Arabian Sarajevo
Taiz, Yemen, March 2017

Una garza a coprire gli occhi. Le caviglie e i polsi fasciati dalle bende. E gli abiti insanguinati, stracciati dove le schegge di metallo rovente hanno straziato il corpo di Oudi Araf, 13 anni, uccisa dal proiettile di un mortaio mentre andava a scuola. È in attesa di sepoltura in una delle sei celle frigorifere dell’ospedale al-Rawdah di Taiz, assieme ad altre quindici salme dilaniate dai missili e dalle mine antiuomo. “Questa è l’unica camera mortuaria della città” spiega il dottor Fares al-Absi. “Quando le celle sono piene, dobbiamo mettere i cadaveri nei congelatori per gli alimenti”.

Taiz, quattrocentomila abitanti da due anni sotto assedio, è la Sarajevo dello Yemen: dalle montagne che la circondano i ribelli calati dal nord la bombardano di granate e di razzi Katyusha; dai tetti i cecchini sparano sui passanti inermi, mentre l’artiglieria martella le strade di accesso impedendo l’arrivo dei soccorsi.

La città è sul fronte più caldo della carneficina yemenita. Una guerra civile innescata dalla rivolta di un gruppo tribale seguace dello zaidismo, una variante dell’islam sciita:  gli Houthi – dal nome del loro leader Hussein al-Houthi, deceduto nel 2004 – che nel gennaio 2015 hanno conquistato la capitale Sanaa e gran parte del Paese con il sostegno delle milizie dell’ex presidente Ali Abdullah Saleh, costringendo il presidente in carica Abd Rabbo Mansur Hadi a rifugiarsi ad Aden, bastione della resistenza lealista. Ma non si tratta solo di un conflitto locale a sfondo etnico e religioso: in Yemen, come in Siria, si scontrano interessi e disegni strategici di più ampia portata.

Il 26 marzo 2015 l’Arabia Saudita, alla guida di una coalizione di Paesi della Lega araba, ha lanciato l’operazione Decisive Storm: una campagna di bombardamenti aerei che nelle intenzioni del trentenne ministro della Difesa di Riyadh Mohammed ben Salman avrebbe dovuto in pochi mesi ricacciare gli Houthi nelle loro roccaforti del nord, reinsediare a Sanaa il deposto capo dello stato e rinsaldare il ruolo di potenza regionale del regime wahhabita nei confronti dell’Iran, accusato di collusione con gli insorti. Ma la Tempesta si è rivelata tutt’altro che “decisiva”. Nonostante alcuni parziali successi l’intervento militare non ha sostanzialmente modificato gli equilibri sul campo di battaglia. E i tentativi di mediazione diplomatica sono stati finora inconcludenti.

È una guerra dimenticata, ignorata dai media, che ha già mietuto più di diecimila vittime e quarantamila feriti, ha provocato l’esodo di oltre tre milioni di civili su una popolazione di ventisette e sta distruggendo e affamando uno dei Paesi più poveri del mondo. Secondo le Nazioni Unite la carestia minaccia di colpire dodici milioni di persone: in venti mesi sessantatremila bambini sono morti di malattie correlate alla scarsità di cibo e all’assenza di cure.

Non è facile raggiungere Taiz dalle province del sud. Una nave mi ha sbarcato su una banchina del porto di Aden, la fornace vulcanica che dopo l’apertura del canale di Suez fu per lungo tempo uno scalo strategico di importanza vitale per la Marina imperiale britannica. La guerra non l’ha risparmiata: edifici sbriciolati, migliaia di sfollati che sopravvivono grazie agli aiuti distribuiti dal World Food Programme, sparatorie in pieno giorno, ambulanze che portano i feriti al centro chirurgico di Medici senza frontiere, orfani e bambini denutriti assistiti dai volontari locali e da Intersos, l’unica Ong italiana ancora presente in Yemen.

Lasciando Aden ci s’inoltra in un territorio infido, dove le linee dei fronti si moltiplicano e si confondono. A ovest, oltre lo Stretto di Bab al-Mandab, la “Porta delle lacrime” da cui transita il 40 per cento del traffico marittimo mondiale, le forze lealiste appoggiate da unità degli Emirati Arabi Uniti hanno riconquistato Mocha – dove il 22 febbraio è rimasto ucciso in un attacco il generale Saif al-Yafei, vice comandante delle armate sudiste – e avanzano sul litorale del Mar Rosso in direzione del porto di Hodeidah. A nord i caccia della coalizione non prendono di mira soltanto le postazioni degli Houthi: missili e bombe a grappolo (le micidiali BL755 inglesi e le americane CBU-105 della Textron corporation) colpiscono fabbriche, centrali elettriche, ponti, scuole, moschee, ospedali, campi profughi, serbatoi d’acqua, mercati, funerali e feste di matrimonio. A est, nelle ultime settimane, si sono intensificati i raid dei droni del Pentagono e le incursioni clandestine dei Navy Seals contro i santuari di al-Qaida nella penisola arabica, radicata nelle province di Abyan, Mukalla e Hadramaut. A sud spadroneggiano i militanti del movimento separatista al-Hirak e sono attive le cellule di Wilaya Sanaa, affiliate allo Stato islamico.

Walid, l’autista, sa dove passare e come negoziare il transito ai check point. L’unica via di accesso a Taiz è una pista che attraversa un deserto di dune di sabbia, risale il letto asciutto di un wadi, s’inerpica fino ai duemila metri di un passo di montagna e scende tra le alture rocciose che incombono sulle case, tra carcasse di carri armati, profughi in cammino e posti di blocco presidiati da miliziani armati che masticano foglie di khat, la pianta euforizzante che ammazza la fame e il sonno.

C’è un odore acre, di marciume acido e di plastica bruciata: un fumo tossico esala dagli ammassi di immondizia che ingombrano le strade. “Sei il primo giornalista occidentale ad arrivare qui” dice Mansur, che mi accompagna nei meandri della città in rovina. “Quella che vedrai è l’agonia di un popolo”.

Nei pochi ospedali rimasti aperti mancano i medicinali e le attrezzature. I feriti d’arma da fuoco arrivano in condizioni disperate: colpiti dai mortai o con le gambe mutilate dalle mine. Come Mohammed Shamsan, insegnante di 36 anni e padre di sei figli, che un proiettile di Kalashnikov nel collo ha reso quadriplegico. O Hisham Hamud Ali, miliziano di 22 anni che ha perso le gambe saltando su un ordigno inesploso. O Fahmi Hasan, infermiere trentasettenne rimasto cieco e senza un braccio quando il muro della sua camera da letto è esploso e gli è crollato addosso.

Ahmed Anaam, direttore dell’ospedale al-Thawra, fa l’impossibile per mantenere aperta la struttura, più volte centrata dalle granate. “Abbiamo dovuto evacuare i piani alti” racconta. “Stiamo trasferendo i degenti e le sale operatorie nel seminterrato. Nell’ultimo anno siamo riusciti a fare 15 mila interventi chirurgici. Ma è sempre più difficile: mancano i farmaci, l’ossigeno, il carburante; e non ci sono i soldi per pagare i salari. Riceviamo aiuti solo da Medici senza frontiere: terapie per l’urgenza e 500 litri di gasolio la settimana, se la strada non è interrotta”.

In un’attigua officina tecnici e operai s’ingegnano a fabbricare protesi con i materiali di cui dispongono: gesso, aste di ferro, lacci di cuoio. Il sistema sanitario è al collasso: anche la Croce rossa internazionale ha dovuto ritirare il proprio staff. Il numero dei casi di malnutrizione acuta nei bambini si è impennato del 63 per cento rispetto al 2015; colera, malaria e dengue sono una constante minaccia.

I rifornimenti sono ridotti all’osso e sono ostaggio delle milizie che si combattono. L’embargo imposto dalla coalizione multinazionale e i raid dell’aviazione sul porto di Hodeidah hanno drasticamente ridotto le importazioni dei generi di prima necessità: il cibo e gli aiuti sono diventati un’arma di guerra. A Taiz, da due anni senza luce elettrica e senza carburante, la benzina di contrabbando si vende in bottigliette di plastica agli incroci e l’acqua potabile è una merce sempre più rara, attinta da pozzi insicuri, distribuita da malandate autobotti o prelevata da cisterne dove le donne attendono per ore di riempire taniche da dieci litri. I marciapiedi brulicano di accattoni che mendicano un tozzo di pane. I bambini di strada rovistano nell’immondizia alla ricerca di avanzi commestibili o bruciano i cavi elettrici per recuperare fili di rame da riciclare al mercato.

C’è anche chi ci guadagna, come in tutte le guerre. E sono i produttori di armi: i russi, i cinesi e i Paesi dell’Alleanza atlantica, Italia compresa. Ma soprattutto gli americani, che dal 2010 hanno fornito a Riyadh caccia F-15, elicotteri, munizioni, sistemi di attacco e di difesa per oltre 60 miliardi di dollari: la più grande vendita di materiali bellici nella storia degli Stati Uniti.

“È una catastrofe” dice Ishral al-Maktari, responsabile dell’Associazione per la difesa dei diritti umani. “Nessuno è in grado di spezzare l’assedio e nessuno rispetta i futili appelli al cessate il fuoco. La popolazione è alla mercè di inaccettabili violenze da parte di tutti i gruppi armati: esecuzioni sommarie, reclutamento di minori, arresti arbitrari, bombardamenti indiscriminati, rapimenti, attacchi alle infrastrutture civili, ai luoghi di culto, alle zone residenziali”.

Il distretto di Gahmaliya, devastato dalle bombe, è uno spettrale cumulo di pietre: scuole e moschee sventrate, negozi incendiati, veicoli carbonizzati, palazzi crollati, l’ospedale militare saccheggiato. La residenza dell’imam Ahmed, che alla fine degli anni Quaranta del secolo scorso fece di Taiz la capitale del suo regno, è un avamposto dove bivaccano i combattenti della resistenza anti Houthi. Alcune famiglie sopravvivono nei ruderi delle abitazioni, arrangiandosi con il legname, le lamiere e i rottami strappati alle macerie; ma quasi tutta la popolazione è fuggita, disperdendosi nei villaggi, nelle tendopoli, in ripari di fortuna, nelle grotte e negli anfratti delle montagne.

La zona settentrionale della città è in mano ai ribelli. Il fronte attraversa il quartiere-fantasma di Hay Bank e Abu Mohammed, il comandante della locale milizia, mi avverte di tallonare i suoi passi: nei vicoli e negli edifici sbrecciati si nascondono mine, booby-traps, esplosivi. Ci avviciniamo rasentando i muri, calpestando vetri rotti e bossoli di munizioni, attraverso tunnel e trincee di sacchetti di sabbia. “Combattiamo casa per casa” spiega il comandante. “Le postazioni degli Houthi sono laggiù, sul monte Saber; sulle colline a nord, a est e a ovest di qui. Più avanti non possiamo andare”.

Ci fermiamo al riparo di un tendone steso tra due facciate pericolanti: un sipario per impedire la visuale di tiro ai cecchini. Parte una breve raffica, seguita da due colpi isolati. “Sono a meno di duecento metri” dice Abu Mohammed. “Sparano con gli AK-47, i mortai e le mitragliatrici antiaeree a lunga gittata su qualsiasi cosa in movimento. Soprattutto dopo il tramonto, quando si fa sentire l’effetto del khat”.

A ridosso della prima linea c’è un solo civile: Naima Saif Ahmed, un’anziana donna che ha deciso di restare. Il marito l’ha lasciata per un’altra moglie, un figlio è morto in guerra e gli altri se ne sono andati. “Mi aiutano i fighters” dice. “Mi portano l’acqua e un po’ di roba da mangiare. Non ho bisogno d’altro. Se Allah mi cerca, mi troverà sotto questo tetto”.

Di notte è buio totale. Nella città assediata si vedono solo i fari delle jeep militari, i falò della spazzatura e le luci tremule di qualche lampadina tenuta in vita da un generatore. Le strade sono deserte. Il silenzio è rotto dai latrati dei cani, dalla voce del muezzin che recita il Corano e dal rombo delle esplosioni. Dalle finestre la gente osserva con angoscia i punti luminosi che si accendono e si spengono sui fianchi delle montagne: le basi dei ribelli.

Ogni notte è un incubo: i proiettili si abbattono su Taiz senza preavviso, senza logica apparente se non quella di spargere il terrore. E ogni mattina si contano i cadaveri.