si. Noi abbiamo un problema di governo e di istituzioni pubbliche, che stiamo costruendo. Ci vogliono strutture efficienti per realizzare i progetti. Ma se un’agenzia esterna si sostituisce alle nostre istituzioni come possiamo costruirle? Vogliono fare tutto al nostro posto, decidere i progetti e realizzarli spendendo un sacco di denaro per gli esperti che vengono dall’estero. Pretendiamo trasparenza e responsabilità contabile. Non si può spendere denaro per pagare i salari di qualche pensionato straniero: dobbiamo far lavorare la nostra gente.

Tutte le Ong hanno cercato di imporre i loro programmi?

Non tutte. Molte volevano realizzare i loro programmi a prescindere dai nostri. E se ne sono andate, dicendo che le circostanze erano in contrasto con la loro filosofia d’intervento e con i loro regolamenti. Noi non abbiamo espulso nessuno.

In passato lei ha criticato duramente gli sprechi delle agenzie dell’Onu.

Si devono stabilire le regole del gioco. Ti siedi a un tavolo e dici: i bisogni della gente in questa o quella regione sono questi, si guardano i numeri e si fa un piano. Poi si valutano le risorse disponibili e se non sono sufficienti si stabiliscono delle priorità.

D’accordo. Ma quali problemi sono sorti con le agenzie dell’Onu?

Lavoravano a beneficio di altri. Lo fanno ovunque. Quanti cosiddetti esperti vengono impiegati da queste agenzie in Africa? E quanto denaro viene speso? E’ devastante, perché dove sono loro non è possibile sviluppare le capacità e le istituzioni locali. Impiegano esperti stranieri mentre gli esperti locali non trovano lavoro e sono costretti a emigrare. C’è bisogno di addestrare i tecnici locali ma non è possibile perché i tecnici arrivano dall’estero. Si potrebbe impiegare manodopera locale a prezzi ragionevoli e invece si assume gente da fuori.

Dunque è l’intero sistema Onu che lei critica.

Certo. Noi ci sforziamo di realizzare i progetti al costo minimo, senza sprechi. Ma l’Onu ci ha detto: queste sono le nostre regole. Noi abbiamo risposto che non eravamo d’accordo, e loro se ne sono andate dicendo che le avevamo espulse.

A proposito della missione dei caschi blu dell’Onu sul confine etiopico: per quale motivo se ne sono andati?

Erano qui per una missione di pace e il loro mandato era chiaro: restare fino al verdetto della commissione internazionale sulla disputa di confine. Il problema è stato risolto. Dunque dopo il verdetto la loro presenza non era più necessaria. Perché avrebbero dovuto rimanere? I caschi blu non erano più di 5 mila e il loro budget annuale era di 200 milioni di dollari: 100 milioni erano per i salari, altri 100 per servizi e provviste. In 5 anni fa un miliardo di dollari! Qualcuno sa come sono stati spesi?

Cosa rispose Kofi Annan?

Nessuna risposta.

Ci sono stati casi di corruzione e di favoreggiamento della prostituzione nel contingente Onu?

Non abbiamo elementi per dimostrarlo. Posso solo dirle che quando se ne sono andati volevano lasciare qui tutta la loro ferraglia: sui giornali ho letto che avrebbero lasciato generatori e macchinari. Poi abbiamo visto l’inventario ed era robaccia, e allora ci siamo chiesti: non può essere costata tutti quei soldi, dove sono le fatture, come hanno gestito quei 200 milioni di dollari all’anno, e chi ne risponde? Chi è responsabile? E’ molto triste. Ogni persona sensata dovrebbe porsi il problema della validità di queste operazioni miliardarie. Sarebbe necessaria una riforma delle Nazioni Unite. Tutti vorrebbero che l’Onu fosse un organismo efficiente e funzionante, non l’Onu che vediamo oggi. Non solo l’Eritrea, tutti i governi chiedono una riforma dell’Onu. E’ un’istituzione superata che non fa bene il suo lavoro e in molti casi è diventata un peso e una fonte di problemi.

Parliamo della politica interna. L’Eritrea ha un regime monopartitico e non ci sono libere elezioni. Come descriverebbe il sistema politico del suo paese?

Non è uno stato a partito unico. Per costruire una nazione dopo 30 anni di guerra per l’indipendenza ci vuole molto tempo. A causa delle interferenze e degli interventi esterni questo processo non è affatto semplice.

Come può affermare che non ci sia un regime a partito unico? Non esistono partiti di opposizione.

Intendo dire che per ovvie ragioni non ci sono oggi alternative.

Ma pensa in futuro di introdurre un sistema multipartitico e libere elezioni?

Il sistema politico è un mezzo non un fine in sé. La costruzione della nazione è per noi il principale obiettivo e siamo ancora nello stadio iniziale di questo processo: fra venti o cento anni le cose saranno diverse. Oggi dobbiamo mantenere la rotta della costruzione della nazione. E’ più importante la costruzione dello stato o il multipartitismo? Ci sono forse paesi in Africa che sono riusciti a edificare uno stato? Sono tutti divisi, in preda a crisi provocate da un multipartitismo che polarizza le società verticalmente, con partiti religiosi, partiti tribali, partiti nazionalisti, partiti basati su ogni genere di fattore divisivo. Il pluralismo senza una profonda trasformazione sociale conduce alla frammentazione della società e a continue crisi interne.

Ma come può la gente partecipare alla costruzione nazionale se non esistono partiti? In che modo la gente può esprimersi?

Come durante la guerra, il periodo più difficile nella storia di una nazione, quando l’unico obiettivo comune era la liberazione del paese. Non c’erano divergenze politiche, non c’erano alternative, non c’erano altre opzioni. Dopo la l’indipendenza siamo entrati in una fase diversa, nella quale abbiamo dovuto preparare e consolidare il terreno per la fase successiva. Non possiamo d’un tratto introdurre il multipartitismo rischiando di spaccare la società come è avvenuto in Somalia, Etiopia, Sudan, Kenya, Nigeria. Non faremo gli stessi errori solo per poter dire che siamo democratici e che consentiamo una larga partecipazione, che poi si trasforma in lotte tribali, religiose o nazionali. La partecipazione è una forma di aggregazione che muta quando la trasformazione della società raggiunge un determinato livello. E il processo di trasformazione delle società è infinito, dinamico.

Ma il risultato finale sarà un sistema democratico?

Quanto alla democrazia…In Kenya c’è democrazia? La democrazia ha significato in relazione al livello di sviluppo della società. In Europa ci sono livelli diversi di democrazia. Gli Usa e la Gran Bretagna hanno le loro tradizioni. Non si può affermare che ci sia una forma di democrazia adatta a tutte le società. Lei può parlare di partecipazione della gente in Italia perché l’Italia ha attraversato un  lunghissimo processo storico; oppure si può parlare del Sud Africa, del Kenya o della Nigeria nel contesto delle trasformazioni che sono avvenute all’interno di quelle società. Non esiste una democrazia valida per tutti.

Ma lei è il presidente dell’Eritrea. Che forma di sistema politico immagina per il futuro nel suo paese?

Una più larga e più significativa forma di partecipazione, in conformità della fase che staremo attraversando. Ma il mio lavoro consiste nell’occuparmi della fase attuale. Non posso lanciarmi in previsioni sul futuro. In Europa si parla di democrazia. Ma mi dica: come giudicate le monarchie di questa regione del mondo? Come giudicate la situazione in Cina? Perché volete trasformarci in cavie per le vostre fantasie sulla democrazia e il multipartitismo? Lasciateci fare le nostre scelte adattando le nostre politiche alla nostra realtà.

Ma come può la gente, adesso, in Eritrea partecipare al dibattito politico?

Attraverso le organizzazioni di base. Ci sono organizzazioni dei giovani, delle donne, sindacati dei lavoratori e il Fronte è presente in tutto il tessuto sociale. Ma ci sono altri strumenti di rappresentatività a tutti i livelli: regioni, province, villaggi, comunità. Per esmpio, è responsabilità del governo garantire a tutti l’istruzione: tutti devono avere l’opportunità di mandare i figli a scuola per apprendere qualcosa di utile ed essere in grado di mantenersi e rendersi indipendenti. L’istruzione è un diritto, come la sanità. Ci possono essere diversi modi per garantire i servizi sanitari ma non si può negare l’assistenza sanitaria a chi non ha i mezzi per potersela pagare. Come la genta partecipa a questo? Ogni cittadino ha l’obbligo di pagare le tasse, secondo il reddito o le leggi vigenti nel paese. La sfida più importante è proprio quella di progettare politiche adeguate, in grado di preservare i diritti dei cittadini e la loro partecipazione in tutti gli aspetti della vita quotidiana.

E la libertà di stampa? La libertà di espressione? La possibilità di esprimere liberamente le proprie opinioni? Qui non c’è libertà di stampa.

La libertà di stampa non esiste. Con la globalizzazione siamo diventati schiavi dei gruppi che controllano i media, le nostre menti e le nostre vite. Con tutti i progressi della tecnologia informatica e l’accesso generalizzato alle informazioni, chi controlla questi mezzi controlla anche noi. E’ un insulto all’intelligenza parlare di libertà di stampa. L’informazione è manipolata. Negli Usa è manipolata in continuazione, ogni giorno, ogni ora, ogni minuto, ogni secondo. Qui noi abbiamo le organizzazioni di base: non si fa informazione solo con i giornali, i programmi tv o radiofonici. Ci sono riunioni a livello di villaggio in cui la gente è libera di esprimersi..

Quindi lei afferma che in Eritrea c’è libertà di espressione, libertà di protestare e di criticare il governo?

Non poniamo limiti alla libertà di espressione. Non solo qui, anche nella diaspora. Si dice che poiché siamo un paese piccolo, con polizia e apparati di controllo, alla gente non è permesso esprimere le proprie opinioni. Ma come può un governo o un’istituzione funzionare senza la partecipazione della gente? Quando mettiamo a punto un programma educativo, sanitario, agricolo teniamo conto dei punti di vista dei cittadini, che sono liberi di esprimersi.

Ma i dissidenti del movimento G15 sono stati arrestati nel 2001. E perché sono da quasi 10 anni in carcere senza processo?

Cosa avremmo dovuto fare, dal momento che la sicurezza nazionale del paese e la sua stessa esistenza erano minacciate da individui che dall’interno del proprio paese cercavano di distruggerlo? La vicenda si è verificata in tempo di guerra, una guerra provocata, ed è il risultato di un intervento esterno. Non è il risultato di una normale dinamica politica all’interno del paese.

Sostiene che quei dissidenti sono stati arrestati perché rappresentavano una minaccia per la sicurezza nazionale?

Assolutamente si.

Niente a che vedere con la politica, con la manifestazione di idee diverse dalle sue?

Sarebbe un controsenso. Non abbiamo paura delle idee.

Allora si è trattato di un vero e proprio complotto?

Certamente era una cosa molto seria. E come avremmo dovuto risolverla? Con il plotone di esecuzione? Abbiamo cercato di contenere la minaccia, di limitare i danni alla sicurezza nazionale. E’ un obbligo non solo per il governo e le sue istituzioni ma anche per la popolazione di un paese: è la sua sopravvivenza, la sua stabilità, il suo sviluppo che sono minacciati. Dal 1998 a oggi abbiamo assistito a vari tentativi di interferenza esterna allo scopo di indebolire e distruggere questa nazione. Abbiamo il diritto di combattere per difendere la nostra esistenza, la nostra stabilità: è il diritto alla nostra autodifesa.

I detenuti saranno giudicati o resteranno per sempre in carcere?

Non ha importanza. Perché come ho già detto si è trattato di una manovra esterna che ha minacciato la nostra sicurezza nazionale. Abbiamo tutto il diritto di difenderci.

Alcuni degli arrestati erano suoi amici, suoi compagni per molti anni durante la guerra di liberazione, come Petros Solomon, ex ministro della Difesa e degli Esteri. Cosa ha provato quando li ha fatti arrestare?

Per me non è una novità. Durante la guerra di liberazione molti compagni hanno disertato e sono passati al nemico: erano pronti a ucciderti, a uccidere la tua gente.

Ma non prova alcun dolore per la sorte dei suoi ex compagni?

Col tempo si impara a convivere con questi sentimenti. Hai un obiettivo, uno scopo: vorresti vedere ognuno fare bene il proprio lavoro. L’episodio a cui lei si riferisce è recente ed è stato facile superarlo. Durante la guerra di liberazione, quando i compagni disertavano, anche da posizioni di alta responsabilità, e passavano al nemico, era molto più duro.

Non ha l’impressione che ci sia un gap crescente tra la generazione che ha fatto la guerra e chi è nato dopo la liberazione?

L’ambiente è cambiato, ma io vedo lo stesso patriottismo, adattato alla nuova realtà. I giovani sono orgogliosi di essere eritrei e di difendere il loro paese, la loro famiglia, i loro vicini di casa: c’è ancora questo spirito, forse ancora più forte adesso. Certo non è come ai vecchi tempi, le cose sono cambiate. Ci sono giovani che lasciano il paese per andare altrove: chiunque può sbagliare, farsi illusioni su certe cose. Ma qui restano le famiglie, le comunità, il nostro paese. Questo non può cambiare.

Ma il numero dei clandestini eritrei in Europa è in aumento. Anche nei campi profughi dello Yemen ci sono numerosi eritrei…

Bisogna essere realisti. Se ne vanno perché cercano nuove opportunità di lavoro. Noi siamo sotto assedio e quando la gente si sente soffocare vuole andarsene, cercare un’alternativa di vita, avere una casa, un buon salario, costruire la propria famiglia. L’errore è pensare che andando in Europa o in Medio Oriente si possa avere molto denaro gratuitamente: pensano di ottenere pasti gratis, una casa gratis, e tutto il resto. Ma i giovani si illudono: in Medio Oriente se hai la fortuna di trovare un lavoro non ti danno più di 200 dollari. Ma con 200 dollari al mese non paghi nemmeno l’affitto di una stanza. Vorrei poter dire ai giovani che sbagliano, ma nessuno mi ascolterebbe. In Europa anche gli operai specializzati vengono licenziati: come può un emigrante che arriva dall’Africa senza alcuna istruzione trovare un lavoro?

I giovani se ne vanno anche per sfuggire al servizio militare obbligatorio?

No. Anche perché il servizio militare è spesso solo teorico. Si fa l’addestramento dopo la fine della scuola superiore e poi si va al college o all’università: non si è obbligati ad arruolarsi nell’esercito. E’ vero, i giovani restano coscritti, ma non sono obbligati a entrare nell’esercito. Se un giovane non ha le capacità per proseguire gli studi universitari andrà in un istituto tecnico-professionale. La maggioranza fa così. E quando sei stato addestrato per un lavoro non sei obbligato a entrare nell’esercito.

Ma il servizio militare è obbligatorio.

Certo. Ma questo non significa che sei nell’esercito.

Però puoi essere richiamato in ogni momento.

Si.

Altrimenti continui a lavorare in fabbrica o in ufficio…

Se hai un lavoro. E questo è il problema: se non c’è lavoro non ci sono i salari. E questa è un’altra conseguenza dell’aggressione esterna e del tentativo di soffocarci.

Allora i giovani scelgono l’esercito perché non hanno alternative di impiego?

In minima parte. Non è saggio tenere tutti sotto le armi.

Ma qual è il livello dei salari in Eritrea?

Dobbiamo ancora raggiungere l’obiettivo che il salario sia compatibile con il livello di produzione raggiunto in un detreminato settore. L’agricoltura, la pesca, il turismo non si sono sviluppati in modo tale da poter impiegare il maggior numero di persone con un salario adeguato.

La recessione mondiale sta danneggiando la vostra economia? Le rimesse degli emigranti sono calate in modo sensibile?

Con la recessione abbiamo avuto anche dei vantaggi: quando i prezzi erano molto elevati comprare ruspe o trattori era estremamente costoso. E il carburante necessario per realizzare i nostri progetti era proibitivo. Adesso i prezzi si sono dimezzati, il costo dei materiali oggi è per noi più conveniente. E ora c’è anche il vantaggio della concorrenza: possiamo scegliere tra prodotti cinesi, turchi, europei, americani. Ma ogni anno abbiamo un incremento del 20-30 per cento del fabbisogno di macchinari, di materiali e di risorse finanziarie, mentre le rimesse in valuta pregiata sono in calo. Un altro handicap c’è nel settore agricolo: i nostri programmi si sono concentrati sulla sicurezza alimentare, ma dovremmo essere in grado di aumentare la produzione e di esportare.

Avete un problema di fame, di denutrizione in Eritrea?

No. Nel settore della sicurezza alimentare abbiamo ottenuto importanti successi. Intendiamoci: fame e carestia causate dalle ricorrenti siccità sono sempre in agguato. Ma per i prodotti alimentari abbiamo un sistema di distribuzione molto efficiente: aiutiamo chi non è in grado di acquistare cibo sul mercato.

Con la tessera alimentare e il razionamento?

Si. Questo fa parte delle responsabilità del governo. Nonostante le difficoltà siamo riusciti a mettere in piedi un efficiente sistema di distribuzione e di produzione alimentare. Ma non è sempre sufficiente. Dobbiamo importare, mobilitare risorse per comprare cibo e colmare il gap.

Dunque avete bisogno di valuta, delle rimesse della diaspora.

Si.

E non pensa che con le sanzioni quasta fonte di valuta possa prosciugarsi?

Le rimesse non arrivano solo in valuta. Gli eritrei della diasporali convertono in nacfa. Le banche possono bloccare la valuta, ma non il flusso di denaro che raggiunge in moneta locale le singole famiglie.

Però avete bisogno di valuta per acquistare il carburante e i generi alimentari all’estero. Quali sono le principali fonti di valuta?

L’esportazione di alcuni prodotti, bestiame, pesce, e anche una parte delle rimesse. Gli emigranti di fronte al blocco hanno trovato i sistemi per aggirarlo.

E poi le miniere d’oro e di zinco. Avete concluso accordi con oltre 20 società australiane, canadesi, cinesi: accordi che prevedono per il governo eritreo quote del 40 per cento. Non pensa che le sanzioni possano bloccare questi progetti?

Ci possono essere ostacoli politici se il governo Usa o il dipartimento di Stato vietassero a una società americana di lavorare qui. Ci hanno già provato. Le banche che dovevano finanziare le società minerarie sono state minacciate, hanno tentato di bloccare i progetti: ma molte hanno detto di no. Per fortuna le società private hanno i loro interessi, che non coincidono con quelli dell’amministrazione di Washington. L’embargo è destinato a fallire. Perché un governo dovrebbe impedire alle società private di fare affari quando la crisi ecomomica le obbliga a investire all’estero? Non ha senso.

Gli investimenti stranieri sono molto scarsi in Eritrea

Non per ragioni politiche. Costruire qualcosa da questa economia distrutta e creare un ambiente favorevole agli investimenti richiede sforzi immani.

E un quadro giuridico adeguato

Il sistema giuridico qui è tra i migliori. E’ parte del software. L’hardware sono le strade, gli aeroporti, l’energia elettrica, le forniture idriche, e bisogna avere un sistema legale che sia attraente per gli investitori. Puoi averlo sulla carta, ma questo non basta agli investitori. Hanno bisogno di corrente elettrica a buon mercato, di manodopera qualificata e poco costosa, di forniture d’acqua, di mezzi di trasporto, di comunicazioni. Senza un ambiente favorevole è difficile aspettarsi che gli investitori vengano qui a impegnare i loro soldi.

E’ corretto definire l’Eritrea un paese con un’economia di stampo sovietico, pianificata a livello centrale, dove non c’è posto per la proprietà privata?

No. Al momento della liberazione tutta l’economia era statalizzata. E la prima cosa che abbiamo fatto è stata restituire i beni ai legittimi proprietari. Tutte le case, le abitazioni, le industrie erano state confiscate, nazionalizzate dal governo di Menghistu. Il livello di sviluppo della nostra economia richiede un intervento massiccio del governo, ma il governo non può fare tutto. Purtroppo molte delle fabbriche e delle attività commerciali privatizzate non hanno avuto successo: non si può esportare se non si hanno prezzi competitivi e prodotti di qualità. I prodotti tessili eritrei devono competere con i prodotti pakistani, indiani, cinesi. Non basta la buona volontà, non basta privatizzare perché un’industria produca bene e sia competitiva.

Siete per un’economia mista, in cui coesistono il settore pubblico e quello privato?

Quando abbiamo scritto il programma del Fronte durante la guerra di liberazione abbiamo detto proprio questo: in futuro avremo un’economia mista. Allora era sulla carta, era teoria. Ora è diventata realtà. E’ assurdo pensare che possa esistere un’economia al 100 per cento privata. E non può esistere un’economia pubblica al 100 per cento. Negli Usa dopo la recente crisi finanziaria il governo è intervenuto per stimolare la ripresa: e ci si è resi conto degli errori, delle percezioni sbagliate a proposito del settore privato.

Quindi lo stato deve occuparsi della Difesa, degli approvvigionamenti energetici, dei grossi impianti industriali, delle infrastrutture…

E della sanità. Negli Usa oggi la sanità è un grave problema: molti americani sostengono che il governo non debba interferire nelle loro vite. Allora solo chi ha i mezzi economici deve potere avere accesso all’istruzione e alla sanità? Non si può costruire un’economia lasciando la maggioranza dei cittadini nell’ignoranza. Solo se la gente è istruita si può avere un’economia che funziona, con gente che produce, non certo se solo una minoranza può mandare i figli all’università.

Lei sostiene che la scarsa presenza del settore privato in Eritrea non è dovuta a motivi politici ma alle oggettive difficili circostanze? All’assenza di adeguate infrastrutture?

L’ideologia è una cosa, l’economia un’altra. Le regole del gioco economico non sono dettate dall’ideologia o dalla buona volontà. Economia significa produzione, distribuzione e consumo. In sostanza devi essere in grado di produrre il più possibile prodotti di qualità, interagendo con i mercati locali e internazionali. La crisi globale è una buona lezione per tutti: ci insegna che non si può pensare che un’ideologia guidi il sistema economico. L’economia è un sistema pre-definito per gestire le cose. Quando un cittadino è istruito e specializzato è in grado di produrre meglio. Acquista valore aggiunto. Quando si hanno milioni di individui con un grado elevato d’istruzione l’economia produce di più e migliora la qualità della vita di tutti. Si possono cambiare queste regole di base? Ci sono alternative?

I prezzi dei generi di base sono molto aumentati, c’è molta inflazione. E il governo deve sovvenzionare i beni di consumo primari.

Se all’inflazione corrisponde un aumento della produzione è normale. Ma se è un’inflazione distorta dalla speculazione o da pressioni esterne allora diventa un problema che dev’essere affrontato. In un’economia normale i tassi d’inflazione sono in linea con i risultati complessivi della produzione industriale e con i consumi: quando il potere d’acquisto dei cittadini cresce, cresce la domanda di beni di consumo e i prodotti diventano disponibili. E’ una regola universale.

Ma non mi pare sia il caso dell’Eritrea.

Invece si. Sovvenzioniamo un certo numero di beni. Il carburante è sovvenzionato. Ma non lo facciamo per generosità. Lo facciamo perché se sovvenzioniamo il carburante aiutiamo la gente a ridurre i costi di produzione in modo che possa produrre di più.

Ciò nonostante il prezzo della benzina in Eritrea è tra i più elevati al mondo.

E’ vero, ma anche i generi alimentari sono sovvenzionati. Dobbiamo farlo. Perché la maggioranza della gente non è in grado di produrre a sufficienza. La farina è sovvenzionata, e anche il pesce. I prodotti di base sono sovvenzionati e razionati. I sussidi rispondono a una logica molto semplice: consentire una riduzione dei costi. Se i prezzi fossero liberalizzati un piccolo imprenditore o un commerciante non sarebbe neppure in grado di comprare la benzina e l’economia si fermerebbe. In sostanza: per stimolare la produzione dobbiamo utilizzare i sussidi. E per sostenere questa spesa dobbiamo gestire in modo oculato le nostre risorse.

 

Giovanni Porzio – da Asmara (21.03.10)

 

Si fa fatica a considerare Asmara una capitale africana. Il clima, sui 2.300 metri dell’altopiano, è asciutto e luminoso. Per le strade, pulite e ordinate, la gente passeggia tranquilla: furti e borseggi sono quasi inesistenti. I giovani e gli anziani che nel tardo pomeriggio affollano le pasticcerie e le verande dei caffè Art Deco sotto i palmizi di via della Liberazione non sembrano i cittadini di uno dei paesi più poveri del mondo, con trent’anni di guerra e più di centomila morti sulle spalle, con un regime autocratico che imprigiona i dissidenti ed esercita un controllo capillare sull’economia e la società.

Nell’ex “colonia primogenita” l’indelebile impronta del passato, di cui gli eritrei vanno fieri, concorre ad accrescere il senso di smarrimento. Si cammina tra ville borghesi del primo Novecento, ministeri e palazzi del Fascio, architetture razionaliste e neoclassiche, teatri e cinema d’epoca che si chiamano “Roma” e “Impero”, ristoranti che servono spaghetti alle vongole e cotolette alla milanese, negozi, bar, mercerie che ricordano la provincia italiana degli anni Cinquanta: vendono bottoni, penne stilografiche, liquori da tempo estinti. L’unico intruso, in quest’Africa italiana, è il poeta russo Aleksandr Pushkin, la cui effigie di bronzo troneggia da alcuni mesi in una piazza del centro: suo bisnonno era nato non lontano da Asmara.

La storia ha un peso preponderante in Eritrea. La si può ripercorrere tra gli scaffali della biblioteca pavoniana, dove fratel Ezio Tonini ha raccolto nei decenni centinaia di volumi e di preziosi documenti; sulla locomotiva a vapore (anno di costruzione 1937) che scende a precipizio fino al mare di Massaua; nei monasteri copti o sulle tombe degli ascari e degli italiani caduti a Dogali. Quella più recente ha il suo incongruo mausoleo nel surreale cimitero dei residuati bellici alle porte della capitale: carri armati, veicoli e mezzi blindati sovietici accatastati alla rinfusa, migliaia di tonnellate di acciaio in attesa di qualche riutilizzo. Un gigantesco monumento informale alla lotta di liberazione.

Nel prato antistante il vecchio Abraham pascola le pecore: lui, in quella guerra feroce, ci ha lasciato una mano e una gamba. “Il proiettile di un tank” racconta appollaiato sulle grucce. “Nella battaglia di Nacfa. Ma ho avuto fortuna, molti dei miei compagni non sono più tornati”. Non c’è famiglia che non abbia un morto o un mutilato in casa.

E’ stata lunga, e durissima, la guerra contro l’Etiopia di Menghistu Haile Mariam, il colonnello che aveva spodestato il Negus Hailè Selassiè: i Kalashnikov contro i carri armati, le mitragliatrici contro i Mig. Negli anni Ottanta ero stato un paio di volte con la guerriglia e avevo conosciuto il presidente Isaias Afeworki, all’epoca segretario generale aggiunto del Fronte popolare: parlava di democrazia e di emancipazione del suo popolo. Nelle zone liberate c’erano scuole, ospedali scavati nelle montagne, tipografie che sfornavano libri di testo, fabbriche, officine meccaniche. Nelle trincee uomini e donne, cristiani e musulmani combattevano fianco a fianco, con una determinazione che finì per prevalere sulle soverchianti forze nemiche. Nel 1993, quando un referendum sancì l’indipendenza, il paese era in rovina e privo di risorse. Ma le aspettative erano alte. La resistenza aveva forgiato valori condivisi, una popolazione immune alle rivalità etniche e religiose, una classe politica esente dalla piaghe africane dell’avidità e della corruzione.

Forse proprio per questo è oggi più amaro l’elenco dei problemi e delle speranze deluse. Il Fronte è l’unico partito, non ci sono elezioni, gli oppositori scompaiono nelle carceri, i giovani fuggono all’estero. E l’economia non è mai decollata. Per scongiurare la fame il governo sovvenziona il carburante e i generi di prima necessità: la tessera di razionamento è indispensabile per mettersi in fila e acquistare un sacco di farina, un chilo di pesce o una tanica di benzina. Il servizio militare obbligatorio di 18 mesi può essere esteso indefinitivamente e i coscritti, uomini e donne chiamati a contribuire allo “sforzo di ricostruzione nazionale”, sono impiegati con salari risibili nei lavori pubblici e di utilità sociale.

“L’Eritrea” si legge in un rapporto di Human Rights Watch “è uno degli stati più repressivi al mondo. I prigionieri politici sono migliaia, tutti i media indipendenti sono stati chiusi e il regime usa la minaccia di un’aggressione etiopica per mantenere il paese in permanente mobilitazione”. L’Etiopia non è certo esente da pesanti responsabilità: non ha mai digerito la secessione dell’ex provincia eritrea, che le garantiva l’unico sbocco al mare. Nel 1998 una disputa di frontiera è sfociata in un sanguinoso conflitto. Nel 2000 la commissione internazionale incaricata di dirimere la controversia ha stabilito il tracciato del confine e imposto la restituzione all’Eritrea della cittadina di Badme. Ma Addis Abeba si rifiuta di evacuare le sue truppe, alimentando la tensione e offrendo ad Asmara il pretesto per rinviare qualsiasi ipotsi di apertura democratica.

“Siamo un paese assediato” afferma Isaias Afeworki, che rivedo a 25 anni di distanza in una sala del palazzo presidenziale (ex residenza del primo governatore civile della colonia italiana, Ferdinando Martini) e che, a dire il vero, mi pareva più a suo agio nei panni del capo guerrigliero sulle montagne di Nacfa. “Dal 1998 abbiamo assistito a vari tentativi di interferenza esterna allo scopo di indebolire e distruggere questa nazione. Abbiamo il diritto di combattere per difendere la nostra esistenza, la nostra stabilità”.

Gli Stati Uniti, secondo Afeworki, hanno sposato la causa etiopica e hanno convinto il Consiglio di sicurezza dell’Onu a votare, il 23 dicembre, le sanzioni contro il suo governo, accusato di armare e addestrare i fondamentalisti islamici in Somalia. “Dove sono le prove?” replica il presidente. “Noi non condividiamo alcuna ideologia basata sulla religione”.

Ha una risposta a tutto, Isaias Afeworki. Non fa una piega nemmeno quando gli chiedo di spiegare l’arresto, nel 2001, dei dissidenti che chiedevano libere elezioni e che non sono mai stati processati: “Erano dei traditori pagati dall’Etiopia”. E il suo sguardo s’indurisce se gli ricordo che tra i prigionieri ci sono alcuni ex ministri, i suoi più fidati compagni durante la guerra di liberazione: “Non ha importanza” taglia corto. “Hanno messo a repentaglio la sicurezza nazionale”.

Che l’Etiopia sia la causa di tutti i mali è però arduo da sostenere. Il pervasivo e asfissiante controllo statale su tutti i gangli dell’economia e della società scoraggia gli investitori stranieri e ha inceppato il meccanismo degli aiuti internazionali: ong e agenzie dell’Onu hanno fatto le valigie. E l’embargo, che dovrebbe scattare in giugno, rischia di ridurre ulteriormente le entrate in valuta (soprattutto le rimesse della diaspora) e di compromettere i progetti di sviluppo nei settori del turismo e delle miniere. L’Eritrea ha importanti giacimenti d’oro e di zinco e ha recentemente concluso accordi con oltre 20 società australiane, canadesi, cinesi ed europee. Mentre l’emiro del Qatar sta costruendo un resort turistico sull’isola di Dhalak Kebir, nell’incontaminato e quasi disabitato arcipelago di fronte a Massaua.

Il porto sul Mar Rosso, un tempo gremito di navi e straripante di attività commerciali, è semivuoto e la città in declino è l’emblema della triste parabola eritrea. Il vecchio centro storico, superbo esempio di sincretismo architettonico ottomano, arabo e italiano, è stato bersagliato dai Mig etiopici ed è in uno stato di pietoso abbandono. L’edificio pericolante dell’ex Banca d’Italia è rifugio dei cani randagi. Il palazzo imperiale, il mercato, gli alberghi sono in rovina. La villa della famiglia Melotti è stata rasa al suolo (per ordine del governo). Le saline producono a singhiozzo. E la gente, a dieci anni dalla fine del conflitto con l’Etiopia, continua a vivere tra le macerie delle case bombardate.

“Per noi la guerra non è mai finita” sospira l’anziano imam di una delle più antiche moschee del continente africano, restaurata a spese dei fedeli. “I giovani se ne vanno all’Asmara, in cerca di lavoro, o cercano di emigrare. A Massaua sono rimasti solo i vecchi, le vedove, i militari”. Il governo, che spera di rilanciare il commercio marittimo e il turismo, ha in progetto una zona franca e ha affidato a ditte coreane la realizzazione di nuovi alberghi e alloggi residenziali: ma è un obbrobrio urbanistico ancora incompiuto.

Di notte Massaua sprofonda nel buio. La centrale elettrica costruita dai russi sull’altro lato della baia, l’unica in Eritrea, non basta e le sole luci sono i neon rosa e violetti dei bar dove i marinai vanno in cerca di birre e di ragazze. La canicola estiva non è ancora arrivata, il caldo umido è temperato dalla brezza marina. Dalla discoteca sul tetto dell’hotel Torino, da tempo senza clienti, giunge la voce del compianto Abraham Afeworki, scomparso nel 2006. Canta l’amore e le speranze dei giovani della sua terra. Che forse sono annegate con lui, nelle infide correnti delle isole Dhalak.