After the storm
Puerto Rico, April 2018

Al tramonto si accendono le candele. A Naguabo sono in pochi ad avere il generatore, e chi ce l’ha lo usa poco: la benzina costa. Le case del villaggio sono scatoloni di legno con i tetti di lamiera: non potevano resistere alla furia di Maria, l’uragano che lo scorso 20 settembre ha devastato Puerto Rico spazzando via 87.094 abitazioni, distruggendo l’80 per cento delle linee elettriche e più della metà delle piantagioni di banane e di caffè, lasciando 3,3 milioni di persone senz’acqua potabile.

È passato quasi un anno, ma l’isola caraibica – territorio acquisito dagli Stati Uniti nel 1898 dopo la guerra con la Spagna – è ancora in ginocchio: decine di migliaia di portoricani sono senza casa, le strade dell’interno sono interrotte e ovunque sono visibili i segni del passaggio di Maria: edifici danneggiati e abbandonati, negozi chiusi, alberi e pali della luce abbattuti, cavi elettrici penzolanti e montagne di macerie da cui spuntano mobili sfondati, elettrodomestici, materassi, giocattoli, televisori, rottami di metallo. I danni sono stimati in 100 miliardi di dollari.

A Naguabo Playa la señora Jeanette Mas è venuta dalla Virginia per aiutare il padre a riparare il tetto e il portico, portati via dal vento. “Papà ha 88 anni e vive qui da solo” dice. “Il telefono non è stato riattivato e non ci sono trasporti pubblici: per andare in ospedale deve chiedere aiuto ai vicini. Per gli anziani è difficile superare il trauma psicologico e il senso di abbandono”.

A Punta Santiago piove a dirotto: la stagione degli uragani atlantici è ricominciata e in paese la maggior parte delle abitazioni dev’essere ancora messa in sicurezza. “Qui tutto è finito sotto tre metri d’acqua” racconta Pedro, pescatore. “Abbiamo perso tutte le barche e mia madre, che ha 95 anni, si è salvata per miracolo. Stiamo ricostruendo con i fondi federali, ma più della metà degli abitanti non possiede il certificato di proprietà immobiliare e non ha titolo per riscuotere i sussidi della Fema, l’Agenzia federale per la gestione delle emergenze”. Intanto in mare, dice Pedro, non c’è più pesce.

Sulla spiaggia di Tres Hermanos, all’altro capo dell’isola, si accumulano i detriti: grandi tronchi arenati sul bagnasciuga, pneumatici, pannelli solari fracassati. Gli stabilimenti balneari sono chiusi. Le ruspe scavano buche dove seppellire le macerie. “Un uragano così non lo si vedeva da almeno vent’anni” assicura Diego, che condivide con gli amici un piatto di mofongo, il pasticcio di carne e banane verdi, sugli scalini della cappella della Cooperativa de los pescadores. “E di sicuro avremo altre tempeste. Arrivano ogni anno: col cambio climatico sono sempre più violente. E il mare continua a salire”.

Su per le alte colline, dove le case sono palafitte aggrappate ai ripidi pendii, frane e smottamenti hanno sradicato milioni di alberi e travolto centinaia di abitazioni. A Naranjito una famiglia di contadini, padre madre e cinque figli, vive ancora senza luce in un precario rifugio sotto un tetto di fogli di plastica. A Corozal la signora Isabel, 86 anni, è sola e malata. “Ho perso tutto” sospira. “Aspetto solo di morire”.

Ma l’uragano Maria non ha provocato solo una catastrofe umanitaria che è tuttora in corso: ha scoperchiato la realtà di un Paese che è di fatto una colonia di Washington, un Terzo mondo con fast food e CocaCola i cui abitanti si sentono cittadini americani di seconda classe, privi dei diritti politici di cui godono i connazionali della “mainland”.

I portoricani dell’isola non possono votare alle presidenziali, non hanno rappresentanti né in Senato né nel Collegio elettorale che ratifica la nomina del presidente e del vicepresidente e il loro unico delegato al Congresso non ha diritto di voto. Secondo un recente sondaggio, meno della metà degli americani è consapevole che i portoricani sono cittadini degli Stati Uniti.

“La nostra capitale, San Juan, è stata fondata nel 1521 ed è la più antica città su cui sventola la bandiera a stelle e strisce” dice Luis, autista di Uber. “Ma nella bandiera la stella di Puerto Rico non c’è. Dopo la cessione dalla Spagna abbiamo subito una feroce repressione, ma nelle scuole la storia la insegnano gli americani. Persino la ministra dell’Istruzione è un’americana. Gli Usa controllano l’economia, la finanza, i media e hanno imposto il loro modello di sviluppo. La classe media è stata distrutta, i commercianti sono schiacciati dalla grande distribuzione. Qui ci sono solo due classi: i ricchi e i poveri”.

Per due volte, nei referendum del 2012 e del 2017, i portoricani si sono espressi a larghissima maggioranza per trasformare il “territorio” in uno stato a americano a tutti gli effetti. E lo scorso 27 giugno la rappresentante dell’isola a Capitol Hill, Jennifer González Colón, ha presentato una mozione in tal senso: solo il Congresso ha infatti la facoltà di decidere sul futuro di Puerto Rico.

La disastrosa gestione del dopo-uragano ha esasperato il risentimento popolare nei confronti di Washington. “Abbiamo tradito e abbandonato tre milioni e mezzo di cittadini americani” ha denunciato il premio Nobel per l’economia Paul Krugman sulle colonne del New York Times. “La risposta all’uragano Maria è stata colpevolmente inadeguata, nettamente al di sotto degli sforzi profusi per le calamità naturali in altre aree degli Stati Uniti”.

Il paragone con l’uragano Harvey, che investì il Texas alla fine di agosto 2017, è illuminante. Sei giorni dopo l’impatto di Harvey l’esercito aveva già inviato 73 elicotteri a Houston; ci sono volute tre settimane per vedere arrivare i primi elicotteri a Puerto Rico. Nove giorni dopo Harvey la Fema aveva stanziato 142 milioni di dollari per l’assistenza alle vittime; nove giorni dopo Maria i fondi approvati per Puerto Rico ammontavano appena a 6,2 milioni di dollari. Dopo nove giorni in Texas erano già presenti 30 mila uomini spediti dal governo federale; a Puerto Rico, nello stesso lasso di tempo, ne sono arrivati meno di diecimila. La Fema ha approvato gli interventi d’urgenza in Texas in soli dieci giorni; ce ne sono voluti 43 per l’isola caraibica. “Non c’è dubbio che siamo stati discriminati” asserisce il governatore di Puerto Rico, Ricardo Rosselló. “Se fossimo uno stato a pieno diritto, Washington avrebbe certamente mobilitato ben altri mezzi, uomini e risorse”.

 

Donald Trump ha liquidato le polemiche con un tweet autocelebrativo: “abbiamo fatto un fantastic job a Puerto Rico”. Non prima, però, di avere insultato la sindaca di San Juan Carmen Yulín Cruz, tacciata di “scarsa leadership” per avere criticato l’inefficienza dei soccorsi, e di avere lasciato intendere che i problemi dell’isola sarebbero da imputare ai portoricani stessi e all’incompetenza degli amministratori locali.

Il malcelato disinteresse e l’improvvisazione dell’inquilino della Casa Bianca sono apparsi evidenti durante l’unica frettolosa visita presidenziale a Puerto Rico 13 giorni dopo il disastro (a Houston si era precipitato due volte nei primi otto giorni) quando, impersonando un giocatore di basket, prese a lanciare rotoli di carta all’attonita folla di affamati senzatetto radunati in una chiesa.

Ai sopravvissuti Trump fece capire che Maria non era un “big deal”: i morti erano solo 64. Ma nessuno ci ha creduto. E infatti uno studio pubblicato in giugno dall’autorevole New England Journal of Medicine sostiene che i decessi causati dall’uragano sono almeno 70 volte più elevati: 4.645, di cui un terzo dovuto alla mancanza o al ritardo delle cure mediche. “L’amministrazione Trump” ha commentato il deputato democratico dell’Arizona Ruben Gallego “non è stata in grado di gestire l’emergenza e deve ritenersi responsabile della morte di migliaia di cittadini americani a Puerto Rico”. Uomini e donne che continuano a morire.

Dopo l’uragano l’ansia, lo stress, la perdita della casa e del lavoro, la depressione hanno innescato un’epidemia di suicidi. Tra il novembre 2017 e il gennaio 2018 l’hotline Línea PAS ha ricevuto 3.050 chiamate di persone che avevano tentato di togliersi la vita: un aumento del 246 per cento rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente.

Maria è stata devastante anche perché ha colpito un Paese già in bancarotta, gravato da un debito pubblico di 73 miliardi di dollari e stremato da decenni di stagnazione economica, esacerbata dal malgoverno, dalla corruzione e dalla dipendenza coloniale dagli Stati Uniti, che hanno di recente eliminato le agevolazioni fiscali. A Puerto Rico il 58 per cento dei bambini vive al di sotto della linea federale di povertà (la media negli Usa è il 22 per cento); i tassi di disoccupazione e di mortalità infantile sono il doppio di quelli della “mainland”; in dieci anni il tasso di scolarizzazione è sceso del 40 per cento e la spesa sanitaria si è dimezzata. In compenso è aumentato il consumo di droga.

La señora Adelina ha tre grandi pappagalli in gabbia sul davanzale della sua casetta nel barrio La Perla, il vecchio quartiere operaio di San Juan. Uno azzurro, uno verde, uno giallo. Dice che hanno una trentina d’anni. Dice anche che nessuno dei suoi cinque figli si droga: “Hanno studiato, sono andati all’università. Uno è in Marina, un altro è ingegnere. Però ne vedo tanti, ragazzi e ragazze, alcuni giovanissimi, stramazzare a terra qui nel vicolo, distrutti da quella roba. Che pena mi fanno!”

Basta girare l’angolo e sono lì, con la testa tra le mani, accucciati contro i muri color pesca e limone degli stretti carrugi, tra bottiglie rotte, rifiuti, stracci e lattine che rotolano nel vento. Sono strafatti di crack, di cocaina e di Xylazine, una micidiale miscela di eroina e di anestetici per cavalli che provoca un’immediata perdita di conoscenza. La Isla del Encanto degli opuscoli turistici, si è già guadagnata l’appellativo di “isola degli zombie”.

Per i trafficanti messicani, colombiani, peruviani, venezuelani e dominicani i porti e gli aeroporti di Puerto Rico sono piattaforme ideali per il contrabbando di droga verso il Canada e gli Stati Uniti. Solo nei primi tre mesi del 2018 sono stati sequestrati 1.670 chili di cocaina: una frazione delle tonnellate di stupefacenti che transitano ogni anno dall’isola con la complicità dei narcos locali e di una polizia notoriamente corrotta.

Nei derelitti “housing projects” della periferia di San Juan le gang di spacciatori, “La Onu”, “Rompe Onu”, “Los Menores”, si affrontano a mano armata per il controllo del territorio e del mercato. E dopo l’uragano, con la crescita della disoccupazione, la chiusura di migliaia di esercizi commerciali e lo spopolamento delle campagne, violenza e criminalità si sono impennate. A Puerto Rico si conta un morto ammazzato ogni otto ore.

“Abbiamo paura, certo” dice Francisco, 67 anni, che è venuto a vivere con la moglie nel barrio di Trujillo Alto quando Maria ha travolto la loro palafitta sulle colline di Yabucoa. “I sicarios e i pandilleros girano per le strade con mitra e pistole. Ogni giorno e ogni notte ci sono sparatorie e omicidi. Ma questa, adesso, è la nostra casa”.