Running for life
Honduras, February 2019

Gli halcones, le sentinelle appostate agli incroci, hanno il cellulare acceso e il fierro alla cintura. Scrutano le auto che si addentrano nei vicoli del quartiere: blocchi di cemento con i panni stesi, cancelli incatenati, pulperie che vendono riso e fagioli. Avanziamo con i finestrini abbassati e le mani bene in vista fino a una zona di edifici abbandonati, cani randagi e filo spinato: la linea, il confine che divide i territori controllati dalla Mara Salvatrucha (MS13) e dalla pandilla del Barrio 18. Chi l’attraversa è un uomo morto. Ma non Danny Pacheco, un pastore evangelico rispettato per il suo impegno di mediatore tra le gang e per avere scongiurato più di un inutile spargimento di sangue.

“È una guerra” dice il pastore, che vive con la famiglia nel barrio Rivera Hernández di San Pedro Sula. “E questo è il settore più violento di una delle città più violente del mondo. Stupri, sequestri, omicidi. Le vittime sono migliaia, più che in Iraq e in Siria”. E sono in migliaia a fuggire, unendosi alle carovane di migranti in marcia verso il Messico. Se ne vanno per sopravvivere. Da soli o con la famiglia: studenti, campesinos, donne incinte e madri con i neonati in braccio, negozianti che non hanno i soldi per pagare il pizzo.

La “casa loca” non è distante. Un edificio a tre piani ai margini dello slum, evacuato dagli inquilini finiti sotto il fuoco incrociato. Pacheco, che per avere denunciato le collusioni della polizia col crimine organizzato ha subito numerosi attentati (in settembre i militari hanno scaricato 35 proiettili sul suo pickup), sale i gradini ingombri di vetri rotti, lattine e mozziconi di sigarette. Le pareti sono coperte di slogan, minacce e simboli delle maras. Il pavimento è intriso di sangue rappreso. “È qui che i sicari torturano e uccidono” dice il pastore. “Di notte si sentono le grida. Fanno a pezzi gli informatori con la motosega, li mettono in un sacco e li buttano nelle discariche e nei canali di scolo. Oppure legano un cavo al collo e ai piedi dei prigionieri e lo stringono fino a spezzare la spina dorsale. Il cugino di mia moglie è morto così”.

Da cinque anni Pacheco è in prima linea. Tiene i contatti con i capi delle gang in carcere, negozia armistizi, cerca di evitare massacri e rappresaglie, organizza feste di quartiere, proiezioni di film, partite di calcio. E vuole trasformare la “casa loca” in un centro comunitario con una scuola professionale e un rifugio per le donne. Ma è una battaglia che non ha vincitori. Le bande che si disputano il business della droga e delle estorsioni si moltiplicano: MS13, 18, Batos Locos, Los Feos, Los Olanchanos, Los Tercereños, Los Cristianos, la Banda del Cementerio. Tutti devono pagare l’impuesto de guerra: tassisti, negozianti, conducenti di autobus, piccoli imprenditori, semplici cittadini. Chi sgarra non ha scampo. I sicarios non risparmiano nemmeno i bambini.

“Niente foto!” In una stanza senza luce della colonia Casa Blanca i muchachos sono nervosi. Quelli della 18 hanno sequestrato un loro amico, Rinaldo, un chipote di vent’anni che ha attraversato la strada sbagliata. Sono passate tre settimane ma il corpo non è stato trovato. “Lo avranno seppellito in un cimitero clandestino” dicono. “Ci vogliono provocare, vogliono impadronirsi di questo settore. Qui la tregua, in dicembre, è durata meno di nove ore”.

Negli squallidi barrios di San Pedro Sula, città industriale che produce i due terzi del pil honduregno, nessuno può sottrarsi all’implacabile legge delle maras. Le gang reclutano ragazzini di 8-10 anni e li sottopongono a una crudele iniziazione, il brincado: i novizi devono resistere a un prolungato pestaggio e le femmine sono costrette a fare sesso con i membri della banda. Una volta accettati non potranno più lasciare il gruppo, pena la morte. “La pandilla è la loro famiglia” spiega Pacheco. “Sono pronti a dare la vita per i compagni. Possono assassinare senza batter ciglio un fratello o un genitore ma non tradirebbero mai il patto che li lega. C’è più solidarietà tra loro che tra i cristiani che frequentano la mia chiesa. Per questo sono invincibili”.

Notte e giorno le ambulanze reduci da un levantamiento, il recupero di un corpo, arrivano all’obitorio municipale. I parenti sostano fuori, seduti su due panchine. Le pratiche sono lunghe, a volte interminabili. C’è una donna che aspetta da 15 mesi di riconoscere il figlio: “In Honduras” dice “non fanno l’analisi del dna. Hanno mandato i campioni biologici in Guatemala”. Manuel bivacca alla morgue da due settimane: “Mio nipote aveva 19 anni. Lo hanno ucciso a colpi di machete in una piantagione di caffè e quando l’hanno trovato era irriconoscibile: gli uccelli lo avevano spolpato”.

Nelle celle frigorifere ci sono dozzine di corpi non reclamati che finiranno nelle fosse comuni. I più fortunati avranno una sepoltura e un feretro fornito da una delle funerarias che si spartiscono il mercato. “Gli affari vanno a gonfie vele” ammette soddisfatto Angel Lara, proprietario delle pompe funebri Divino Paraiso. “Abbiamo soluzioni per tutte le tasche: per noi c’è mai in crisi”. Chi non ha un soldo può sempre confidare nella politica: deputati e candidati sindaci regalano bare in cambio dei voti.

Ufficialmente il tasso di omicidi in Honduras è sceso da 86 a 48 per centomila abitanti e San Pedro Sula ha perso posizioni nella graduatoria dei luoghi più sanguinari del pianeta. Ma sono cifre che non tengono conto del crescente numero di desaparecidos (mille vittime non registrate nel 2018) e dell’impennata del gennaio di quest’anno: 35 morti in dieci omicidi multipli in meno di un mese.

Le donne sono particolarmente a rischio in un Paese imbevuto di machismo dove l’aborto è vietato anche in caso di stupro e di decesso imminente del feto o della madre. Per i 600 mila abitanti di Choloma, la zona industriale alle porte di San Pedro dove le maquilas straniere del tessile e della componentistica impiegano manodopera a basso costo, non c’è un solo ospedale. L’unica clinica materno-infantile è stata aperta nel 2017 da Medici senza frontiere, che in un anno hanno fatto nascere 678 bambini. Racconta Sophie Moureau, responsabile del progetto: “Nel 2018 abbiamo avuto a Choloma 201 omicidi e 23 femminicidi. Violenza domestica, abusi sessuali e gravidanze precoci sono molto diffuse”.

L’ecatombe honduregna, alimentata dall’impunità, ha inghiottito giornalisti, attivisti politici, pandilleros, assistenti sociali, studenti, contadini, omosessuali e ambientalisti come Berta Cáceres, trucidata nel 2016. Più di 4.500 donne sono state assassinate in Honduras nell’ultimo decennio, una al giorno dall’inizio di quest’anno. Gli orfani sono 150 mila su una popolazione di 9 milioni.

Le istituzioni, corrotte fino al midollo dal parlamento all’ultimo dei poliziotti, sono da sempre ostaggio dei narcotrafficanti e di una ristretta casta d’imprenditori e proprietari terrieri: i turcos che fanno e disfano i governi, si spostano su auto blindate e abitano in ville-bunker protette da milizie armate.

L’ex repubblica delle banane, già terra di conquista della United Fruit Company e della Dole, è oggi un narcostato da cui transita l’80 per cento della coca colombiana destinata al mercato americano ed europeo. Il 15 gennaio a Livorno la polizia ha sequestrato 650 chili di cocaina nascosta in un container di caffè honduregno imbarcato a Puerto Cortés, l’outlet commerciale di San Pedro. Gran parte della droga è trasportata a bordo di pipantes, lance fluviali che raggiungono l’intrico di mangovie e paludi della Costa de los Mosquitos, dove i “narcoavionetas” dei cartelli messicani decollano da piste improvvisate allestite in meno di 24 ore. Secondo l’Unodc, l’agenzia antidroga delle Nazioni Unite, il 13 per cento del pil dell’Honduras è connesso al narcotraffico.

Le testimonianze dei fratelli Rivera Maradiaga, boss della gang di narcos honduregni Los Cachiros, che nel 2015 si sono consegnati alla Dea, hanno messo a nudo le complicità dell’establishment di Tegucigalpa. Il figlio dell’ex presidente José Porfirio Lobo, Fabio, arrestato ad Haiti, sta scontando a Miami una condanna a 24 anni per traffico di cocaina. Sempre in Florida è finito in carcere Yani Rosenthal, ex deputato ed ex ministro, rampollo di una delle più potenti famiglie honduregne, presidente del Marathón, la squadra di calcio di San Pedro, e proprietario dello stadio a lui intitolato.

Suo zio Jaime, il patriarca del clan, dirigente del Partito Liberale ed ex vicepresidente della repubblica, fondatore del Grupo Continental (banche, assicurazioni, edilizia, società agroalimentari), è accusato di gestire il più esteso network di riciclaggio di denaro sporco dell’America Centrale. E lo scorso novembre, con l’imputazione di traffico di coca e connivenza con le maras, è stato ammanettato a Miami Juan “Tony” Hernández, fratello dell’attuale presidente Juan Orlando Hernández, riconfermato nel 2017 nonostante un veto costituzionale e i palesi brogli elettorali.

“Il Paese sprofonda nella corruzione, nella violenza, nella disoccupazione e nella miseria” afferma padre Fernando Ibanez, della diocesi di San Pedro, che sforna ogni giorno centinaia di pasti caldi per gli indigenti. “Tutti cercano di emigrare: è un esodo senza fine”.

A mezzanotte duecento migranti sono in partenza dal terminal degli autobus per Aguas Calientes, frontiera del Guatemala. C’è chi s’indebita per ottenere un passaggio sicuro negli Stati Uniti. I coyote vendono caro il sogno americano: dai 5 ai 10 mila dollari, rimborsabili – se va bene – con anni di lavoro nero. Altri si mettono in cammino, con uno zaino in spalla e una tanica d’acqua, e si uniscono alle carovane che vanno al nord.

Ne intercetto una a Tecun Uman, confine messicano. Sono in cinquemila sul ponte del Suchiate, accampati tra i binari della vecchia ferrovia in disuso. Vengono dall’Honduras ma anche dal Salvador e dal Guatemala: il triangulo norte della disperazione. Molti hanno già il permesso valido un anno rilasciato dal governo di López Obrador. Passare il fiume sulle balsas, le zattere che trasportano merci di contrabbando, costa 6 quetzal, meno di un dollaro. Ma la maggior parte aspetta. “In gruppo è più sicuro” spiega Noemi, in viaggio con due figli piccoli e il marito. “In Messico i trafficanti sequestrano i migranti e ricattano i parenti. Meglio stare uniti. A San Pedro non potevamo più restare: senza lavoro, rischiando ogni giorno la vita. Speriamo di trovare un impiego e di mandare i bambini a scuola”.

Un’altra carovana, la quarta dallo scorso ottobre, sta attraversando il Guatemala. “Si formano in modo spontaneo, grazie a Facebook e al passaparola” assicura l’ex deputato dell’opposizione Bartolo Fuentes, che il governo di Tegucigalpa accusa di fomentare l’emigrazione. “È gente che non ha più niente, nemmeno la speranza. E non sarà certo il muro di Trump a fermarli”. Anche i cambiamenti climatici incentivano l’esodo. La pioggia non cade, i contadini non possono seminare. Lo scorso anno l’80 per cento della produzione agricola è andato perduto. E lo stesso si prevede quest’anno.

È una marcia di 4 mila chilometri: in autobus o sulla Bestia, il “treno della morte”; poi a piedi nel deserto di Sonora, sulla ruta del diablo. Fino al muro di Tijuana, dove li aspettano i coyote e l’esercito di zio Sam. Eppure gli Stati Uniti hanno avuto un ruolo decisivo nel creare le condizioni da cui i migranti stanno fuggendo. Per decenni nel backyard centroamericano hanno organizzato colpi di stato, sostenuto governi fantoccio, addestrato gli squadroni della morte. In Nicaragua hanno armato segretamente i contras antisandinisti. In Salvador hanno finanziato le milizie paramilitari responsabili di oltre 75 mila morti. E in Honduras hanno appoggiato il golpe del 2009 contro il presidente Manuel Zelaya.

Anche le pandillas sono made in the Usa. Le gang nacquero nelle prigioni californiane e nei quartieri di Los Angeles dov’erano affluiti migliaia di esuli salvadoregni in fuga dalla guerra civile. Nel 1992, alla fine del conflitto, furono deportati in massa. Altri 120 mila sono stati espulsi tra il 2001 e il 2010: e dal Salvador il cancro delle gang si è rapidamente esteso al Guatemala e all’Honduras.

A Tijuana era approdato da San Pedro Sula anche Alexander Ruiz Dubon. Sua madre Fanny, 34 anni, abita con i nonni materni nella colonia Suazo Cordoba. Ogni cosa, nella modesta stanza, parla del dolore: i ritratti incorniciati alle pareti, la nonna che sferruzza a capo chino su una sedia, gli occhi tristi del piccolo Oscar, le lacrime di Fanny. Una famiglia distrutta: la madre di Fanny uccisa dal marito, tre fratelli e il padre di Oscar assassinati dalle maras.

“Alexander ha voluto andare con la carovana, in ottobre” racconta Fanny. “Diceva che non voleva farmi soffrire, che in America avrebbe avuto una vita migliore. Il 18 dicembre mi ha chiamato da Tijuana. Ti voglio bene, mi ha detto, non ti preoccupare. Il giorno dopo ho ricevuto questo messaggio sul cellulare: ‘Signora, la stiamo aiutando per rimpatriare il cadavere di suo figlio. Per favore ci contatti, sono l’avvocato Gerardo Padilla’. Aveva solo 16 anni”.

Al cimitero la tomba di Alexander è già pronta, un loculo di cemento grigio accanto a quelli della nonna e degli zii. È passato più di un mese. Fanny lo sta ancora aspettando.