Miners, Lubumbashi, DRC, June 2006

Giovanni Porzio – da Lubumbashi (giugno 2006)

Un girone dantesco: dall’alba al tramonto quattromila disperati scavano a mani nude nel fango color ocra della miniera di Ruashi, nella remota provincia congolese del Katanga. I più robusti scendono nei crateri, strisciano nei cunicoli delle pericolanti gallerie e armati di picconi e rudimentali scalpelli aggrediscono il filone di roccia. I portatori risalgono a fatica le montagne di detriti, con le spalle piagate dai sacchi di juta da 50 chili. I bambini, centinaia di bambini dagli 8 ai 15 anni, fanno il lavoro “leggero”: spaccano le pietre a martellate e immersi nell’acqua fetida delle pozze di lavaggio setacciano ogni giorno tonnellate di terra inalando polveri e letali particelle di metallo.

Sono i “creuseurs”, i cercatori artigianali, l’eufemismo coniato per definire i minatori illegali che spinti dalla fame hanno invaso le concessioni appaltate alle grandi multinazionali. Dagli inesauribili giacimenti estraggono rame, oro, diamanti, cobalto e la preziosa cassiterite in cui si trova il coltan (columbite-tantalite), il superconduttore indispensabile per far funzionare i nostri computer portatili, i nostri telefoni cellulari e le PlayStation dei nostri figli: l’80 per cento delle riserve mondiali è nascosto nelle impenetrabili foreste della Repubblica democratica del Congo.

Ma sono ricchezze che grondano sangue. La corsa all’accaparramento dei minerali strategici essenziali allo sviluppo dell’industria bellica ed elettronica è la principale causa di un conflitto che in otto anni ha mietuto 4 milioni di vittime: un massacro paragonabile soltanto alle stragi naziste, perpetrato nell’indifferenza dell’opinione pubblica internazionale. Il crollo nel 1997 della corrotta dittatura di Mobutu Sese Seko, che per 32 anni aveva depredato in modo sistematico le risorse del sottosuolo, il saccheggio è continuato. Le guarnigioni di otto eserciti africani si sono impossessate delle miniere del Kivu, del Katanga e del Kasai obbligando la popolazione al lavoro forzato. E nell’immenso paese senza legge, senza amministrazione e senza strade, precipitato nell’anarchia e nella più assoluta impunità, i militari allo sbando, i signori della guerra e i miliziani Mayi-Mayi eccitati da infusi di erbe, droghe e pozioni magiche si sono abbandonati a ogni genere di violenze contro i civili: stupri, estorsioni, esecuzioni sommarie, cannibalismo rituale. Più di 3 milioni di contadini sono stati costretti ad abbandonare i loro villaggi.

Gli accordi di pace firmati a Lusaka nel 1999 hanno acceso qualche debole speranza. Gli eserciti stranieri si sono ritirati. Il presidente Joseph Kabila, capo di uno stato che di fatto non esiste, ha formato un governo di riconciliazione nazionale. E il prossimo 31 luglio 26 milioni di elettori voteranno nelle prime elezioni libere della storia dell’ex Zaire. Ma la violenza e le rapine, nei killing fields dell’Africa centrale, non sono cessate. Nell’Ituri e nel Katanga si continua a combattere. Anche se “Gedeone”, uno dei capi dei Mayi-Mayi, ha rinunciato al Kalashnikov, migliaia di miliziani non si accontentano dei 25 dollari al mese promessi dal governo e si rifiutano di consegnare le armi. Solo nel Kivu e solo nell’ultimo anno, secondo le stime delle Nazioni Unite, sono state violentate 45 mila donne. Ogni giorno più di 1.200 congolesi muoiono di fame e di malattie. E quasi la metà del budget militare mensile di 8 milioni di dollari scompare nelle capaci tasche dei generali congolesi.

Lubumbashi, un milione di abitanti, è una linda e fiorente città di provincia: un altro pianeta rispetto alla squallida e tentacolare palude di miseria di Kinshasa. I semafori funzionano. L’asfalto resiste. Le pompe di benzina erogano il carburante. I giovani sorseggiano birra Simba ai tavoli del Katanga Fried Chicken e al sabato la discoteca Hollyboom è piena di espatriati: americani, canadesi, indiani, cinesi, belgi, libanesi, australiani. L’economia ha ripreso a girare, stimolata dall’aumento della domanda di minerali strategici in India e in Cina. Il prezzo del rame, da quando il Cile nel 2005 ha deciso di dimezzare l’estrazione per frenare l’esaurimento delle miniere, è salito da 1.300 dollari la tonnellata a 8 mila; quello dello zinco da 750 a 3.600; il cobalto e il coltan, di cui il Congo è il principale produttore, sono passati rispettivamente da 6 a poco meno di 20 dollari la libbra e da 60 a oltre cento dollari il chilo. “E’ diventato conveniente persino recuperare i vecchi residui di produzione” spiega il console onorario italiano Giovanni Zunino, in Congo da 22 anni. “Il loro valore è decuplicato”.

Nel cuore di Lubumbashi, “Big Hill”, la montagna di scarti della Gécamines, la società nazionalizzata da Mobutu e fallita nel ’97, è stata rilevata da un consorzio americano e dal gruppo di George Arthur Forrest, l’imprenditore belga che ha fatto la storia delle miniere in Katanga: il gigantesco cono contiene tonnellate di polvere di zinco, rame e coltan. Forrest si è aggiudicato anche Kamoto, la più grande cava a cielo aperto del Congo. Gli israeliani hanno messo gli occhi sui giacimenti diamantiferi di Mbuji-Mayi. Mentre avvolte nel mistero sono le miniere di uranio di Kolwezi, difese dai mercenari delle compagnie di sicurezza private.

I belgi avevano cementificato i pozzi da cui fu estratto il materiale utilizzato per fabbricare le bombe lanciate du Hiroshima e Nagasaki. Ma i “creuseurs” non si sono fermati neppure di fronte alle micidiali radiazioni. Il manto di calcestruzzo è stato sfondato e i contrabbandieri organizzano trasporti clandestini nella vicina Zambia: nei mesi scorsi la polizia ha fermato un camion di yellowcake, la materia prima da cui si estrae l’uranio. Recenti indagini hanno confermato un’elevata concentrazione di radionucleidi nelle acque e nel suolo della regione.

A Kasumbalesa, il posto di confine, dove l’unico controllo è la verifica dell’ammontare della mazzetta versata ai doganieri, transitano in media venti camion stracarichi di minerali al giorno. Il cobalto, impiegato oltre che nell’elettronica e nell’aeronautica nella fabbricazione delle batterie, è quasi tutto destinato a soddisfare il mercato cinese: un business da 1,7 milioni di dollari la settimana.

Gli incidenti con i minatori artigianali si moltiplicano. “I bambini del Congo muoiono nelle miniere perché i nostri figli in America e in Europa possano continuare a uccidere immaginari alieni nei loro videogiochi” accusa senza mezzi termini la deputatessa inglese Oona King. Nell’ottobre 2004, a Kilwa, l’esercito ha massacrato un centinaio di “creuseurs” utilizzando veicoli e aerei forniti dalla società mineraria australiana Anvil. Lo scorso 24 aprile, a Kulu, un minatore e due impiegati della Anvil sono morti in un tumulto. Le compagnie straniere si sono impegnate ad applicare standard più accettabili e a limitare lo sfruttamento del lavoro minorile. Ma la fame spinge un numero crescente di congolesi a rischiare la vita nelle gallerie: “Non hanno alternative” dice Gaston Namushidi, responsabile dell’Emak, il sindacato dei minatori artigianali. “In Katanga i cercatori illegali sono più di 150 mila: 40 mila hanno meno di 18 anni”.

L’italiana Alba (Associazione laica bambini africani: www.albaonlus.it, alba@fastwebnet.it), in collaborazione con l’Unicef e Group One, una ong belga, ha lanciato un progetto: realizzare una scuola per 250 bambini tra gli 8 e i 15 anni. E ha chiesto a Panorama di invitare i suoi lettori ad adottarli a distanza, per evitare che tornino nelle miniere.

A Ruashi la giornata volge al termine sotto il cielo avaro di pioggia, ma i piccoli schiavi continuano a scavare e a setacciare, immersi fino alla vita nella melma giallastra. Nudi, senza attrezzi adeguati e senza protezione. I sacchi di juta si accumulano ai piedi degli emissari della compagnia mineraria: si procede alla pesa e alla valutazione, a occhio, dell’eterogenite, il minerale grezzo. Una tonnellata vale 175 dollari se il contenuto in rame raggiunge il 20 per cento; 160 dollari se la percentuale di cobalto arriva al 3 per cento, 275 se sfiora il 5 per cento. I minatori possono portar via il carico di una bicicletta, 150.200 chili, che venderanno ai trafficanti cinesi in attesa come avvoltoi oltre il posto di blocco, assieme alle prostitute malate di aids, agli spacciatori di droga e ai venditori di cassava, sulla strada della vicina baraccopoli.

Si sente un canto ritmato. Oltre le colline di rame e di cobalto, preceduto da una croce di legno, un corteo di uomini e donne danza lungo il sentiero polveroso trasportando una bara. Nessuno piange. Si chiamava Mamgwelo Dorcin: aveva 14 anni.