Arafat’s Burial, Palestine, November 2004

Giovanni Porzio – da Gerusalemme (novembre 2004)

I contadini palestinesi si appellano alla Corte suprema per ottenere il permesso di raccogliere le olive nei campi sotto il tiro dei soldati di Tsahal. A Tel Aviv un kamikaze di 16 anni si fa esplodere in un mercato dilaniando tre anziani passanti. A Nablus le ruspe dell’esercito radono al suolo le abitazioni di tre sospetti terroristi (1.600 le case demolite dal 2000) e un ragazzino dodicenne è colpito a morte. Davanti alla sinagoga di Kfar Darom la granata di un obice ferisce gravemente un giovane colono. A Gerusalemme i “settlers” manifestano contro il piano unilaterale di ritiro da Gaza deciso da Ariel Sharon.

“Business as usual” in Terra Santa: la precipitosa partenza di Yasser Arafat, colto il 27 ottobre da un grave malore e ricoverato d’urgenza in un ospedale militare parigino, ha alterato la temperatura politica in Medio Oriente e richiamato legioni di giornalisti da tutto il mondo. Ma non ha finora provocato l’annunciato cataclisma, né ha fatto tacere le armi.

A Ramallah, dove avanzano i mastodontici blocchi di cemento del muro difensivo israeliano, la residenza-prigione della Muqata, per quasi tre anni forzato asilo e quartier generale del grande malato, è immersa nel languido torpore del Ramadhan. Niente fiori né candele accese né capannelli davanti all’ingresso del malandato edificio bombardato dai tank. Ma è una calma apparente. Tutti sono consapevoli che la lontananza del “vecchio” non è meno dirompente della sua ingombrante presenza.

Il 30 ottobre il vertice dell’Olp si è riunito, per la prima volta in quarant’anni, intorno alla sedia vuota del leader che incarna la storia, l’identità e le aspirazioni del popolo palestinese. Una sedia sulla quale nessuno, oggi, è in grado di sedersi. Non il settantenne numero due Mahmud Abbas (Abu Mazen), co-fondatore di al-Fatah, privo di carisma e sconosciuto agli shebab dell’intifada; non il premier Ahmed Qurei (Abu Ala), associato ai tanti episodi di corruzione dell’Autorità palestinese; non gli ambiziosi dirigenti “dell’interno”, gli ex capi dei servizi di sicurezza a Gaza e in Cisgiordania Mohammed Dahlan e Jibril Rajoub, considerati troppo vicini a Washington; non il popolare Marwan Barghouti, responsabile di al-Fatah nei territori occupati, che sconta cinque ergastoli nelle carceri israeliane.

Arafat non ha mai designato un erede. Tutto il potere è accentrato nelle sue mani: da solo ha preso tutte le decisioni, vinto le sue battaglie, commesso i non pochi errori. Nessuno dei pretendenti oserebbe fare altrettanto. E la reggenza collettiva ora in carica sembra paralizzata da una sterile e pericolosa incertezza. Alla concitazione dei primi momenti, quando i media davano il rais per morto e annunciavano la fine di un’epoca, è subentrata la prudenza: i bollettini dei medici parigini non escludono che il paziente abbia in serbo un’altra delle sue numerose vite. Ma non tutti sono convinti che un eventuale ritorno sulla scena di Arafat sia una prospettiva auspicabile.

Se il pacifista israeliano Uri Avnery è persuaso che la scomparsa di Abu Ammar “sarebbe una calamità”, perché “Arafat è l’unico leader che ha la forza e l’autorevolezza per firmare la pace e per farla accettare ai palestinesi”, il deputato laburista Amram Mitzna la giudica invece “un’opportunità insperata, perché priverebbe Sharon del pretesto di una controparte inaccettabile e potrebbe gettare le basi per la ripresa di un vero negoziato”.

La malattia del rais, quale ne sia l’esito, ha comunque costretto i dirigenti palestinesi a porsi in concreto il problema della futura leadership, visto che l’ipotesi di un’elezione presidenziale con i carri armati che circondano le città della Cigiordania è oggi fuori discussione. E che un Arafat resuscitato dai farmaci ma fisicamente debilitato sarebbe destinato al ruolo simbolico e cerimoniale di padre della patria. Da tempo nell’Olp è in corso un accanito confronto tra la vecchia guardia della resistenza e i fautori di un rinnovamento politico e generazionale, sempre procrastinato e sabotato dalle faide interne, dall’assenza di un serio progetto di riforma dell’Anp, dal moltiplicarsi dei centri di potere e degli apparati di sicurezza.

Intrappolati da quattro anni di sterile intifada, dimenticati da Washington e dall’Europa, schiacciati da una dura repressione, i palestinesi vedono sfumare il sogno di uno stato indipendente e chiedono di voltare pagina. Ma lo scenario che si apre non è incoraggiante. La nuova leadership dovrà gestire strutture corrotte e inefficienti in una società frammentata, impoverita e minata dalla violenza. La prolungata offensiva militare nei territori ha disgregato le fragili istituzioni dell’Anp, in particolare le forze di polizia, ormai incapaci di garantire l’ordine e di tenere sotto controllo le milizie armate che prosperano nell’anarchia. Mentre i gruppi oltranzisti come Hamas e Jihad islamica, responsabili della maggior parte degli attacchi terroristici in Israele, continuano a reclutare giovani nei campi profughi e nella striscia di Gaza.

Orfani di Abu Ammar, gli aspiranti al trono potrebbero presto rimpiangerlo. La deprecata “ambiguità” del rais, le sue doppiezze e i suoi voltafaccia hanno infatti consentito all’Olp di conservare una parvenza di unità, di evitare traumatiche rotture con la dissidenza interna, di mantenere aperti i canali con i gruppi religiosi, di giocare con abilità e spregiudicatezza sullo scacchiere arabo e internazionale. Una tattica di sopravvivenza che, nel vuoto creato dal disimpegno della Casa Bianca, ha finito per condurre in un vicolo cieco. Ma che ha finora impedito, o forse solo rimandato, il collasso dell’Anp.

Anche Ariel Sharon, dopotutto, potrebbe scoprirsi orfano del “vecchio”. Con Arafat confinato nella Muqata e con l’assenso della Casa Bianca, ha potuto ignorare la road map, avviare la costruzione del muro difensivo in Cisgiordania e imporre al Likud e alla Knesset il piano di sgombero delle colonie dalla striscia di Gaza. Senza il rais e con una leadership credibile a Ramallah Sharon non avrebbe più l’alibi di cui si è servito per congelare le trattative di pace con l’Autorità palestinese.