Alberto Cairo, Kabul, Afghanistan, April 2010

Giovanni Porzio – da Kabul

Il dottor Schweitzer italiano arriva ogni giorno nel suo ospedale di Kabul prima dell’alba. Indossa il camice bianco, controlla la posta elettronica, legge i referti degli amputati e studia il metodo più veloce per farli camminare: tre ore in solitudine, fino all’apertura dei cancelli alle 8 in punto. “Ho bisogno di questo tempo per me stesso” dice. “Per scrivere, riflettere, organizzare il lavoro. E per accarezzare il mio sogno nel cassetto: costruire decine di centri ortopedici in tutto l’Afghanistan”.

Un sogno che Alberto Cairo, fisioterapista di Ceva, in provincia di Cuneo, sta inseguendo da vent’anni. E che forse è a un punto di svolta. La Campagna per la messa al bando delle mine, l’università Roma Tre e il Senato della Repubblica lo hanno infatti ufficialmente candidato al Premio Nobel per la pace 2010. “Meglio non farsi troppe illusioni” si schernisce. “Ma se davvero mi premiassero sarebbe una vittoria per gli afghani. E nessuno potrebbe più fermarmi!”

In realtà Alberto non si è mai fermato da quando, laureato in Legge a Torino, decise di cambiar vita e di iscriversi a un corso di fisioterapia con le statistiche delle Nazioni Unite in testa: ogni 22 minuti una persona rimane vittima di una mina anti-uomo, il 90 per cento sono civili, di cui il 20 per cento bambini. Solo in Afghanistan i sopravvissuti con gravi mutilazioni sono più di un milione. Ed è proprio a Kabul che l’ex avvocato di Ceva, dopo un’esperienza di tre anni a Juba, in Sudan, approda nel 1990 per assumere la gestione del Centro di riabilitazione per i feriti di guerra del Comitato internazionale della Croce rossa. Con uno slancio pragmatico sintetizzato in un precetto: “Quando vedo uno senza gambe arrivare da noi ho imparato a non pensare “poveretto” ma a calcolare rapidamente quanti giorni serviranno per rimetterlo in piedi”.

Sotto la sua direzione il laboratorio dove si fabbricavano rudimentali protesi si è trasformato nel più grande centro per la riabilitazione fisica della Croce rossa al mondo: vi hanno trovato assistenza quasi centomila pazienti, non solo vittime di ordigni inesplosi ma chiunque sia portatore di un handicap motorio. Paraplegici, bambini con deformità congenite, feriti in incidenti stradali, uomini e donne affetti da tubercolosi, poliomielite e altre malattie invalidanti. “E’ una politica che abbiamo adottato fin dal 1994” spiega Alberto. “Il nostro ospedale è aperto a tutti i disabili: non potevo lasciare fuori dalla porta chi non rientrava nella categoria dei feriti di guerra. Su 6 mila nuovi pazienti all’anno, meno di mille sono oggi mutilati da mine anti-uomo. Ma se curare un amputato è relativamente facile, il trattamento di un disabile richiede un impegno di gran lunga superiore”.

Il Centro ortopedico di Kabul, nel quartiere di Ali Abad, fu assegnato alla Croce rossa dal presidente Najibullah, linciato dai taliban quando occuparono la capitale nel 1996. Accoglie in media, gratuitamente e senza alcuna distinzione poltica, tribale o religiosa, 300 pazienti al giorno e sforna ogni anno 15 mila protesi e ortesi, 10 mila paia di stampelle e un migliaio di sedie a rotelle: una carrozzina importata costa 500 dollari, quelle prodotte in loco non più di 150. Abdul Wahab, ex soldato che ha perso una gamba saltando su una mina, sta avvitando il piede a una protesi artificiale: è uno dei 320 dipendenti dell’ospedale. Altri 300 lavorano nei centri provinciali di Mazar-i-Sharif, Faizabad, Jalalabad, Golbahar, Herat e dal prossimo luglio anche a Lashkar Gah. “Tutti, uomini e donne, tecnici e amministratori, infermieri e cuochi, guardiani e giardinieri, sono mutilati.” sottolinea Alberto. “Persino Susie, il nostro cane, è senza una zampa! Diamo lavoro solo ai nostri ex pazienti, secondo un principio di discriminazione positiva che ha un enorme impatto psicologico. Un Centro per disabili gestito da disabili significa ridare speranza, creare opportunità. L’ho capito nel ’94, grazie a Mahmud. E non lo dimenticherò mai”.

Mahmud, un contadino analfabeta, aveva perso un braccio e due gambe, dilaniate dalle mine, e aveva ricevuto le protesi. Ma un giorno tornò in ospedale disperato: i figli erano cresciuti e lui si vergognava a mendicare. “Sono quel che resta di un uomo” piangeva. “Ma se mi date un lavoro sono disposto a tutto, anche a strisciare per terra”. Senza troppa convinzione, gli costruirono uno speciale sgabello e lo provarono al reparto dove si incollano e si avvitano alcune parti dei piedi. “Dopo una settimana” ricorda Alberto “era il più veloce di tutti e gli altri si lamentavano perché non riuscivano a stargli dietro! Considero Mahmud uno dei miei maestri: non ci si può fermare all’emergenza, devi lasciarti aprire gli occhi, imparare a capire i bisogni dei pazienti. Io ho dato qualcosa agli afghani, ma da loro ho ricevuto molto di più”.

Anche Najmuddin, oggi direttore dell’ospedale, cammina su due gambe artificiali. Nel 1986, appena superato l’esame di maturità, era saltato su una mina anticarro: amputazione totale. Per 5 anni era rimasto seduto su una sedia, davanti alla porta di casa, a guardare il traffico nella “strada dell’invalido”: la gente lo considerava parte dell’arredo urbano. Poi il miracolo dell’assunzione alla Croce rossa con l’incarico di massaggiare i monconi, il diploma di fisioterapista e l’incontro con “Mr. Alberto”, dal quale non si è più separato anche nei periodi, terribili, della guerra civile e del regime talibano.

Il Centro ortopedico fu evacuato la prima volta nel ’92. “Qui passava la linea del fronte” racconta Alberto. “Dalla collina le milizie di Massud lanciavano razzi contro gli hazara del quartiere. Ci spostammo in un annesso dell’ospedale Indira Gandhi, in una struttura realizzata con 150 container. Due anni dopo ci trovammo sotto le bombe di Rashid Dostum e di Gulbuddin Hekmatyar e rientrammo al Centro, nuovamente abbandonato pochi mesi dopo: ci siamo tornati solo nel 2004. Ma anche durante i combattimenti più cruenti abbiamo continuato a spostarci per assistere i mujahiddin feriti. Quando attraversavo la linea del fronte i miliziani mi salutavano sparando in aria”.

Dopo l’11 settembre, al culmine dell’offensiva americana contro l’Emirato del mullah Omar, Alberto era a Golbahar, all’imbocco della valle del Panjshir. Arrivavano in continuazione bambini, donne e guerriglieri orrendamente mutilati: operati dai chirurghi locali o dai medici dell’ospedale di Emergency ad Anabah, dopo qualche settimana si presentavano dal “dottor Alberto”. Nei laboratori i tecnici e gli infermieri fabbricavano le protesi con materiali di recupero. I copertoni dei blindati sovietici, eredità dell’Armata rossa, servivano per realizzare gli snodi alle caviglie delle gambe artificiali: la gomma, dura e compatta, era di ottima qualità e poteva essere riutilizzata più volte. Ma Alberto non vedeva l’ora di riaprire il Centro ortopedico di Kabul, che è la sua vera casa. Molto più della villetta nel quartiere di Wazir Akbar Khan dove l’aspettano i suoi gatti, Toro e Rita 2, e dove il devoto Fatàh-Jan, 70 anni, cuoco e tuttofare, si danna per convincerlo a mandar giù almeno un po’ di minestra. Perché Alberto, innamorato del suo lavoro, farebbe a meno anche di quella.

Generoso e disponibile con i pazienti, con cui conversa in dari o in pashto, le due principali lingue afghane, e a cui devolve buona parte dello stipendio, non concede molto alla propria sfera privata: “Mi alzo alle 3 e mezzo, faccio ginnastica e prima delle 5 sono in ospedale. Torno a casa verso le 8 di sera, mangio e vado subito a dormire. Il venerdì, giorno di riposo, navigo su internet, ascolto la Bbc e leggo: solo romanzi, perché ho bisogno di sognare. Vado in Italia due o tre volte l’anno, sempre con l’ansia di non riuscire per qualche motivo a rientrare in Afghanistan. Faccio una vita monacale, è vero. Ma non riesco a immaginarne una diversa”.

Alberto detesta il palcoscenico, la televisione, le interviste: un carattere diametralmente opposto a quello di Gino Strada, con il quale ha in comune l’avversione per la guerra e l’entusiasmo per l’impegno umanitario. “I media” dice Alberto “hanno enfatizzato una rivalità che tra noi non esiste. Collaboriamo, ci scambiamo i pazienti. E spero che l’ospedale di Emergency a Lashkar Gah possa riaprire: in quella zona ce n’è assoluto bisogno”.

L’impegno di Alberto non si limita ai Centri ortopedici. “La riabilitazione fisica è solo una tappa” afferma. “Il traguardo è il reinserimento sociale dei disabili attraverso la scuola e il lavoro. All’inizio la Croce rossa non voleva saperne: i progetti esulavano dal suo mandato. Ma alla fine l’ho spuntata, dando vita ai primi progetti con fondi privati. Oltre alle visite domiciliari per i midollolesi spinali più gravi, aiutiamo i bambini in età scolare, finanziamo corsi di formazione professionale per i ragazzi e programmi di micro-credito. A Kabul più di 6 mila disabili hanno potuto avviare piccole attività commerciali riacquistando la propria dignità di esseri umani”.

Abdul Hamid, 47 anni, una gamba spappolata da una scheggia di granata, è uno di loro. Quando abbraccia Alberto fatica a trattenere le lacrime. Con i primi 600 dollari del prestito senza interesse ha riattivato il suo vecchio forno nel distretto di Guzargah. Li ha restituiti fino all’ultimo centesimo in 18 mesi e ha ottenuto altri due prestiti. Sul pavimento di pietra uno dei suoi sei figli sta impastando il nan, il pane, ed è fiero del risultato: lui, da grande, farà il fornaio.

Anche Rasmohammed, 45 anni, ha sei figli. Gli mancano le due gambe e un occhio, ma sembra l’uomo più felice del mondo. La minuscola bottega che ha aperto con i fondi del micro-credito è la più fornita del quartiere: vende di tutto, dai fiammiferi al latte in polvere, dalla farina alle lamette da barba.

“E c’è ancora qualcuno che mi chiede perché resto a Kabul” sorride Alberto. “C’è ancora così tanto da fare. Andarsene sarebbe un crimine”.